venerdì 5 maggio 2017

MONS. LUIGI STEFANI: QUANDO LA CARITÀ PORTA IL CAPPELLO ALPINO

In Curia, regnante il cardinal Benelli, come spesso succedeva, dissero che Sua Eminenza era assente e che, comunque, la risposta era “no”. Come poco cambian le Curie, ieri... come oggi!
E così a Monsignor Luigi Stefani — prete scomodo — non gli furono concessi i funerali nel Duomo della sua Firenze, davanti alla beneamata Misericordia dove, per oltre trent’anni, aveva svolto il suo apostolato come assistente spirituale (nominato nel 1948 dal Servo di Dio, il Cardinale Elia Dalla Costa) e a tre passi dalla chiesa di Santa Maria Margherita de’ Ricci di via del Corso, della quale era stato nominato parroco, due anni prima dal venerato arcivescovo Ermenegildo Florit, il quale, per mettere in risalto i meriti del “prete fedele”, lo aveva creato monsignore.
E proprio in Santa Caterina de’ Ricci, in una calda mattinata d’ottobre del 1981, andai a salutare, per l’ultima volta in questa terra, il caro don Luigi: giaceva vestito con i paramenti neri, la stola penitenziale, il manipolo e la corona del Santo Rosario, al quale era così devoto, tra le dita.
Il male lo aveva aggredito all’improvviso, come un fulmine che si abbatte su una grande quercia; se ne andava così questo intrepido prete dalmata, era nato a Zara nel 1913 e fu segretario del vescovo di quella città, cappellano militare, orgoglioso del suo cappello alpino, nella Seconda guerra mondiale, nella Divisione Militare Tridentina che arrivò esule (“Parce mihi Domine, quia dalmata sum” c’era scritto dietro la scrivania del suo ufficio alla Misericordia) a Firenze nel 1945.
Alcuni mesi prima della sua morte, ebbe quasi un presentimento di dover tornare da quel Dio che tanto aveva amato, e nella Pasqua di Resurrezione del 1981 scriveva nella presentazione del suo ultimo libro di poesie:

(Gesù) alle volte ci mostra il cuore... ci mostra le palme delle sue mani bucate... (e) se la morte incombe: “Non si turbi il vostro cuore: ritorno al Padre per prepararvi un posto”... non potevo non sceglierlo, subito, all’alba della mia vita, come amico e Signore: gli sono rimasto sempre fedele; ed ora che il mio tramonto si avvicina è Lui a sostenermi.

Qui, a Firenze, era difficile non incontrarsi con don Luigi Stefani e a molti, nell’incontrarlo, veniva fatto di dire: «Quello è un prete che ci crede!» e prete lui era davvero “usque ad taleas”, anche esteriormente, indossando sempre quella talare della quale diceva il Cardinal Dalla Costa ai suoi preti: «Tenetela cara codesta vostra veste che è un sacramentale e, giunti alla sera, baciatela, perché è la nostra divisa che tanto ci aiuta!»
Difficile davvero dimenticare quel prete: “sereno, sorridente, eppure austero / nel suo vestito nero...”, nei momenti tragici della nostra città: le calamità naturali, gl’incidenti, i delitti, le morti improvvise; quei poveri corpi, coperti pietosamente da un lenzuolo, ai bordi della strada, il dolore straziante dei familiari, la gente che, intorno fa capannello bisbigliando e, poi, all’improvviso, il silenzio, gli uomini si tolgono il cappello, in molti si fanno il segno della croce: arrivano i “fratelli” della Misericordia con la cappa nera, la “buffa” sulla testa, la corona del rosario al fianco e, in mezzo a loro, don Stefani con la cotta e la stola viola: «Ecco il cappellano della Misericordia... meno male che c’è don Stefani!» Sì, eccolo per portare al defunto l’ultima benedizione, l’amicizia con il Signore, eccolo per consolare i dolenti e per raccogliere e consegnare alla Madonna le loro lacrime, le loro angosce, le loro pene... Nessuna di quelle lacrime andrà persa di fronte al Signore...
Quando, con il loro cappellano, passavano, per le strade di Firenze, i fratelli della Misericordia c’era, allora, nella gente, lo stesso rispetto e la stessa devozione di quando passava, in processione, il SS. Sacramento.
Arrivato a Firenze, esule, don Luigi dovette pensare non solo alla sua famiglia ma anche ai suoi fratelli giuliano-dalmati esuli anch’essi che, in massima parte, vennero “depositati” (come si deposita la merce) nel freddo edificio di Santa Reparata dove vissero miseramente, da cittadini esemplari, in mezzo ai cartoni che dividevano i vari alloggi di fortuna, come testimonia in un toccante e delicato libro Miriam Andreatini Sfilli: Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni (34); e in mezzo a quei profughi.
«Io ho vissuto — ricorda don Stefani — ed ancora sto vivendo la tragedia degli esuli e posso parlare... con sicura esperienza... Ho visto durante la guerra, gli esuli sloveni nel campo di Arbe in Dalmazia, li ho visti arrivare ed ho condiviso con loro tutta l’amarezza dell’esilio. Ho visto, dopo la guerra, gli esuli giuliani e dalmati, strappati dalle loro terre con violenza, li ho visti braccati come cani ed insieme con loro ho sofferto e soffro...»
Aveva ancora vivo, nel suo cuore, il cappellano della Misericordia, quei suoi tre alunni (giovanissimo insegnava lettere nel seminario di Zara) spogliati, quindi evirati, con i genitali in bocca e, ancora vivi, incoronati di spine e gettati nelle foibe... quando ancora non si poteva neanche parlarne quel prete coraggioso raccontava cos’erano le foibe, lo sterminio di massa, insomma cos’era il Comunismo.
Mi ricordo nel 1969, al Palazzo dei Congressi, un Convegno sulla tragedia dei giuliano-dalmati con Alfonso Ughi, Fulvio Apollonio e lo stesso don Stefani: gl’infoibamenti collettivi, le urla e i pianti nella notte quando i morituri venivano prelevati dalle loro case portati con i camion sul luogo dell’esecuzione e gettati in quelle ampie voragini che sprofondano per centinaia di metri nel sottosuolo carsico e la tecnica dell’infoibamento è ampiamente collaudata, vengono prima spogliati, poi legati con il fil di ferro, in colonna sull’orlo del burrone, basta una raffica ai primi che trascineranno anche gli altri dentro... e quegli infelici, legati insieme, precipitano e agonizzano accanto ai morti, per giorni la gente dei dintorni udrà i lamenti venire da sottoterra... spesso i criminali con la stella rossa si divertono: «Chi riesce a saltare dall’altra parte sarà risparmiato» e qualcuno prova a saltare ma precipita nel baratro, i pochi che ci riescono vengono abbattuti a fucilate... non dovevano rimanere testimoni. E poi il ricordo della villa di Segré dove la “Guardia del Popolo” faceva fare combattimenti tra i prigionieri e per punizione si immergeva la testa del malcapitato dentro il secchio delle feci e dell’urina. Lì la prof.ssa Elena Pezzoli, tra l’altro, membro del CLN, viene prima, a turno, violentata, poi torturata a lungo, quindi per “occultare ogni prova” gettata in una foiba.
Quando nel 1956 scoppia la rivolta popolare in Ungheria, gl’insorti, per prima cosa, liberano il Cardinale József Mindszenty, che era stato arrestato dalla polizia comunista nel 1948, e lo portano in trionfo per le vie di Budapest al grido: «Noi siamo il popolo di Mindszenty»... Quando le persone, insieme a ogni anelito di libertà, verranno schiacciate sotto i cingoli dei carrarmati sovietici, il “cardinale d’acciaio” troverà rifugio nell’ambasciata americana, fino al settembre 1971 quando, in seguito a infami trattative, fatte dal Vaticano, alle spalle dell’eroico cardinale, con il regime comunista, sarà costretto, contro il suo volere, ad espatriare recandosi prima Roma poi a Vienna dove concluderà la sua tormentata vicenda umana.
Quell’infamia “conciliare” passata sotto il nome di “Ostpolitik” venne denunziata dal padre gesuita Ulisse A. Floridi, per molti anni collaboratore della rivista “Civiltà Cattolica”, Docente alla Fordham University, in un libro che fece molto rumore: Mosca e il Vaticano: i dissidenti sovietici di fronte al “dialogo” (35) dove si racconta, con dovizia di prove, il tradimento di tanti vescovi, d’accordo con il Vaticano e conniventi con il regime comunista, autori di lettere pastorali, che si rifacevano al documento conciliare Gaudium et Spes, e che invitavano i cattolici all’obbedienza e alla sottomissione. Documenti preparati insieme ai vertici religiosi e ai rappresentanti del Consiglio per gli Affari religiosi mandati espressamente da Mosca... pagine atroci dunque quelle del Floridi dove si denuncerà il «dialogo politico-ecumenico tra Roma e Mosca (e) l’ombra di più di cinque milioni di cattolici ucraini cui il regime sovietico ha tolto la libertà di religione, obbligandoli a entrare nella Chiesa ortodossa russa.»
Quando dunque scoppia la così detta rivoluzione ungherese, nel 1956, don Stefani, a differenza di un Occidente vile che non sa con chi schierarsi, fa la sua scelta di campo e si muove velocemente, in quel novembre del 1956, andando subito ad accogliere un folto gruppo di profughi al posto di confine di Hegyeshalom, portando dietro tanti aiuti concreti offerti dal cuore, come sempre assai generoso, dei fiorentini.
Questa fu la sua linea e nel cardinal Joseph Mindszenty ebbe la sua stella polare e al cardinal Mindzsenty e ad Alexandr Solzenicyn dedicherà, con una suggestiva copertina di Angela Cecchi Tanturli, un libro di oltre quattrocento pagine: Sradicati (36) con una prefazione coraggiosissima (e chi visse quei tempi lo sa bene) del senatore Giuseppe Vedovato, Presidente dell’Assemblea del Consiglio d’Europa e Ordinario di Storia nell’Università di Roma, che è un atto d’accusa contro i cedimenti al Comunismo:

