venerdì 24 febbraio 2017

PELOSINI E IL MAESTRO DOMENICO (di Ascanio Ruschi)

Il nome di Narciso Feliciano Pelosini è oggi sconosciuto ai più. Eppure egli fu, nella seconda metà dell’ottocento, una figura di un certo rilievo, a livello toscano e anche nazionale, sia come politico, che come avvocato, ma anche come uomo di cultura e letterato. Oggi grazie alla preziosissima opera dell’editore Marco Solfanelli si deve la riscoperta della sua opera maggiore, e più conosciuta, il “Maestro Domenico” appunto.
Ma chi era il Pelosini? Narciso Feliciano – questi i nomi di battesimo – nasce a Fornacette di Calcinaia, provincia di Pisa, nel 1833, da una famiglia benestante, ma certamente non ricca e non nobile. Instradato alla vita ecclesiastica nel seminario di Montepulciano, scopre ben presto di non avere la vocazione sacerdotale (un fratello invece si farà prete), e si iscrive all’Università di Pisa per studiare diritto. Si laurea all’Università di Siena nel 1854, non prima di aver dato alle stampe una prima raccolta di poesie, dal titolo “Poesie italiane”. Già dal titolo dell’opera, si evince il clima culturale e sociale in cui è immerso il Pelosini. Di cui egli stesso risente. Pisa è al centro dei fermenti unitari, e certamente il Pelosini non è estraneo a questo fermento politico. Infatti in questo periodo entra in contatto con i circoli culturali di tendenza liberale, grazie ai quali conosce e stringe amicizia, tra gli altri, anche con il Carducci, il quale lo ricorda nelle sue memorie come un “giovane d' idee avanzate, non fervente cattolico come dipoi”.
Dopo una breve parentesi di docenza alla scuola di Scienze Aziendali di Firenze “Cesare Alfieri”, ove insegna diritto penale, si dedica definitivamente alla professione forense. Grazie alla sua ars oratoria, alla battuta pronta e sagace, diviene in breve un avvocato piuttosto conosciuto anche oltre i confini toscani, e partecipa ad importanti processi, arrivando anche a difendere Giacomo Puccini. Peraltro l’episodio è spassosissimo: il Puccini, era un appassionato cacciatore, e si recava spesso in riva al lago di Massaciuccoli a sparare nella riserva del Marchese Ginori Lisci, col permesso del proprietario ovviamente. Se non che, con l’aiuto di un boscaiolo del posto, iniziò ad andare di frodo, fino a che una sera non fu fermato da due carabinieri. Instaurato il giudizio per il reato di caccia di frodo e porto d’armi abusivo avanti al Pretore di Bagni San Giuliano, il Pelosini ne assunse la difesa, e con un’accorata arringa difensiva, nella quale sostenne che non essendo stato trovato il corpo del reato, e cioè l’anatra contro cui il colpo di fucile del Puccini era diretto, mancava la prova del fatto, e che il suo assistito si era recato in riva al lago solo per provare delle nuove cartucce per il fucile. Fu così che il Puccini fu assolto. In cambio, oltre ad un lauto pranzo offerto, il Pelosini ricevette in regalo uno spartito con dedica autografa dell’illustre musicista.
Ma torniamo alla vita del Pelosini. Intorno agli anni sessanta egli si riavvicina al cattolicesimo e assume posizioni sempre più critiche nei confronti del liberalismo e dell’unificazione. Evidentemente gli avvenimenti cui egli assiste, lo influenzano fortemente, tanto da fargli rivedere le sue posizioni di liberale moderato. Questo periodo di forte conversione e di critica al liberalismo, culmina nel 1871 con la pubblicazione – a proprie spese - della “fiaba” Maestro Domenico, che stasera abbiamo il piacere di presentare. L’opera, apertamente antirisorgimentalista, da’ il via a nuovi contrasti con il Carducci e con i circoli liberali toscani. Contrasti che, anche a causa del carattere piuttosto burbero e oltremodo schietto del Pelosini, negli anni successivi si acuiranno sino ad una rottura netta.
Tra il 1882 e il 1890 è per due volte Deputato nel gruppo della Destra, e poi diviene Senatore del Regno; in tale ambito la sua attività politica è principalmente orientata nella riforma del diritto penale. Muore a Pistoia nel 1896, ove si è ritirato nell’ultimo periodo, profondamente sfiduciato per l’evoluzione, o meglio l’involuzione, della società italiana post unificazione.
Tratteggiata così brevemente la vita del Pelosini, se ne ricava una figura piena di sfaccettature, variegata, complessa nei modi ma schietta e sincera nei pensieri. Certamente egli non fu un pensatore della Restaurazione, uno strenuo difensore legittimista, un esponente di quel connubio tra Trono e Altare che ispirò tanti intellettuali ottocenteschi. Ma questa particolarità non lo rende meno interessante, anzi. E proprio questo suo percorso, intellettuale e religioso, dal liberalismo a posizioni più tradizionalmente orientate, ne fa una figura di rilievo, e degna di attenzione.
Il percorso di conversione, e la radicalizzazione della critica risorgimentalista, ci fanno capire come il Pelosini si trovò a confrontarsi con la realtà, che evidentemente non era quella tanto vagheggiata e auspicata da chi si era fatto promotore dell’unificazione. Egli si mosse lungo binari di assoluto realismo, scevri di connotati ideologici, anche se ovviamente pieni di idealità e di sentimenti. Il riavvicinamento al cattolicesimo più profondo, gli permise di aprirsi ad una visione della societas tradizionalmente orientata, fondata sui sani principi cristiani del buon vivere e dell’unicuique suum.
