Il nome di Narciso Feliciano Pelosini è
oggi sconosciuto ai più. Eppure egli fu, nella seconda metà dell’ottocento, una
figura di un certo rilievo, a livello toscano e anche nazionale, sia come
politico, che come avvocato, ma anche come uomo di cultura e letterato. Oggi
grazie alla preziosissima opera dell’editore Marco Solfanelli si deve la
riscoperta della sua opera maggiore, e più conosciuta, il “Maestro Domenico”
appunto. In questa novella, il protagonista, fedele suddito del Granduca, si
assopisce sotto un albero e si risveglia dopo l’unificazione italiana, in una
società che fatica a riconoscere, in aperta rottura con la vecchia societas
granducale.
Ma chi era il Pelosini? Narciso Feliciano
— questi i nomi di battesimo — nasce a Fornacette di Calcinaia, provincia di
Pisa, nel 1833, da una famiglia benestante, ma certamente non ricca e non
nobile. Instradato alla vita ecclesiastica nel seminario di Montepulciano,
scopre ben presto di non avere la vocazione sacerdotale (un fratello invece si
farà prete), e si iscrive all’Università di Pisa per studiare diritto. Si
laurea all’Università di Siena nel 1854, non prima di aver dato alle stampe una
prima raccolta di poesie, dal titolo “Poesie italiane”. Già dal titolo dell’opera,
si evince il clima culturale e sociale in cui è immerso il Pelosini, di cui
egli stesso risente. Pisa è al centro dei fermenti unitari, e certamente il
Pelosini non è estraneo a questo fermento politico. Infatti in questo periodo
entra in contatto con i circoli culturali di tendenza liberale, grazie ai quali
conosce e stringe amicizia, tra gli altri, anche con il Carducci, il quale lo
ricorda nelle sue memorie come un “giovane
d'idee avanzate, non fervente cattolico come dipoi”.
Dopo una breve parentesi di docenza alla
scuola di Scienze Aziendali di Firenze “Cesare Alfieri”, ove insegna diritto
penale, si dedica definitivamente alla professione forense. Grazie alla sua ars oratoria, alla battuta pronta e
sagace, diviene in breve un avvocato penalista piuttosto conosciuto anche oltre
i confini toscani, e partecipa ad importanti processi, arrivando anche a
difendere Giacomo Puccini. Peraltro l’episodio è spassosissimo: il Puccini, appassionato
cacciatore, si recava spesso in riva al lago di Massaciuccoli a sparare nella
riserva del Marchese Ginori Lisci, col permesso del proprietario ovviamente. Se
non che, con l’aiuto di un boscaiolo del posto, iniziò a cacciare di frodo,
fino a che una sera non fu fermato da due carabinieri. Instaurato il giudizio
per il reato di caccia di frodo e porto d’armi abusivo avanti al Pretore di
Bagni San Giuliano, il Pelosini ne assunse la difesa e, con un’accorata arringa
difensiva, sostenne che non essendo stato trovato il corpo del reato, e cioè
l’anatra contro cui il colpo di fucile del Puccini era diretto, mancava la
prova del fatto, e che il suo assistito si era recato in riva al lago solo per
provare delle nuove cartucce per il fucile. Fu così che il Puccini fu assolto.
In cambio, oltre ad un lauto pranzo offerto, il Pelosini ricevette in regalo
uno spartito con dedica autografa dell’illustre musicista.
Ma torniamo alla vita del Pelosini.
Intorno agli anni sessanta egli si riavvicina al cattolicesimo e assume
posizioni sempre più critiche nei confronti del liberalismo e dell’unificazione.
Evidentemente gli avvenimenti cui egli assiste, lo influenzano fortemente,
tanto da fargli rivedere le sue posizioni di liberale moderato. Questo periodo
di forte conversione e di critica al liberalismo, culmina nel 1871 con la
pubblicazione – a proprie spese - della “fiaba” Maestro Domenico, che stasera abbiamo
il piacere di presentare. L’opera, apertamente antirisorgimentalista, dà il via
a nuovi contrasti con il Carducci e con i circoli liberali toscani. Contrasti
che, anche a causa del carattere piuttosto burbero e oltremodo schietto del
Pelosini, negli anni successivi si acuiranno sino ad una rottura netta.
Tra il 1882 e il 1890 è per due volte
Deputato nel gruppo della Destra, e poi diviene Senatore del Regno; in tale
ambito la sua attività politica è principalmente orientata nella riforma del
diritto penale. Muore a Pistoia nel 1896, ove si è ritirato nell’ultimo
periodo, profondamente sfiduciato per l’evoluzione, o meglio l’involuzione,
della società italiana post unificazione.
Tratteggiata così brevemente la vita del
Pelosini, se ne ricava una figura piena di sfaccettature, variegata, complessa
nei modi ma schietta e sincera nei pensieri. Certamente egli non fu un
pensatore della Restaurazione, uno strenuo difensore legittimista, un esponente
di quel connubio tra Trono e Altare che ispirò tanti intellettuali
ottocenteschi (il grande Monaldo Leopardi tra tutti). Ma questa particolarità
non lo rende meno interessante, anzi. E proprio questo suo percorso,
intellettuale e religioso, dal liberalismo a posizioni più tradizionalmente
orientate, ne fa una figura di rilievo, e degna di attenzione.