... i popoli liberi troppo spesso hanno creduto in un’interpretazione filosofica e sociale del Cristianesimo o nel suo superamento. Essi si illudono di identificare o salvaguardare la libertà in un materialismo egoista che annienta l’intelletto e lo spirito. E non si accorgono di diventare vulnerabili perché cessano di essere fedeli a Dio e a Cristo nella tradizione civile plurimillenaria delle loro nazioni... vano è poi pensare che associandosi, in qualsiasi modo, alla soppressione della verità, si possa salvaguardare la medesima verità là dove è perseguitata o là dove è minacciata... E la prima verità per l’Occidente è sempre il Cristo, nella sua parola, nel Suo sacrificio, nella Sua resurrezione.

Un “J’accuse” che se al posto di “materialismo”, nel quale si individuava, allora, l’essenza del Comunismo, si mettesse “mondialismo” si sarebbe, pari pari, alla situazione odierna da quando, il Comunismo — come hanno spiegato Augusto Del Noce e Roberto de Mattei — ha avuto la sua metamorfosi trasformandosi in un partito radicale di massa legato ai così detti “poteri forti”.
Ecco, un personaggio come don Stefani dovrà convivere con un cattolicesimo fiorentino “rosso” in cui troviamo personaggi come padre Balducci, don Borghi, don Milani, don Enzo Mazzi e la Comunità dell’Isolotto, don Caciolli, don Gomiti, don Salucci, Mario Gozzini e, non ultimo — bon gré, mal gré — Giorgio La Pira.
Si sapeva già allora dei crimini del Comunismo e di quella esecrabile dittatura del tiranno Stalin e si sapeva anche dei duecento milioni di morti, eppure Giorgio La Pira la mattina del 6 marzo 1953, tre anni prima dell’insurrezione ungherese, si recò all’ufficio postale e scrisse un telegramma indirizzato all’allora Ambasciatore sovietico a Roma S.E. Mikhail Kostylev - Ambasciatore URSS - Via Gaeta, 5 - Roma.
Immaginiamo che quando Kostylev lesse quel messaggio abbia più volte sobbalzato sulla sedia: «Nome città di Firenze e mio personale mi inchino riverente et pensoso davanti alla salma dello statista scomparso et elevo per lui preghiera al Padre Celeste ed alla Madre di Cristo tanto amata et venerata dal popolo russo. La Pira Sindaco di Firenze.»
Lo statista scomparso era nientemeno che Stalin.
Commentò l’evento su “Realtà Politica” don Luigi Migliorini: «Il Sindaco La Pira che spedisce a spese dell’erario, in mezzo mondo, messaggi ai fedeli lacchè del Comunismo internazionale, stavolta ha inviato un bel telegramma al re dei criminali: Stalin, al cospetto della cui salma si piega riverente e commosso... ogni commento guasterebbe, ma veda un po’ il Sindaco Santo di inviare, non dico un telegramma, ma almeno una cartolina postale al Cardinal Mindszenty da anni prigioniero dei seguaci dei suoi amici comunisti di Oltrecortina.»
Eppure il rapporto tra La Pira e don Luigi Stefani fu ottimo: ho sotto gli occhi una bella foto in bianco e nero degli anni Cinquanta con don Stefani che tiene sottobraccio il Sindaco di Firenze, sono entrambi sorridenti e soddisfatti, perché il Sindaco è andato nella sede dei giuliano-dalmati (ad andare in quella sede negli anni Cinquanta si veniva etichettati come “fascisti”) di cui il sacerdote zaratino è presidente, per discutere i problemi di quella gente e Giorgio La Pira dette sempre il suo contributo per risolverli.
Ecco, io che non ho mai avuto simpatia per Giorgio La Pira, ricordo però il tabernacolo, con l’Annunciazione dell’Angelo a Maria, fatto mettere dal Sindaco all’ingresso della città e, siccome io, ho viaggiato per quarant’anni, ho sempre visto, arrivato alle divaricazione delle due strade (la Panoramica e la Bolognese Vecchia) il tabernacolo con la scritta ben visibile: “AVE MARIA! REGINA DI FIRENZE”... quale sindaco avrebbe il coraggio, ora, di farlo?