Egli da liberale moderato, non ostile per partito preso al processo di unificazione, si spostò su posizione politiche di difesa delle piccole patrie, fondate sulla comunione delle credenze e degli affetti. Non una idealizzazione del bel tempo che fu (inteso come luogo astratto, come aveva fatto l’illuminismo con la teoria del buon selvaggio), bensì la concreta e triste constatazione che l’invenzione dell’Italia risorgimentale aveva distrutto quel collante fondamentale costituito dall’appartenenza alla stessa terra (la Toscana lorenese e granducale) e alla stessa fede, così come trasmessa dalla Chiesa Cattolica. Quel che descrive il Pelosino, e soprattutto quel che egli contesta, è frutto dell’esperienza diretta, di chi addirittura, in quegli anni tormentati, fu protagonista della vita culturale toscana e poi di quella politica nazionale. Un osservatore dunque assolutamente in medias res, testimone oculare di quella rivoluzione politica e sociale della seconda metà dell’ottocento.
Egli contesta alacremente la “Nuova Italia” fatta di repubblicani anticlericali, di massoni e di politicanti di mestiere che aveva portato alla caduta di Roma e alla fine dello Stato della Chiesa. La descrizione del tempo che fu che il Pelosini fa in una lettera dedicatoria al Guerrazzi – anch’egli uno dei grandi delusi del post risorgimento -, è mirabile: “Erano buona gente que’ nostri vecchietti della campagna toscana. Avevano de’ pregiudizi, e di molti; crescevano ed invecchiavano un po’ alla carlona: ma il cuore era buono, il costume severo, la vita semplice, tranquilla ed agiata (…). Lavoravano per sé e per i figliuoli: davano ordine alle cose della famiglia e del Comune; temevano più Dio del Codice penale; e, ignari anco del nome non che dell’ufficio e degli arnesi del boia, lasciavano inoperosi gli sbirri ed i carcerieri”. Ecco dunque i principi immortali ai quali si richiama il Pelosini, e che sono poi quelli sostanzialmente espressi dal Maestro Domenico.
Come nota opportunamente Gianandrea de Antonellis, che ha curato l’introduzione del libro, “il racconto Mastro Domenico costituisce dunque un interessante contributo letterario alla causa tradizionalista con un sostanziale rifiuto dell’Unità italiana, almeno nei termini e nelle modalità con cui essa è stata realizzata: con pochi tratti Pelosini mette bene in evidenza il contrasto tra la semplicità dell’antico costume ed il materialismo dell’era unitaria, riuscendo a far intendere ai propri lettori il senso della caduta da un magnifico passato fatto di pratiche religiose, sano lavoro e culto della famiglia ad un presente che consiste in un caos organizzato, frutto di una rivoluzione in cui si intersecano furbizie e accaparramenti tra lusso e utilitarismo. Così il racconto diventa messaggio e denuncia: vengono passati in rassegna l’oppressione del potere, la stoltezza della burocrazia, la superficialità della stampa, l’inettitudine della politica, la volgarità dei costumi, la diffamazione della religione”.
Il racconto, non privo di elementi autobiografici (si pensi al padre del Pelosini, che come il protagonista della fiaba, svolge al contempo l’attività di artigiano e quella di insegnante) sembra rispecchiare il travaglio interiore dei cattolici italiani che, assopitisi nel periodo della Restaurazione, non si erano resi conto che nel frattempo il potere temporale della Chiesa era andato distrutto. E’ ben rappresentato lo sbalordimento e la pena di chi assistette, impotente, a così rapide mutazioni di eventi, che solo pochi anni prima parevano impossibili. Travagli e sbalordimenti che, probabilmente, furono dello stesso Pelosini.
Leggendo il racconto, mi è venuto in mente un parallelo con i nostri tempi moderni. Ed in particolare mi riferisco la periodo del ’68, la quarta rivoluzione (come dice il Del Noce), quella dei costumi, e come tale, ancorché rivoluzione, non violenta ma non meno devastante.
Rivoluzione che tanto modificò i costumi e le idee dell’occidente. Una società che cambiò repentinamente, in mentalità e atteggiamenti, in opinioni e usanze, che solamente pochi anni prima erano considerati tabù. Nessuno aveva avuto la premonizione di tale rivoluzione: gli echi di tali cambiamenti, in Italia, erano lontani, venivano da oltreoceano, ma non sembravano tali da far breccia nella compassata società del dopoguerra. Forse, un attento osservatore, dagli esiti del Concilio Vaticano II, conclusosi nel 1965, avrebbe potuto presagire la tempesta rivoluzionaria che presto si sarebbe abbattuta sulla società italiana. Una Chiesa che, per una volta antesignana delle svolte epocali, volle rompere con il passato, ed in nome di una nuova fiducia nell’Uomo, ritenne che quanto sino ad allora detto e predicato non doveva essere più detto e predicato. Si proclamò la nuova fiducia nell’Uomo, un uomo che si fa Dio.
Ma cosa avrebbe detto e pensato, un novello Maestro Domenico, addormentatosi alle soglie del ’68 e risvegliatosi qualche anno dopo? A mio avviso avrebbe sicuramente fatto ancor più fatica a riconoscere il proprio mondo. Quantomeno, nel secolo diciannovesimo, possiamo essere sicuri che la Chiesa, anche se attaccata da più fronti, era ancora un baluardo e un faro, cui ricorrere nei momenti di difficoltà. Oggi purtroppo, assistiamo ad una confusione generalizzata, e la Chiesa, pur sempre Sposa fedele di Cristo, pare scossa da scandali e da istanze interne che ricordano i tempi bui delle eresie. Viene quasi voglia di fare come il Maestro Domenico, e appisolarsi dolcemente all’ombra di un albero, e sperare di svegliarsi in un altro mondo.
Ma fino a che il Signore non ci chiamerà nel Suo Regno, il nostro compito rimane quello di combattere la nuova battaglia, rimanere fedeli e coerenti, e vivere, come faceva il Maestro Domenico, “da buon cristiano e da galantuomo di stampo antico”.