Il percorso di conversione, e la
radicalizzazione della critica risorgimentalista, ci fanno capire come il
Pelosini si trovò a confrontarsi con la realtà, che evidentemente non era
quella tanto vagheggiata e auspicata da chi si era fatto promotore
dell’unificazione. Egli si mosse lungo binari di assoluto realismo, scevri di
connotati ideologici, anche se ovviamente pieni di idealità e di sentimenti. Il
riavvicinamento al cattolicesimo più profondo, gli permise di aprirsi ad una
visione della societas tradizionalmente
orientata, fondata sui sani principi cristiani del buon vivere e dell’unicuique suum.
Egli da liberale moderato, non ostile
per partito preso al processo di unificazione, si spostò su posizione politiche
di difesa delle piccole patrie, fondate sulla comunione delle credenze e degli
affetti. Non una idealizzazione del bel tempo che fu (inteso come luogo
astratto, come aveva fatto l’illuminismo con la teoria del buon selvaggio),
bensì la concreta e triste constatazione che l’invenzione dell’Italia
risorgimentale aveva distrutto quel collante fondamentale costituito
dall’appartenenza alla stessa terra (la Toscana lorenese e granducale) e alla
stessa fede, così come trasmessa dalla Chiesa Cattolica. Quel che descrive il
Pelosino, e soprattutto quel che egli contesta, è frutto dell’esperienza
diretta, di chi addirittura, in quegli anni tormentati, fu protagonista della
vita culturale toscana e poi di quella politica nazionale. Un osservatore
dunque assolutamente in medias res,
testimone oculare di quella rivoluzione politica e sociale della seconda metà
dell’ottocento.
Egli contesta alacramente la “Nuova
Italia” fatta di repubblicani anticlericali, di massoni e di politicanti di
mestiere che aveva portato alla caduta di Roma e alla fine dello Stato della
Chiesa. La descrizione del tempo che fu che il Pelosini fa in una lettera
dedicatoria al Guerrazzi — anch’egli uno dei grandi delusi del post risorgimento —, è mirabile: “Erano buona gente que’
nostri vecchietti della campagna toscana. Avevano de’ pregiudizi, e di molti;
crescevano ed invecchiavano un po’ alla carlona: ma il cuore era buono, il
costume severo, la vita semplice, tranquilla ed agiata (…). Lavoravano per sé e
per i figliuoli: davano ordine alle cose della famiglia e del Comune; temevano
più Dio del Codice penale; e, ignari anco del nome non che dell’ufficio e degli
arnesi del boia, lasciavano inoperosi gli sbirri ed i carcerieri”. Ecco dunque
i principi immortali ai quali si richiama il Pelosini, e che sono poi quelli
sostanzialmente espressi dal Maestro Domenico.
Il racconto, non privo di elementi
autobiografici (si pensi al padre del Pelosini, che come il protagonista della
fiaba, svolge al contempo l’attività di artigiano e quella di insegnante)
sembra rispecchiare il travaglio interiore dei cattolici italiani ottocenteschi
che, assopitisi nel periodo della Restaurazione, non si erano resi conto che
nel frattempo l’auctoritas e la Fede nella Chiesa avevano lasciato il campo a
nuove istanze illuministiche, che si erano diffuse, come una pandemia nascosta,
tra la classe dirigente dell’epoca. E’ ben rappresentato lo sbalordimento e la
pena di chi assistette, impotente, a così rapide mutazioni di eventi, che solo
pochi anni prima parevano impossibili. Travagli e sbalordimenti che,
probabilmente, furono dello stesso Pelosini. Un cambiamento repentino fodnato
sulla rottura col passato: rottura col padre, con la religione, con le
tradizioni. Non è una caso che nella agiografia ottocentesca e novecentesca
della figura di Garibaldi, il garibaldino è spesso indicato come una persona
che lascia la famiglia o il convento per unirsi ai mille. La rottura con il
passato è l’elemento fondante dell’adesione spirituale e materiale alle nuove
forze rivoluzionarie. Non dissimilmente con quanto accaduto con il ’68, laddove
l’abbattimento, o meglio la cancellazione, delle radici rappresenta l’elemento
fondante della ideologia sessantottarda. Cancellazione delle radici che in
realtà non era differente da quella politica di depredazione e saccheggio
applicata dall’esercito francese nel corso dell’invasione in Italia nel periodo
1796-1799. Allora la popolazione toscana insorse al grido di Viva Maria, contro
l’invasore francese; ma insorse soprattutto non perché l’invasore era
straniero, ma perché invasore anticattolico, deciso ad annullare le antiche
consuetudini. Come detto, dunque, l’elemento determinante delle insorgenze deve
essere ravvisato nella difesa della religione. Difesa in primo luogo da quelle
istanze razionalizzatrici e anticristiane che si erano diffuse in un primo
momento tra la borghesia grazie alle idee illuministiche, e che
successivamente, grazie alla calata dell’esercito francese, si erano andate
imponendosi con la forza delle armi negli stati conquistati. Dopo neanche sessant’anni
la situazione in Italia era radicalmente cambiata, e la fiaba del Pelosini ci
mostra una società oramai abituata, assopita, e uniformata, alle novità
illuministiche. Al maestro Domenico, di fronte a questa nuova società, non
rimane che auspicare un nuovo sonno, stavolta perenne.
Il nostro compito, prima dell’eterno
riposo, rimane quello di combattere il bonum certamen, rimanere fedeli e
coerenti, e vivere, come faceva il Maestro Domenico, “da buon cristiano e da galantuomo di stampo antico”.
Ascanio
Ruschi
Nessun commento:
Posta un commento