Nell’ottobre del 1955 allorché il ragazzo Ferruccio Ferrari, in seguito alla vincita di un concorso lanciato da “Il Vittorioso”, ebbe per premio un viaggio a Stoccolma, Giorgio La Pira gli affidò un messaggio da leggere al popolo svedese (e fu letto in TV) nel quale augurava ai giovani svedesi: «... che possiate crescere, avendo nel cuore la pace che Dio dona ed avendo, nella famiglia e nella società, un clima affettuoso di pace e di amicizia fraterna» e quando don Luigi pubblicò un volumetto con l’avventura di quel viaggio, La Pira scriverà, tra l’altro: «Caro don Stefani... sono i ragazzi di oggi gli autori ed i responsabili della storia di domani! I ragazzi di oggi... radicati nella loro città, amanti delle loro tradizioni, ricchi dei loro valori passati ma già aperti verso le altre città... già ricchi di speranza e di valori che fioriranno domani... Noi passiamo, le generazioni trascorrono, i secoli si inseguono, ma questa grazia di Cristo e questa civiltà di Cristo, resta come parole che non finiscono: — il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno — con affetto La Pira.»
Il quale La Pira, prima come Sindaco, poi come parlamentare e semplice cittadino, fu sempre presente alle manifestazioni culturali del vulcanico don Stefani che intraprendeva con il suo centro di cultura “Lo Sprone” — e in campo artistico non era dogma di fede essere d’accordo con don Luigi — ma soprattutto era presente alle funzioni religiose di don Luigi, a cominciar da quell’ora di adorazione nella Cappella della Misericordia del giovedì pomeriggio.
«La Pira — mi diceva don Stefani — sapeva ascoltare, e ascoltava tutti; era incredibile la sua disponibilità, sempre pronta, instancabile: avrebbe voluto esaudire i desideri di tutti. Non Riusciva a dire di No!»
E poi se è pur vero che vide nel Concilio una nuova Pentecoste, non fu però un giacobino nel campo della liturgia... anzi ebbe molto rispetto per la vecchia liturgia, cantava ancora i vespri a “una voce”, nelle processioni era sempre, devotamente, dietro al Santissimo, si potrebbe definire, proprio in campo liturgico, se non un tradizionalista un buon conservatore; in San Marco il Sindaco di Firenze aveva una scorta di catechismi di san Pio X che regalava alla gente dicendo: «Ecco la teologia è tutta qui, in questo libretto che andrebbe imparato a memoria.»
Per quanto, a riguardo gli equivoci che in campo politico, La Pira poteva creare e soprattutto per quel delirante telegramma per la morte di Stalin, don Stefani diceva: «È vero, molte volte può essere frainteso... insomma anche nel telegramma a Stalin non disse nulla di scandaloso: di fronte a un morto, chiunque esso sia, ci si inchina, riverenti, e inoltre chi, più di Stalin, aveva bisogno della Misericordia Divina e dell’intercessione della Madonna che era, nonostante lui, tanto cara al popolo russo?...»
Beh! È proprio vero che è molto facile trovar giustificazioni per le persone a cui si vuol bene!
Ogni tanto presso la chiesa della Misericordia, don Luigi celebrava (sempre nel rito antico!) la Santa Messa per qualche associazione combattentistica e d’Arma: era stato Cappellano militare della Divisione alpina Tridentina nei Balcani, impegnato in Albania e in mezzo ai suoi soldati, con il Crocifisso in pugno e col suo cappello da alpino in testa, con il quale ha voluto esser seppellito, insieme alla talare che mai aveva dismesso.
Si legge in una breve biografia di un gruppo di amici che lo hanno ricordato nell’ottobre del 2011: «Dalle operazioni belliche dei fronti albanese, montenegrino e croato torna in Dalmazia, all’isola di Arbe, ove svolge opera di cappellano militare presso il locale Presidio. Qui il Comando tedesco ha installato un grande lager, per i prigionieri politici e non, donne e bambini compresi. Le inumane condizioni di vita che costringono tante creature a una convivenza piena di stenti, di malattie, in uno stato di privazioni e di disagio per molti insuperabile, coinvolgono questo generoso cappellano militare in un nuovo grande slancio d’amore e di passione. Egli si cala in mezzo alle loro sofferenze e al loro dolore con coraggio e abnegazione: affronta e supera divieti e restrizioni, sfida minacce di morte che gli provengono dal Comando tedesco, portando ogni sorta di aiuto morale e materiale.»
Con la stessa “pietas”, con la stessa sollecitudine e cura, con lo stesso amore con cui aveva chiuso gli occhi ai soldati italiani, ai quali aveva portato il Cristo, come viatico per l’ultimo viaggio, con lo stesso fraterno affetto con il quale aveva raccolto le ultime volontà dei ragazzi con il cappello alpino che se ne andavano in cielo, ora assiste questi “fratelli” che avrebbero dovuto essergli nemici... c’era chi lo ricordava sempre a giro per l’isola con due grandi valigie pregando e convincendo famiglie e negozianti locali a farsi dare cibo e mezzi di sostentamento. Quando, arriva don Luigi, il cappellano militare, con la penna in capo, i ragazzi gli corrono incontro e gli fan festa, ovunque lui porta del cibo o dei vestiti, quando può, un sorriso e una parola di conforto, sempre.
Non altrimenti fecero gli altri cappellani militari, ovunque si trovassero e don Rino Bresci in Gere e la Resistenza nel Mugello ricorda come, attraverso il cappellano militare tedesco (era austriaco e con lui comunicava in lingua latina) riuscì ad evitare tante calamità al suo Mugello.
Successivamente, dopo che il nostro cappellano della “Tridentina”, ha abbandonato la sua terra, il governo Jugoslavo gli offre un riconoscimento, un attestato di partecipazione alla guerra di liberazione — dopo che centinaia di persone avevano testimoniato l’opera del sacerdote dalmata nel campo di Arbe — ma lo rifiuta: aveva negli occhi e nel cuore il ricordo di una mattanza, delle decine di migliaia di persone che erano state massacrate, morti, allora come oggi, considerati di serie b, perché italiani, perché trucidati dal regime comunista titino.
La cosa che ora più irritava don Stefani erano le discriminazioni: chi ha combattuto dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. No, chi ha combattuto, da qualsiasi parte, merita rispetto e onore, un fatto di civiltà, una meta religiosa e civile del vivere e del convivere... eppure c’è ancora chi discrimina i combattenti e chi discrimina i poveri morti...

Nell’anniversario della Conciliazione tra Stato e Chiesa, si sono riuniti ieri, presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta del presidente, della sezione don Lamberto Cambi, viene approvato un o.d.g: «I cappellani militari in congedo della Regione Toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell’Associazione svoltosi a Napoli, tributato il riverente fraterno omaggio a tutti i caduti d’Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la così detta “obiezione di coscienza” che estranea al comandamento cristiano dell’amore è espressione di viltà. (37)