Ascanio Ruschi

"Alla riscoperta del Granducato di Toscana" (Firenze, 22 febbraio 2017)

Si è tenuto a Firenze, organizzato dal Presidente del Gruppo "Identità Toscana"  Andrea Asciuti, dal Circolo Culturale "La Martinella" e da "Il Popolo della Vita", un importante Convegno dal titolo: "Alla riscoperta del Granducato di Toscana", con la presentazione del libro di Narciso Feliciano Pelosini : "Maestro Domenico" (Ed. Solfanelli).
Davanti a un numeroso e scelto pubblico hanno parlato, presentati da Andrea Asciuti che ha anche introdotto la serata, Alessandro Scipioni, Ascanio Ruschi e Pucci Cipriani.
Alessandro Scipioni ha fatto un breve excursus storico sulle ragioni dell'Antirisorgimento: "Un'Italia fatta non in nome di ciò che univa, ovvero l'amore per le tradizioni e la religione cattolica, ma come atto di conquista, in alcuni casi feroce e antistorica".
Ascanio Ruschi, noto esponente della Tradizione toscana, ha parlato di Pelosini e della sua opera "Maestro Domenico" (riportiamo a parte suo interventocompleto).
Infine, il direttore di "Controrivoluzione" Pucci Cipriani, ha fatto un articolato interevento sul Granducato di Toscana, mettendone in evidenza le luci (il Buon Governo della "Toscanina" dei Lorena) e le ombre (la politica illuministica del Granduca Pietro Leopoldo associatosi al vescovo giansenista Scipione de' Ricci).
Infine Pucci Cipriani ha presentato il XXX Convegno della "Fedelissima" Civitella del Tronto che si terrà venerdì 10, sabato 11 e domenica 12 marzo 2017 con il seguente titolo: "1917 - 2017 Centenario delle Apparizioni di Fatima, le tappe della Rivoluzione: 1517 (Lutero) - 1717 (Massoneria) - 1917 (Comunismo) - 2017 (Rivoluzione genetica)” .
Il programma completo è su www.controrivoluzione.it.