Il presidente dei cappellani della Toscana, come appunto si evince dall’o.d.g pubblicato da “La Nazione”, era don Lamberto Gambi, recentemente scomparso, ex cappellano militare, autore di un Diario di un cappellano alpino (38), un libretto di ricordi di guerra, pieno di spunti per le meditazioni quotidiane, che tanto bene ha fatto alle anime: don Lamberto era un prete schivo, modesto, portato alla meditazione e al nascondimento... stava in una parrocchia dimenticata da Dio e dagli uomini, e ci stava volentieri perché lì il Signore l’aveva mandato, per prendersi cura delle cento anime di Fornello.
Cominciò il fuoco concentrico sui cappellani militari autori di un così nobile comunicato ma che in quei tempi pre-sessantotteschi fece sì che le vestali del “pacifismo” vile si stracciassero le vesti; ad aprire le ostilità fu don Milani al quale non andava bene che cessassero le discriminazioni «e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise» per cui scrisse la famigerata lettera ai Cappellani militari della Toscana nella quale dirà subito facendo parlare il suo spirito di classe: «se voi (cappellani militari)... avete il diritto di dividere il mondo tra italiani e stranieri allora vi dirò che... io non ho Patria e reclamo di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri sono i miei stranieri.»
Poi don Milani ci dice che nel «1860 un esercito di napoletani... tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria... Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha un monumento in qualche piazza d’Italia come eroe della Patria» e rivolgendosi ai cappellani militari: «avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra (1915-1918) si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti?»
E come no, peccato però che queste cose fossero state già dette, rispettivamente, duecento e cento anni prima e precisamente da Pio IX e da Benedetto XV (“mai più un giorno in trincea”)... pontefici preconciliari, figli della vecchia Chiesa che non piaceva a don Milani il quale, proprio in mezzo a quella “inutile strage”, come ebbe a definirla lo stesso Benedetto XV, avrebbe voluto togliere a quei giovinetti anche il conforto dei loro cappellani...
Quindi il priore di Barbiana parte, lancia in resta, all’attacco di quella “Crociata” di liberazione che “ridette Dio alla Spagna e la Spagna a Dio” perché lui è dalla parte dei miliziani rossi assassini che disseppellivano frati e suore, che fucilavano le statue della Madonna e del Sacro Cuore, che martirizzavano i sacerdoti e i fedeli al Papa: «Nel ’36 — scrive don Milani — 50.000 soldati italiani (partirono) ad aggredire l’infelice popolo spagnolo...»
Insomma lasciamo stare ogni commento, giudicherà chi conosca il martirologio della Chiesa durante il conflitto contro le orde dell’ateismo internazionale. Poi dopo aver detto che tutte le guerre sono ingiuste il prete di Barbiana afferma: «Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra “giusta”... l’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra, la guerra partigiana.»
Ora bisognerebbe ricordare che la guerra partigiana fu una guerra civile, e la guerra civile è la cosa più orrenda che possa esistere, una guerra tra italiani, tra fratelli, piena di episodi tragici che, a distanza di quasi settant’anni ancora fanno sobbalzare; bisognerebbe ricordare che gli animi più elevati, e don Luigi Stefani e gli altri cappellani militari furono tra questi, durante la vita si batterono per una pacificazione nazionale, per la concordia, quella concordia nazionale che auspicava, dal suo esilio di Cascais, Umberto II.
Ecco i cappellani militari, e don Stefani che, subito, fu preso come simbolo del “guerrafondaio”, auspicavano, senza entrare in offensive contrapposizioni tra quale fosse stata la parte “giusta” e la parte “sbagliata”, che finalmente il 25 aprile non fosse un giorno di divisione ma un ricordo di tutti coloro che combatterono per la Patria e che si potesse andare, finalmente, al cimitero ad onorare tutti i caduti, quei ragazzi che scelsero la via dell’onore andando a combattere in montagna con la Resistenza e gli altri, in grigioverde, che — lo disse l’allora Presidente della Camera Luciano Violante — scelsero quella che, anche per loro, fu la via dell’onore, e andarono ad arruolarsi nella R.S.I.
Don Stefani, quando, incaricato da qualche associazione o parente, doveva celebrare una Santa Messa per un caduto usava sempre questa formula: «Santa Messa in suffragio di N.N. morto in ... ecc. ... e per tutti coloro che caddero per la loro Patria.»
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza sarà bene ricordare che ci si riferisce sempre alla legittima difesa, ovvero a quella che il Magistero perenne e infallibile della Chiesa definisce la “guerra giusta”, che il pericolo comunista allora esisteva davvero e che era nostro diritto e dovere difendersi da esso (e chi ha vissuto quegli anni sa bene che, più volte, abbiamo rischiato di avere un “regime di terrore” e di divenire uno dei tanti paesi schiacciati dal tallone sovietico... in un’epoca in cui le opere dei dissidenti venivano messe al bando, un periodo che ben descrive lo scrittore Mario Corti nel suo Il Cavallo Rosso) e che allora “fare obiezione” di coscienza — come invitavano a fare i radicali e i comunisti — significava rifiutare la legittima difesa. Se durante una rapina uno non difende la propria famiglia come chiamarlo se non vile?
Quindi inizia a “sparare” (e quel che è peggio anche sui morti) quel p. Balducci, che poi troveremo nelle liste della P2 pubblicate da Mino Pecorelli, il quale non se la prende soltanto con i cappellani militari, ma con “i crimini bellici razzisti fatti dai cattolici”, definendo la Chiesa — tout court — “corpo di peccatori” con accuse infami nei confronti del “Pastor angelicus”, Eugenio Pacelli, il venerabile Pio XII, il cui nome cristiano Eugenio, verrà scelto dal rabbino capo di Roma Israel Zolli quando, dopo la guerra, riceverà l’acqua lustrale del Battesimo, per ciò che quel grande pontefice aveva fatto per gli ebrei.
Un gruppo di cattolici fiorentini, allievi di Attilio Mordini, denunziò lo scolopio per “vilipendio alla religione” e p. Balducci verrà condannato.
Una pagina nera per il cattolicesimo fiorentino che un corsivo de “L’Osservatore Romano” così chioserà: «alcuni che pur si dicono cattolici e che, per conformismo al non conformismo, spendono nome e parole, magari in termini di angoscia problematica, ad avallare campagne che, nell’offesa alla memoria di un grande Pontefice, hanno di mira ben altri scopi», quindi la nota continuava ed accennava ad altri tipi di dialogo «ben diverso da quello a cui esorta Paolo VI...» e qui naturalmente si colpivano certi circoli, ben identificati, del cattolicesimo “rosso” fiorentino.

* * *

Nei giorni caldi della polemica tra don Milani e i cappellani militari don Luigi Stefani, dopo una sua conferenza in cui aveva parlato dell’importanza del perdono, raccolse una sfida di alcuni giovani del Fraterno Soccorso: «Ma Lei, padre, sarebbe capace di perdonare don Milani, di andare a trovarlo, di incontrarsi con lui?...» e don Stefani disse che non aveva da perdonare don Milani in quanto, se anche c’erano state offese, lui le aveva già dimenticate e che, comunque, sarebbe andato a Barbiana a incontrarlo.
Con i due personaggi (che lo avevano mal consigliato!) all’indomani partì per Barbiana con la sua “850” e che cosa poteva portare un professore di scuola media ai ragazzi di don Milani (anch’egli docente) se non quaderni, penne, matite, album, ecc.? E così, dopo aver riempito la macchina di quello che oggi si chiamerebbe materiale didattico, si presentò a don Milani che era a far scuola in mezzo ai ragazzi: «Guardi don Milani, io sono don Luigi Stefani, dopo le vicende di questi giorni, dopo le polemiche, vorrei, da fratello nel sacerdozio, abbracciarla, stare con lei e con i suoi ragazzi, mettere una pietra sopra tutto ciò che è stato detto...»
Sobbalza don Lorenzo Milani e ammicca: «Vedete ragazzi ecco il capo dei cappellani militari fascisti... ora fatevi spiegare chi sono i suoi padroni... vedete lui è uno di quelli che portava a morire i figli dei poveri...» e via un fiume di offese e di sarcasmi, di classismo da quattro soldi. Don Luigi, immobile, in talare come il suo giudice, non batte ciglio, sta lì, fermo, davanti a Caifas che gli sta intentando un processo popolare, umiliante, ingiusto, di fronte ai ragazzi che ora non ridacchiano più ma che, forse colpiti dalla compostezza di don Stefani, stanno in silenzio, attoniti, mentre, l’altro, il “Maestro” continua con le sue insolenze «... fatevi dire dove li portava a morire...»
Son passati pochi minuti e son sembrati lunghe ore d’angoscia. Il processo popolare è terminato e il “pacifista” attende, invano, una qualche reazione dell’altro, “il violento”, che non fa parola: si allontana, va alla sua macchina, scarica in chiesa quello che avrebbe voluto consegnare ai ragazzi di Barbiana e, prima di partire, si raccoglie in preghiera, senza odio, senza rancore, sentimenti che disonorerebbero la sua veste nera.