I tre relatori da sinistra: Ascanio Ruschi, Alessandro Scipioni e Pucci Cipriani.


Il prof. Andrea Asciuti che introduce la serata.


Le tre Associazioni che hanno promosso la serata: "Identità regionale", "La Martinella" e "Il popolo della Vita".

giovedì 23 febbraio 2017

Programma del XXX Incontro della "Fedelissima" Civitella del Tronto 2017 (10 - 11 - 12 marzo)

1917 - 2017 Centenario delle apparizioni di Fatima:
Le tappe della rivoluzione.
1517 Lutero - 1817 Massoneria - 1917 Comunismo - 2017 Rivoluzione genetica


Conferenze di SABATO 11 MARZO 2017
all'Hotel Fortezza
di Civitella del tronto (TE)


PROLUSIONE AL CONVEGNO A CURA
DEL PROFESSOR MASSIMO de LEONARDIS


Conferenze

• Guido Vignelli, "A un secolo da Fatima nella prospettiva del trionfo del Cuore Immacolato di Maria”
• Massimo de Leonardis, "Rivoluzione e Controrivoluzione in Europa" alla luce dei Messaggi di Fatima”
• Massimo Viglione, "Il ruolo del 17 nel meccanismo rivoluzionario e il 2017 tra sovversione generale e speranza”
• Patrizia Fermani, "La profanazione delle Tombe reali a Saint Denis e il suicidio della Civiltà”
• Roberto de Mattei, "Lutero nel suo tempo e nel nostro”
• Don Angelo Citati, "Il 'Sola Scriptura' luterano alla prova della ragione”
• Carlo Manetti, "L'infiltrazione della Rivoluzione nei partiti della Destra”
• Lorenzo Gasperini, Il Risorgimento : la Rivoluzione italiana”
• Cristina Siccardi, "La Rivoluzione nell’Arte”
• Andrea Sandri, "La Rivoluzione negli Studi Giuridici”
• Elisabetta Frezza, "L'abbraccio mortale Tra il gender e l'Amoris Laetitia”
• Roberto Dal Bosco, "2017: l'orrore della Rivoluzione genetica”


Interventi

• Carlo Manetti, "I Francescani dell'Immacolata : Storia di una persecuzione”
• Marco Solfanelli, "Presentazione della rivista 'Controrivoluzione' e delle novità editoriali della Casa Editrice Solfanelli”
• Virginia Coda Nunziante, Gabriele Bagni e Andrea Asciuti, Presentazione della settima edizione della “marcia per la Vita” che si terrà a Roma il 20 maggio 2017
• Don Stefani Carusi, "Lo spirito del Principe di Canosa nella Rivoluzione risorgimentale”
• Rodolfo de Mattei, "Presentazione di www.osservatoriogender.it: un progetto web contro il gender”


lunedì 13 febbraio 2017

IL MIO "BATTESIMO DI FUOCO" A CIVITELLA DEL TRONTO (di Gabriele Bagni)