* * *

Per quasi trent’anni cappellano della nostra Misericordia e insegnante prima di religione alle superiori, poi, di lettere, alle medie. Era un prete di grande carisma e non c’è alunno, al di là delle proprie convinzioni politiche o religiose, che non ricordi il suo vecchio professore: se gli occhi sono lo specchio dell’animo io vedo l’animo di don Luigi e delle sue alunne di Pozzolatico in una fotografia in bianco e nero che ho sotto gli occhi. Sono sorridenti, un sorriso smagliante, vero, che quasi ti fa provare un senso d’invidia a non essere della partita, a non esser lì, in mezzo a loro.
Ai suoi alpini, ai suoi ragazzi, dedicava i libri che scriveva, approfittando di qualche briciola di tempo tra un colloquio e un altro che, a sera, dalle 18 alle 20, dopo una giornata di insegnamento e di intenso apostolato, avvenivano, in quella stanzuccia in fondo alla sala di vestizione della Misericordia... Ogni sera c’era la fila: alunni o ex alunni, gente che don Luigi beneficiava, fratelli o sorelle della Misericordia, poeti e poetesse, pittori e pittrici in erba della Piccola Accademia de “Lo Sprone”, i ragazzi del Fraterno Soccorso, professionisti e popolani... e ognuno aveva da chiedere qualcosa, e sarebbe, volentieri, rimasto ore a parlare con don Luigi che, però, aveva il tempo contato e, tra una persona che usciva e un’altra che entrava, si sentiva il ticchettio della macchina per scrivere... che poi taceva: «Don Luigi vorrei farle leggere quest’ultima mia poesia... don Luigi domani mi tagliano i fili della corrente... don Luigi non potrebbe mettere una buona parola a scuola con il prof. ... sa mio figlio è un po’ ciuco... don Luigi vorrei che celebrasse una Santa Messa per l’anima di... però mi raccomando, come fa sempre Lei, in latino...»
Anche dopo il Concilio, da buon alpino, tenace, don Luigi non ha ceduto: celebra la Santa Messa “rivolto al Signore” — se oggi nella chiesa della Misericordia c’è ancora quell’artistico altare e non quel trespolo, tipo “tavola calda”, lo si deve a don Stefani — in latino: «La Messa della mia ordinazione.»
Celebra lì, a tre passi dalla Curia; c’è chi ogni tanto, ignorando l’affetto reciproco che lega il cardinal Florit a don Luigi, va su, in Curia, a soffiare sul fuoco: «Don Stefani non segue i dettami del Concilio... don Stefani dice la Messa vecchia... don Stefani celebra la Messa dei defunti con i paramenti neri»; sono le “madamine” conciliari e clericaloidi di una Firenzina provinciale, moccicosa, pettegolina e gelosa, come le definiva il sen. Giovanni Spadolini e come tuttavia le definisce il Conte Capponi, che, durante la giornata, frequentano i dietro coro e le sagrestie e che abbassano la nostra Santa Religione a pettegolezzo di corte o, visti gli elementi, di cortile.
Perfino il provveditore della Misericordia (ahi, come rimpiangeva, don Stefani, i vecchi provveditori: Valfrè Franchini o il Marchese d’Afflitto!), più realista del re, lo richiamò al rispetto dei “dettami conciliari” (sic!), seguito, a ruota, dai “prelati” del Magistrato; non così il nostro cardinale che non oppresse don Stefani e lo lasciò libero di celebrare il rito antico, con qualche “concessione” alle serve!
Così don Stefani andò avanti, per sempre, con quel suo “onorevole compromesso”, come lui lo chiamava: celebrava rivolto al Signore e la prima parte la leggeva in italiano (ma non volle, mai, i lettori all’altare) compreso il Vangelo, quindi celebrava, fino in fondo (comprese le tre Ave Marie e la preghiera a san Michele Arcangelo), secondo il rito romano antico.

Ogni sera alle 18 e ogni domenica alle 10 c’era la “Messa di don Stefani”, affollatissima e, dopo, la coda, in sagrestia, delle persone che volevano parlare con lui, che comunque era disponibile, sempre, un’ora prima della celebrazione, per le confessioni (sì, perché per fare la Comunione, almeno che non si voglia far sacrilegio, c’è bisogno, prima, della confessione!).

Chi va alla Messa da “don Stefani” (come io ci vado ogni domenica e la chiesa è sempre gremita) — scrive Tito Casini — nota una cosa: che ai suoi vangeli è impossibile distrarsi. Impossibile per ciò che dice e per come lo dice. Quello che dice è precisamente il Vangelo — il vero, l’autentico Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo tramandatoci dalla santa nostra Chiesa Cattolica — e il come è quel calore, effetto di convinzione e di amore, che Orazio esigeva dal poeta per commuoversi, per “piangere”, alla lettura dei suoi versi: “Si vis me flere flendum est primum ipsi tibi”; quel calore, sempre effetto di credere e di sentire, che gli fa, a volte, senza che lo voglia e che se n’avveda, “alzare la voce”, confermando il detto di un altro autore latino, Giovenale: “Facit indignatio versum”: sdegno il suo, zelo della casa o della causa di Dio che ha nel Vangelo i suoi esempi in vigorose frustrate non soltanto verbali.

Le riunioni del Consiglio direttivo dell’Associazione “Una Voce” per la salvaguardia della liturgia latino-gregoriana si tenevano, in genere, o nello studio di professionisti che erano nel Consiglio, o presso la Galleria d’Arte “Lo Sprone” di cui don Stefani era Direttore.
Quasi ogni sera, nei primi anni Settanta, i cortei studenteschi passavano davanti alla sede della Misericordia e i sessantottini, quando, con il volto coperto, non erano impegnati in furiosi “corpo a corpo” con la polizia o non erano intenti a disselciare le strade per lanciare sampietrini contro le camionette delle Forze dell’Ordine, scandivano i loro slogan: “Celerini assassini”, quindi, rivolti ai Carabinieri del Battaglione mobile: “Camerata, basco nero, il tuo posto è al cimitero!” e ancora: “Dieci, cento, mille Ramelli, con la sbarra tra i capelli!”, quindi “Cloro al clero!” “Il corpo è mio e lo gestisco io!”... erano i tempi tristi della contestazione studentesca, e non solo.
Le Università sono ridotte a bivacchi, dove, durante la notte, si svolgevano “ammucchiate” (e la mattina i bidelli raccoglievano i profilattici usati) di tutti i generi... in vista di un nuovo matrimonio e di un nuovo concetto di famiglia, i docenti umiliati, costretti a dare il “voto unico garantito” che veniva stabilito dall’assemblea.
Dalle scuole medie sparisce il latino, si accede a qualsiasi facoltà universitaria anche con il diploma di operaio specializzato, alle scuole elementari e, subito dopo alle medie, i discenti danno del “tu” ai docenti, non c’è più gerarchia di valori...
Nella Chiesa succede lo stesso e, all’Isolotto, si tengono le “assemblee del popolo di Dio”, un dio fatto a immagine e somiglianza dei contestatori (“né padroni, né dio, né religioni”) e, durante le assemblee, fatte in chiesa, e si offre a Dio, come incenso, il fumo degli spinelli, quella droga che, già allora, si voleva libera...
È il periodo della “Morte di Dio” come recitava una canzonetta allora in voga: “Dio è morto” che veniva cantata nelle balere... poi la lotta armata, l’angoscia che, ogni sera, ti prendeva quando veniva spiattellato l’ormai usuale bollettino di guerra.

Dio, che ci tormenti
e ci rubi la pace

abbiam fabbricato
con le nostre mani
bastioni di pietra
e i paradisi ce li da’
la droga
a piene mani

resta nel tuo cielo
lasciaci in pace;
il nostro mondo
ride di te.

Così scriveva don Luigi Stefani in una poesia che ben rifletteva il pensiero dei ragazzi di allora: lui aveva davanti ogni volto e, direi, ogni cuore dei suoi alunni e delle sue alunne (ed erano stati centinaia e centinaia) e di ciascuno indovinava i tormenti, le domande, le angosce: «Cara ragazza mia, non so chi tu sia, non ti conosco, ma Dio ti è vicino, è con te; è nel tuo cuore, basta cercarlo per trovarlo...»
E per i suoi alunni, per i suoi ragazzi, per i suoi ex allievi don Luigi era sempre disponibile ma parlava chiaro, senza cercare di lusingare, parlava con quel “sì sì no no” evangelico che è lontano anni luce dalla “neolingua” sessantottina e conciliare:

Un vuoto di generazioni esiste, non c’è dubbio. I giovani mancano di continuità storica — scrive don Stefani nel giugno del 1973 — e si trovano smarriti quando sentono i loro padri, di cui non intendono più neanche il linguaggio. Un filo è stato spezzato, non si sa se per idiozia o per cattiveria.
Certi insegnanti, certi preti, certi magistrati, certi uomini politici hanno inquinato le coscienze dei giovani...
Ci sono i contestatori. E stare dalla loro parte è molto comodo, fa progresso, fa apertura, fa anche Concilio. Io non posso, è vero, mettere in discussione la libertà di chi dichiara di voler cambiare il mondo; ma nego il diritto della libertà a coloro che vorrebbero tutto distruggere...
Certo fare l’amore è più facile che fare la guerra. Questo è il motto di tutti i profittatori, degli scansafatiche, degli evasori dalla realtà e dal sacrificio. Ciò che pesa è il sacrificio... Strappare il diploma senza esami. Guadagnare senza lavorare... Un impegno duro che, giorno per giorno, strappi dall’anima e dal corpo lacrime e sangue, è un’assurdità per la mentalità dei giovani d’oggi...
La contestazione non è difficile. Dà anzi al contestatore una parvenza di serietà, di impegno... Il contestatore è pubblicizzato. E la pubblicità crea un problema inesistente. La pubblicità dà forma e sostanza ai fantasmi... (per cui) Se il mondo giovanile — prosegue don Stefani — non si riporta a Dio, è la rovina. Dio dà la misura alla loro vita, arricchisce la loro giovinezza, insegna loro il sacrificio. Li rende responsabili di fronte all’avvenire...
Se il credo religioso — conclude — continua ad essere marginale, come lo è oggi, io sono convinto che il mondo dei giovani sia senza speranza. (39)

A distanza di quaranta anni questa analisi di don Stefani è ancor più attuale di allora in tutta la sua drammaticità.

* * *

Nel 1972, centenario della fondazione del Corpo degli Alpini, dopo venti anni di insegnamento di religione all’Istituto Agrario, don Stefani fu nominato insegnante di ruolo di Lettere, per la prima volta dopo la laurea, nel Collegio di Pozzolatico uno dei centri di don Carlo Gnocchi il cappellano militare che, insieme a lui, nella stessa divisione alpina tridentina affrontò la prima sconfitta d’Albania. Ciascuno dei due cappellani aveva negli occhi e nel cuore l’angoscia per il dramma dei morti e dei feriti... i due si separarono: don Stefani destinato alla Croazia; don Carlo Gnocchi in Russia dove visse quella tremenda ritirata con i suoi soldati... la morte nelle nevi di Russia: Iulia, Italia, Cuneense, Tridentina...
Al ritorno in Italia gli si avvicina una povera donna: «Don Gnocchi, Le affido mio figlio, non so più come mantenerlo» e glielo mette per terra e fugge, e il bambino, in lacrime tenta di correrle dietro, con una sola gamba che strascica penosamente... e don Carlo se lo prende in braccio e se lo stringe al cuore, memore delle ultime parole che aveva raccolto dalla bocca dei suoi Alpini morenti: «Cappellano, non dimentichi i nostri figli!»
A Parma, a un suo ragazzo hanno amputate le gambe e tolto un bulbo oculare: «Quando ti vien da piangere cerca di offrire il tuo dolore... prepareremo una cassettina e quando uno di voi dovrà subire un nuovo intervento, cercherà di non piangere, offrirà il suo dolore, e allora potrà mettere una perla, una perla vera nella cassetta; e poi faremo, con tutte queste perle, una croce e la porteremo al Vicario di Cristo.»
Allora il Vicario di Cristo non portava la croce di ferro ma d’oro e di perle, donata dai bambini sofferenti che vedevano in lui, nel Sommo Pontefice, nel “Pastor angelicus” il caro padre terreno che ricorda loro quello celeste: Gesù.
Nascono in tutta Italia gli istituti “Pro Juventute” per i “mutilatini” di don Carlo Gnocchi e don Stefani sarà proprio nel suo Istituto a Pozzolatico a insegnare alle ragazze delle medie. E nasce così nel cuore del cappellano zaratino il desiderio di ricordare il compagno d’armi, l’amico fraterno, scrivendo una sua biografia, pubblicandola poi in un libro, a grande tiratura, per distribuirlo specie tra le ragazze dei Collegi di don Calo e tra i suoi alpini... è una biografia popolare scritta con l’impeto e la passione propri di don Luigi Stefani: Il Santo con la penna alpina: ricordo di don Carlo Gnocchi nel centenario degli alpini (40) avendo ancora in mente le parole che il papa, il Venerabile Pio XII, rivolse agli alpini superstiti dalla ritirata in Russia, ricevuti in udienza insieme al loro Cappellano don Carlo Gnocchi: «Eroi eravate tutti; ma lui, per giunta, un Santo!»
Don Luigi Stefani lo scrive “con un sentimento di gratitudine” nella speranza che “certe sofferenze, che attanagliano il corpo dei giovani” non debbano “far dimenticare colui che, per lenire quelle sofferenze, ha sacrificato la propria vita”.
Il libro fu distribuito dunque, in migliaia di copie, nei Collegi dell’Opera della “Pro Juventute” e ai raduni alpini e, dopo l’odio, seminato abbondantemente, nei confronti dei cappellani militari, la reazione a questo libro non si fece attendere e riproduciamo integralmente il volantino distribuito nelle scuole fiorentine:

STUDENTI
A proposito di un “libello” distribuito alle nostre compagne di Pozzolatico, riteniamo di dover sottoporre alla vostra attenzione lo “stile” e il “contenuto” a dir poco degno del più “squalificato pennivendolo clerical-fascista” che caratterizza questo “manifesto della più vieta propaganda reazionaria.»
Vogliamo qui riproporre solo alcuni brani per dimostrare quanto abbiamo detto sopra: (i brani sono riferiti ad un certo “don Gnocchi”: prete e fondatore della “Pro Juventute” di Pozzolatico)
«Tante cose sono cambiate a Firenze e in Italia. Sono stati commessi errori madornali. Una progressiva degenerazione sta avvelenando l’anima stessa della Patria.»
E segue: «Ti incontrerai con preti che hanno perduto la testa e che contestano l’autorità del Vescovo.»
Continua: «Vedrai derisi: gli ex Combattenti (nota nostra: si riferisce forse agli ex combattenti della repubblichetta fascista di Salò?), i cappellani militari; esaltati i così detti obiettori di coscienza, tu che vestivi con orgoglio il grigioverde e portavi con fierezza (sic) il tuo cappello alpino. Vedrai gettati nel fango il Sacro Valore della Patria.
«Anche nel tuo collegio è entrata la contestazione. Molte ragazze poliomelitiche che dovrebbero piangere di gratitudine pensando a te, non ne vogliono sapere (nota nostra: per fortuna!) la scuola esterna le ha avvelenate. Hanno perduto la fede (in che: in don Gnocchi?) Si sono lasciate strumentalizzare da chi ha diabolicamente strumentalizzato anche la loro infermità.»
Vi risparmiamo il seguito per non offendere il vostro spirito di sopportazione mattutino; vi basti pensare che vengono esaltate le banditesche imprese imperialiste in Etiopia, in Libia, Grecia, Albania, Croazia, e l’aggressione all’URSS (lì però ci si trovarono male!).
Questa è la “vera” e unica “strumentalizzazione” che le nostre compagne di Pozzolatico hanno subito, “strumentalizzazione” politica ed economica perché certa gente come lo Gnocchi, lo Stefani (l’autore del libello, e denunciatore di preti come don Milani, ecc.) o come la “democristiana” e “suora” M.D. Pagliuca (sfruttratrice di bambini) vivono e “ingrassano” approfittandosi della “complicità” del “governo”.
Leggendo certe cose non possiamo fare a meno di provare un profondo disgusto, non solo per i diretti interessati (Gnocchi, Pagliuca, Stefani, ecc..) ma anche per questa società che protegge “certa gente” ed ha la “spudoratezza” di professarsi “libera e democratica”.

Comitato Movimento Studentesco del Capponi
Via Guelfa, 64\r - Firenze
Cicl in proprio


Il linguaggio del volantino, l’intorbidare le acque, mescolando abilmente i nomi dei due cappellani alpini con quello della Pagliuca che non c’entra davvero nulla, quell’insinuare, quel fare false affermazioni: nel libro non sono, ad esempio esaltate le “banditesche” (come le chiamano “i cazzerellini tutto pepe e sale” del Movimento Studentesco) imprese coloniali o quella in Russia ma il valore dei soldati, il loro sacrificio, il loro dramma e quello delle loro famiglie, quel cercare di tirare in ballo e di far passare da martire don Milani che don Stefani non solo non lo denunziò, come falsamente si afferma, ma, anzi, con lui, in seguitò, dopo l’episodio del “processo popolare” non fece polemiche e cercò sempre di giustificarlo...
Cosa che del resto fece anche con don Mazzi: «... è accecato dall’odio di classe ma fondamentalmente è una persona buona e generosa, quando iniziò, all’Isolotto, i suoi sentimenti erano di sincera condivisione per i più poveri...»
Insomma se avessi voluto fare un’analisi del Sessantotto, del veleno sparso dai “Cattivi Maestri”, questo volantino vergognoso ne sarebbe stato un esempio esaustivo.
Apparvero altri tre ciclostilati, dello stesso tipo, a Pozzolatico e firmati da un fantomatico “Un gruppo di ragazze di Pozzolatico” dove si criticavano le idee “patriottarde e antistoriche” di don Stefani, il quale, riguardo a don Gnocchi, avrebbe “esaltato più il valoroso alpino che il sacerdote santo”.
Don Stefani ne rimase profondamente addolorato e, più volte, invitò, pubblicamente, per scritto, quel così detto “gruppo di ragazze di Pozzolatico” a incontrarsi con lui. Ci fu un rifiuto aprioristico ad ogni forma di dialogo, pubblico o privato. Anche l’anonimato e il rifiuto del dialogo furono caratteristiche costanti del Sessantotto.

Venne a Firenze, nel 1973, invitato dall’Associazione “Una Voce” a parlare sulla riforma liturgica, o meglio sulla devastazione liturgica, Nino Badano, allora il più grande giornalista cattolico, già collaboratore de “il Frontespizio”, de “La Fiera Letteraria” e de “L’Avvenire d’Italia”. Quello stesso Badano arrestato e mandato al confino in Calabria, quando diresse, giovanissimo “Il Giovane Piemonte” il settimanale della Gioventù Cattolica; partecipò, nel 1935, alla Guerra d’Africa sul Fronte Eritreo con la Divisione “Gavinana”; dal 1941 al 1945 prima alla guerra sul fronte greco poi, con la 9° Armata in Albania, seguendo infine la sorte dei militari internati in Germania.
Fu direttore de “Il Quotidiano”, il giornale cattolico di Roma, dal 1954 al 1964 soppresso, subito dopo il Concilio, appunto perché cattolico. Direttore poi de “Il Giornale d’Italia” dal 1966 al 1969.
Quando venne a Firenze era un famoso editorialista del quotidiano “Il Tempo” e raffinato scrittore... ora, naturalmente in odor di “reazionario” in quanto non si era piegato al conformismo, all’ipocrisia e alle “bizze” del Concilio.
Ricordate la storia del centurione che, a Cafarnao, si avvicina a Gesù? «Signore il mio servo è in casa paralizzato. — Gesù risponde — Verrò a guarirlo. — Signore non son degno che tu entri sotto il mio tetto ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Poiché anch’io sono soggetto a un’autorità e ho sotto di me dei soldati e dico a uno — va — ed egli va; all’altro — vieni — ed egli viene e al mio servo fa questo ed egli lo fa. — Udite queste parole Gesù ammirato disse a coloro che lo seguivano — In verità vi dico: in nessuno in Israele ho trovato tanta fede.»
Ebbene Nino Badano prese spunto da queste parole per iniziare la sua stupenda conferenza: «Domine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum; sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea.»