Sono trascorsi ormai due anni da quando, per la prima volta, mi recai a Civitella del Tronto, quel paesino immerso nella Terra d'Abruzzo, che, con la sua Roccaforte, si erge ai piedi del gran Sasso. Era il 2014 e ancora frequentavo la Scuola Superiore, in attesa di dare la maturità. Non conoscevo quel paese ma respiravo quell'alone di misticismo che l'evocazione del nome destava nel nostro ambiente tradizionalista; tutti coloro che vi erano stati, partecipando ai convegni della Tradizione, ne conservavano un ricordo bellissimo e contavano i giorni in attesa di ritornarvi.
I primi che me ne parlarono - ero ancora un ragazzino - furono Renato Paolini e Paolo Ficcadenti, ma fu solo un altro caro e grande amico, Pucci Cipriani, noto storico e giornalista della Tradizione e promotore  di questi importantissimi eventi, che riuscì a convincermi a partecipare.
Era venerdì sette marzo quando partimmo - l'appuntamento era a Borgo San Lorenzo, davanti al Bar del Vaticano (ora chiamato "Italia") dove l'amico Pucci offrì a tutti noi di Firenze e provincia una bella colazione con i famosi bomboloni alla panna di Paolo - e il Convegno: "Cattolici senza compromessi: contro il normalismo politico ed economico", sarebbe durato fino a domenica nove; tema impegnativo e difficile per uno studente come me ma io non mi lasciai impressionare.
Già durante il viaggio per Civitella mi trovai a mio completo agio, insieme a una bella e "cameratesca" compagnia : canti, preghiere, ma anche scherzi e lazzi, grandi risate...la gioia della Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, ci tenne compagnia.
E poi, all'arrivo, quella sorta di "battesimo del fuoco" con un bicchierotto di "Centerbe", di settanta gradi, che mi scombussolo' le budella...ma solo per poco! Prima della cena, alle 19, fu celebrata la S.Messa dal giovane sacerdote della Fraternità San Pio X don Mauro Tranquillo - appresi che, per la prima volta, il Cappellano dei Convegni civitellesi don Giorgio Maffei, dopo venti anni, aveva dovuto rinunziare (morirà l'anno dopo ultranovantenne) a salire alla Rocca ma ci fu vicino con il cuore e la preghiera - celebrò la Santa Messa tridentina : fu una cerimonia molto sobria, un tavolo allestito, come altare, con due candele e un Crocifisso, in una sala senza  niente che potesse sembrare una chiesa o una cappella,  ma fu lo stesso un momento nel quale terra e cielo si incontrarono... dalla modestia di quella sala, mentre il sacerdote scandiva le parole: "Hoc est enim Corpus meum" si passò subito alle schiere dei serafini e degli angeli e, noi tutti, fummo testimoni silenti di questo miracolo. Dopo cena la "Via Crucis" per le vie del borgo. E fu davvero una perla preziosa di quel convegno. Nel centro del paese semideserto (ormai poche sono le famiglie che abitano a Civitella)  si scioglieva questa processione, non si vedeva niente a causa del buio della notte, solo tante fiaccole accese che sembrava scaldassero quell'aria gelida e quel silenzio freddo. Solo in alcuni punti, grazie alla luce dei rari lampioni, si poteva scorgere il Crocifisso e, accanto, il sacerdote che, con voce forte, rompeva quel silenzio con le note del Miserere nostri Domine. Tutti pregavano, contenti di ripercorrere, attraverso quei suggestivi vicoli, la via del Calvario di NSGC che volle percorrere, caricato di una pesante croce, per immolarsi per la nostra salvezza. Poche volte avevo assistito a momenti tanto belli e così colmi di devozione . Finita la processione il sacerdote, dalla scalinata della chiesa, impartì la benedizione con la Croce.
Tornammo all'albergo e mi addormentai con il pensiero: quali altre stupende sorprese vi saranno nei prossimi due giorni?
La mattina, dopo la colazione e la S. Messa celebrata nel solito salone ecco Pucci Cipriani che, insieme ad Ascanio Ruschi e al senatore Fabrizio Di Stefano, presenta il Convegno. In particolare Pucci Cipriani ricordò come, in questo Convegno della Tradizione vi siano, insieme ai vivi anche i morti che, infatti rivivono nelle nostre preghiere e nel "Memento" delle Sante Messe celebrate proprio "ad memoriam" di coloro che passarono, in vita, da Civitella con lo stesso spirito che, ora, è in noi. Poi sfilarono, al tavolo dei relatori, illustri storici, docenti universitari, giornalisti di grido, insomma una intera giornata ad ascoltare, quasi estasiato,  quelle lezioni di gente sì illustre: il professor Massimo de Leonardis, il quel fece uno stupendo quadro dell'Impero asburgico e della "Felix Austria", il professor Roberto de Mattei, il mitico Presidente della Fondazione Lepanto, che ci mise in guardia dagli errori teologici e morali del cardinal Kasper, lo storico e giornalista Luciano Garibaldi, il biografo coraggioso del Commissario Luigi Calabresi, assassinato dai comunisti di Sofri , il dottor Carlo Manetti e la benemerita Cristina Siccardi (scrittrice di molte biografie di Santi fino a ... di Monsignor Marcel Lefebvre), le professoresse Patrizia Fermani e Elisabetta Frezza che affrontarono magistralmente i temi etici, mentre la dott.sa Virginia Coda Nunziante ci illustrò la Marcia per la Vita, contro il delitto di aborto, che, ogni anno, a maggio, viene organizzata a Roma.
E poi Danilo quinto, l'ex cassiere e militante radicale che ha incontrato Cristo dandone testimonianza con un suo libro : "Da servo di Pannella a libero servo di Dio" (Fede e Cultura - Verona), e, infine, due amici cari : Robetrto Dal Bosco che era stato a Firenze, con noi, per la presentazione del suo famoso (e profetico) libro : "Incubo a cinque stelle" (Fede e Cultura) e il mio coetaneo Guido Scatizzi, il più giovane tra gli oratori, esperto liturgista, che, appunto, parlò sulla distruzione della liturgia...E intanto guardavo il grande banco di libri (quanti titoli! E che titoli!) allestito dall'Editore Marco Solfanelli, pensando a quanti acquisti avrei fatto...e che feci : dal Messale romano, ai libri di de Tejada su Napoli Spagnola (Controcorrente), da Iuxta modum: il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione di p. Serafino M. Lanzetta (Cantagalli)  al monumentale ed eccezionale tomo di Roberto de Mattei : Concilio Vativano II : una storia mai scritta (Lindau), dal Risorgimento da riscrivere di Angela Pellicciari a "L'identità ferita" di Massimo Viglione (ambedue pubblicati dalla ARES), da Maestro Domenico di Pelosini (Edizioni Solfanelli) al libro di Francesco Agnoli e Pucci Cipriani sul Sessantotto (Fede e Cultura)... ammassati sui seggiolini dell'auto di Ascanio Ruschi avrebbero preso il posto di una persona.
Posso dire che rimasi estasiato da quei conferenzieri e che, per me, fu una giornata stupenda nella quale imparai più cose - e lo posso ben dire - che in tutti gli anni della scuola statale.
La domenica, invece, è il giorno più bello ed emozionante, ma anche quello più triste poiché finisci di stare in quel "piccolo paradiso terrestre" per tornare al "travaglio usato". Dopo la S. Messa solenne della domenica, una processione con le bandiere degli stati preunitari, sale, salmoidante, guidata dal cappellano e da Pucci Cipriani, alla Piazzaforte della "Fedelissima" Civitella del Tronto che fu, appunto, l'ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie. Eh già...e anche questa fu un'altra sorpresa : figuariamoci se a scuola possano raccontare ai ragazzi certe vicende e dire che, un pugno di soldati, fedeli al loro Re, resiste' a tutto l'esercito piemontese e alla ferocia belluina dei suoi generali, anche dopo la proclamazione del Regno d'Italia...stupendo le nazioni di tutto il mondo.Mentre da Torino a Catania sventolavano i tricolori, sul pennone della gloriosa Civitella del Tronto, svettava la Bandiera biancogigliata dei Bornoni.
Gli ultimi difensori furono fucilati, a Porta Napoli, dai "liberatori" piemontesi che vennero a "liberare il Sud" portando la libertà sulla punta delle loro baionette. Morì, fucilato dai pimontesi come un "bandito",  anche p. Leonardo Zilli da Campotosto, l'eroico francescano che, combattendo lui stesso, portò il conforto della Fede ai soldati di Civitella.
Al canto del Christus vincit!  issammo ancora sul pennone la bianca Bandiera borbonica. Fu un momento esaltante, avevo i brividi dell'emozione, in un certo senso, anch'io mi sentii partecipe della Storia, come quei soldati che combattereno  senza arrendersi fedeli a Dio, alla Patria, al Re.
E dopo la breve e commuovente rievocazione di Massimo de Leonardis  il saluto "alla voce" di Pucci Cipriani : "Viva Cristo Re" Viva Re Francesco!" Viva la Tradizione!" le preghiere e il De Profundis, con don mauro, nella chiesa di S. Jacopo alla Rocca, davanti ai resti degli eroici soldati.
In un mondo impazzito in cui sono sparite le certezze , in cui più nulla sembra esser vero, ove tutti svendono la libertà in cambio dei "falsi diritti", la triade Patria, Fede e Tradizione è a serio rischio. In  questo mondo che non mi appartiene, falso e utopico, in cui regna il "volemose bene", occorre ancora combattere per riconquistare la nostra identità.
Ecco perché anche quest'anno nei giorni di venerdì 10, sabato 11 e domenica 12 marzo 2017 sarò ancora Civitella del Tronto e lì potrò trovare la forza e le armi per combattere la buona battaglia e vincere quella corsa di cui parla proprio San Paolo: "... nelle corse molti sono i concorrenti ma uno solo vince il premio. Anche voi correte in modo di ottenerlo!"