Per venti secoli la professione più bella di tutto il Vangelo, pronunziata da questo soldato pagano, è stata ripetuta dalla Chiesa in uno dei momenti solenni della Messa e nel respiro più intimo della preghiera eucaristica. Dovevano venire i novatori ultimi per deturparla. Ma se i neoliturgisti hanno manomesso le parole, altri manomettono, senza dirlo, tutto l’episodio, tutto l’incontro e il dialogo di Cristo col centurione. Se potessero stralciarlo da Luca e Matteo che lo riferiscono quasi senza varianti, lo stralcerebbero.
Gesù che si ferma ad ascoltare un soldato, un uomo cioè che ha scelto la carriera delle armi e gli promette, con premura, un miracolo che quello ancora non gli ha chiesto; che segue con attenzione il suo ragionamento, quasi un apologo, sulla disciplina militare. E infine pronuncia un elogio che sembra esprimere ammirazione e meraviglia, è un Gesù — continua Badano — che disturba troppo la retorica pacifista e antimilitarista e disarmista di certi predicatori che riempiono di parole teleschermi e microfoni.
Tra i temi della nuova apologetica, accanto alla libertà e alla giustizia sociale, c’è la parte che ha nell’obbiezione di coscienza il suo precetto. Uno dei nuovi apologeti, santone della protesta sociale e del pacifismo, che in un suo testamento ha proclamato la fine dell’obbedienza come virtù, aveva rivolto un giorno un messaggio rabbioso e veemente, ai suoi confratelli cappellani militari; li aveva ingiuriati per aver accettato di assistere religiosamente i soldati.
Nel suo furore pacifista, l’apostolo della disobbedienza, avrebbe voluto che nessun prete dicesse Messa, nessuno ascoltasse le confessioni e desse la comunione o il viatico ai giovani in servizio militare...
Tutto l’Occidente è infestato da questi Sinoni che invitano a demolire porta e mura per introdurre nella cittadella il cavallo gremito di armati; predicano il disarmo contro l’armatissimo impero comunista; insegnano ai giovani, nelle scuole e dai giornali, a rifiutare il servizio e la disciplina militare, la pratica e l’esercizio delle armi, perché lo Stato si trovi disarmato e inerme nell’ora eventuale della rivoluzione.
Neppure i caduti in guerra — s’infervora il giornalista romano — si salvano dalle ingiurie della retorica pacifista: anche il sacrificio della vita per la Patria, è bestemmiato.
Dicono di voler insegnare ai giovani l’orrore per le armi e li esortano a rifiutare di impugnarle al servizio della Patria. Ed ecco le armi rinnegate per la difesa della propria terra, si ritrovano nelle mani di criminali e di sovversivi giovanissimi che non hanno certo imparato la violenza dal fascismo, a loro sconosciuto, ma dal pacifismo ipocrita dei marxisti; preti e no. Mai si sono visti tanti giovani rapinatori, banditi, ladri, lenoni pronti a ogni delitto, come da quando gli apostoli della pace predicano il disarmo e l’obiezione di coscienza.
... Gesù che parla con un militare di carriera, probabilmente armato; che gli promette con premurosa condiscendenza di recarsi subito da lui per guarire il servo... che non fa prediche pacifiste, non consiglia al centurione di disertare, né di gettar via spada e divisa, ma anzi lo elogia come nessun altro è e sarà mai elogiato; questo Gesù re e signore di pace. Che ha annunciato ai suoi fedeli una pace che il mondo non può dare, non è un pacifista da obiezioni di coscienza e da condanna di tutte le guerre; è un Gesù scomodo, che sarebbe meglio epurare.

Nino Badano riportò parte della sua conferenza tenuta a Firenze presso il Circolo Borghese e della Stampa nel 1972 nel libro I Primi giorni e gli ultimi della Chiesa (41).

Poteva scrivere don Luigi Stefani:

[...] la Sua parola trova
nella casa del pagano
statue di idoli
trofei della lontana Dacia;
la Sua parola aleggia
come una colomba
senza spaventarsi

sono cose morte

ma il servo è vivo
e già si muove
nella casa:
la casa del primo santo
con la corazza e l’elmo
(Mt 8, 5-13)

Il 1° maggio 1972 don Luigi Stefani presentò la seconda edizione de Il Santo con la penna alpina a Pozzolatico di fronte alle sue ragazze, al personale dell’Istituto “Pro Juventute”, degli alpini, delle autorità, celebrò la sua Messa, “rivolto al Signore”, in latino e volle mettere nel libro, in appendice, anche quel famigerato e insultante volantino nato dall’odio seminato in precedenza.
Alcuni tacquero, non Piero Bargellini che, con le sue decorazioni al petto, guadagnate sul campo di battaglia, prese la parola dicendo, tra l’altro:

Don Gnocchi come don Stefani, è stato soldato, è stato un alpino; ha sentito il dovere di servire la Patria; ha dato generosamente la sua gioventù, disposto a morire, a rimanere ferito, mutilato.
Anch’io sono stato soldato, mi sono messo apposta le decorazioni stamane. E le porto con orgoglio, come tutti voi alpini...
Ho creduto che fosse nostro dovere dare alla Patria la vita che ci aveva dato. Dopo di che noi siamo tornati — siamo quelli che sono tornati — ci siamo dati delle arie con la penna nera sul cappello, ci siamo pavoneggiati... abbiamo anche avuto dei privilegi come ex combattenti.
Ma i nostri sacerdoti? A chi hanno pensato? Si sono rimessi la tonaca e come a vent’anni avevano dedicato la loro vita e la loro forza alla Patria, così, dopo, hanno dedicato la loro vita, la loro intelligenza, la loro cultura, le loro energie agli altri...
Ecco la differenza tra me e don Facibeni, tra me e don Gnocchi, tra me e don Stefani. Anch’io cerco di fare del bene, ma quando mi avanza il tempo; invece questi sacerdoti hanno dedicato tutta la loro vita ad una missione di bene. E quindi dobbiamo grande rispetto ai nostri sacerdoti. E grande riconoscenza.

Dimostrò davvero rispetto e riconoscenza quell’immensa folla di persone che, con le lacrime agli occhi, partecipò al funerale di questo grande sacerdote, orgoglioso dei suoi gradi e delle sue mostrine, ma soprattutto orgoglioso di essere stato un soldato di Cristo che combatté la buona battaglia e che, nel cammino difficile e aspro della vita, conservò, pura, la sua Fede.

da LA MEMORIA NEGATA di Pucci Cipriani /Edizioni Solfanelli)
http://www.edizionisolfanelli.it/lamemorianegata.htm


34) M. Andreatini Sfilli, Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, Firenze 2000.
35) U.A. Floridi, Mosca e il Vaticano: i dissidenti sovietici di fronte al “dialogo”, La Casa di Matriona, Milano 1976.
36) L. Stefani, Sradicati, Edizioni Lo Sprone, Firenze 1974.
37) Cfr. “La Nazione”, 12 febbraio 1965.
38) L. Gambi, Diario di un cappellano alpino, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2008.
39) L. Stefani, Non sono un teologo, Pucci Cipriani Editore, Firenze 1973.
40) L. Stefani, Il Santo con la penna alpina: ricordo di don Carlo Gnocchi nel centenario degli alpini, Quaderni de “Lo Sprone”, Firenze 1972.
41) N. Badano, I Primi giorni e gli ultimi della Chiesa, Volpe, Roma 1973.




Don Luigi Stefani, Cappellano militare della “Tridentina” con il Generale Luigi Reverberi Comandante del XXVI Corpo d’Armata in Albania



Mons. Luigi Stefani nella Processione del Corpus Domini del 1972 a Firenze precede i “fratelli” della Misericordia davanti al glorioso Gonfalone



Il Venerabile Elia Dalla Costa con il prof. don Ivo Biondi, il sacerdote "firenzuolino", nipote di Tito casini, che rimase sempre fedele alla S. Messa in rito Romano antico, anima di tutte le iniziative del tradizionalismo fiorentino

1 commento:

  1. Grande uomo, grande prete. Grazie Signore per avermelo fatto conoscere.

    RispondiElimina