Gabriele Bagni

sabato 11 febbraio 2017

La mia Civitella (di Fabrizio Di Stefano)

Civitella del Tronto per me non è un posto qualsiasi. Proprio in questo luogo, infatti, ho cominciato a interrogarmi su alcuni passaggi storici che erano stati trascurati e dei quali ho sempre avvertito con forza l’importanza.
Quella storia che oggi mi fa amare la Fortezza, che Civitella ospita, come luogo fisico e ideale.
Civitella è il simbolo del fiero meridione d’Italia che non ha condiviso un’annessione caduta dall’alto e ottenuta con il sangue.
Se penso a questo capitolo della storia, mi vengono in mente i sentimenti dei vinti, le loro speranze disilluse, le loro libertà negate, le loro tradizioni calpestate, le loro intimità familiari violate e le loro ricchezze depredate.
Mi viene in mente cioè la lezione più intima di questa pagina della storia; una lezione che per me, per la mia vita, è stata l’importanza di difendere un’idea, qualunque essa sia, e il diritto di esprimerla e la volontà di difendere tale diritto.
Ogni volta, in questo posto, trovo quindi i motivi della mia militanza politica e rinnovo il giuramento di Fede che tanti valorosi prima di noi hanno fatto, ribellandosi alle facili tentazioni del laicismo e di una società in cui i termini piccolo, leggero e veloce sono sinonimi di migliore.
A Civitella respiro sempre la meditazione, il pignolo scrutinio della solitudine, la riflessione, la preghiera, il raccoglimento e per me, tornarci ogni anno, ha lo stesso valore delle tacche con la matita che i genitori facevano sul muro, quando eravamo piccoli, per misurare la nostra altezza; in questo caso, naturalmente, non è un’altezza che si misura con il metro ma una statura morale che si misura con la solidità dei propri principi, dei propri ideali, della Fede e delle proprie passioni.
E’ importante ritrovarsi a Civitella e in particolare quest’anno in cui la crisi dei nostri valori è stata vertiginosa; basti pensare alle unioni civili, alle posizioni tiepide di una parte del clero su queste ultime e ad alcune scelte del Papa che definirei discutibili.
Ritroviamoci quindi anche quest’anno per rinsaldare i valori, per riconciliare lo spirito, per rinforzare la Fede, sotto la sorridente e sempre immortale bandiera della Tradizione.

on. Fabrizio Di Stefano

domenica 5 febbraio 2017

RICORDO DI PIETRO GOLIA! A CIVITELLA CON I VIVI E CON I MORTI!

Pietro Golia se n'è tornato lassù alla "Patria sua" come amava chiamare il Regno di Napoli, quel suo Regno tanto amato del quale manteneva vive le radici storico-culturali con convegni, feste, conferenze, eventi culturali, con la pubblicazione di libri con la sua associazione culturale e casa editrice Controcorrente ... ed era davvero un uomo controcorrente e ogni occasione era buona perché lui potesse "gridare" le ragioni della sua battaglia di una vita, per ribadire che i Borboni non sono stati una dinastia oscurantista e retrograda, come gli storici sabaudi e i loro successori hanno stabilito per legittimare quella pagina vergognosa e sanguinosa che fu la Conquista del Sud e che il Brigantaggio non fu un fenomeno criminale ma una resistenza popolare all'esercito piemontese invasore.
Sì, a Pietro Golia e alla sua casa editrice "controcorrente" si devono molti studi seri sul Brigantaggio; lui stesso è stato una delle "penne" — Pietro fu anche scrittore e giornalista — che riscoprì il "pensiero ribelle" contro la "cultura omogeneizzante delle multinazionali", come lui diceva.
Lo conobbi nel 1981, a sei mesi dal terremoto che devastò l'Irpinia e ampie zone della Campania con la città di Napoli quando, con Guido Giraudo, direttore responsabile di "Candido" — io ero vaticanista e inviato speciale di quel settimanale a grande tiratura — iniziammo una campagna giornalistica contro l'amministrazione del sindaco comunista Valenzi che, approfittando del terremoto, con l'appoggio dei media e dei partiti — non esclusa la Destra almirantiana — pronti al compromesso, cercò di cambiare la struttura sociopolitica della città, con la deportazione della popolazione del centro storico a Pianura.
Insomma anche Pietro Golia, allora a capo di una Radio libera, particolarmente ascoltata, a fianco di noi del "Candido", si battè contro la deportazione di decine di migliaia di napoletani fuori dal centro storico e dalla cinta urbana, secondo un progetto — studiato a tavolino dalla Giunta rossa di Valenzi — presentato come doveroso e ineludibile, di sapore illuministico e "Polpottiano", degli epigoni dei nobilastri giacobini di Napoli che nel 1799 si schierarono con la Rivoluzione e l'esercito francese contro la popolazione che resisteva con le armi.
Sì, fu una grossa battaglia la nostra — e Golia, prima restio, capì che era anche la sua battaglia — contro il progetto comunista e l'acquiescenza della cartilagine democristiana e della neutralità missina, che con la scusa di creare nuove e moderne aggregazioni urbane e civili in località e in comuni più qualificati e più interni della Regione, per (udite!) demolire finalmente: "le resistenze di quella cultura del sottosviluppo che viene utilizzata demagogicamente da forze avventuristiche ed eversive... (per ) la modificazione dell'attuale assetto ...".
In altre parole: ridisegnare, con la deportazione degli abitanti, l'assetto sociopolitico del centro storico e dei Quartieri dove la DC e, soprattutto, la Destra, avevano la maggioranza dei consensi.
Ricordo ancora i manifesti di “Controcorrente” e quelli del “Candido” con il "No alla deportazione.
 Ecco questo è il Golia che io rammento volentieri, come ricordo volentieri le sue numerose "puntate" a Civitella del tronto, dove, coaudiuvato dal fratello Carmine e dal fido Andrea Finocchito, portava le ultime sue novità librarie insieme a tanti altri libri della Tradizione... e qualche volta ci scontravamo, amichevolmente, sul senso dal dare alla parola Tradizione. E di fronte a un Pietro Golia "tollerante" tanto da mettere in vendita nel suo disordinato negozio dei vicoli di Toledo — un disordine creativo fatto da pile di tomi, da mucchi di giornali, cartoline commemorative, manifesti storici — alcune opere della falsa tradizione: Evola, Guenon, Alain de Benoist, e altri scrittori della "Nuova Destra" del GRECE, animalista, abortista, eutanasica, anticattolica e antiumana.
Ma erano discussioni, ripeto, amichevoli e passeggere perché a Pietro mi univano e ci univano innanzi tutto l'amore per la Terra del Sud, per il glorioso Regno delle Due Sicilie, per l'ammirazione verso i due ultimi sovrani Sofia e re Francesco II (Dio guardi), mi univa anche la sua passione "culturale" per il "campo dei ribelli" e per la cultura napoletana che ebbe i suoi aedi in francisco Elias de Tejada, Silvio Vitale e Pino Tosca; mi univa con Pietro anche il disprezzo per la Modernità; ricordo che lui mi diceva "Pucci io mi rifiuto di parlare con una macchina" e rifiutava di rispondere alla segreteria telefonica... e lo diceva a me che mi rifiutavo (fino a pochi anni fa) di imparare a usare il computer, restando fedele alla mia penna d'oca con il pennino d'oro e l'inchiostro stilografico. I nostri rapporti erano raramente telefonici, quasi sempre epistolari. E anche questo non è un dettaglio.
Quest'anno lo saluteremo, domenica 12 marzo 2017, "alla voce" durante l'Alzabandiera presso la Rocca della "Fedelissima" Civitella del Tronto e io lo rivedo ancora pensoso, passeggiare, pieno d'idee come un vulcano, per i vicoli della "nostra" Civitella, ora che ha preceduto alla "Patria nostra".

Pucci Cipriani


mercoledì 1 febbraio 2017

Le tappe della rivoluzione (Prato 17 febbraio 2017)

Venerdì 17 febbraio 2017, alle ore 21:00

presso il Salone di Comunità Viva
Via F. Bini n. 44 - PRATO


Presentazione del Convegno della Tradizione cattolica
della "Fedelissima" Civitella del Tronto

Venerdì 10, Sabato 11, Domenica 12 marzo 2017

Nel Centenario delle Apparizioni di Fatima (1917-2017)
LE TAPPE DELLA RIVOLUZIONE:
1517 (Lutero), 1717 (Massoneria), 1917 (Comunismo), 2017 (Rivoluzione genetica)

Intervengono:

Pucci Cipriani, Direttore di Controrivoluzione (www.controrivoluzione.it)
Giovanni Tortelli, Docente universitario
Cosimo Zecchi, Redattore di Controrivoluzione