lunedì 11 dicembre 2017

Controprocesso a Papa Francesco (di Pietro De Marco)

Il professor De Marco interviene e confuta le tesi di R.R. Reno, Borghesi e Ivereigh nel monografico del "Foglio" dedicato al Pontefice


Caro Direttore, Matteo Matzuzzi ci ha offerto una mappa delle diverse diagnosi del travaglio della Chiesa sotto il pontificato di papa Bergoglio. Ma la mappa finisce con l’essere, per la sua stessa ricchezza di informazioni, un repertorio esemplare di spiegazioni o “narrazioni” per lo più erronee che non è possibile “lasciar correre”. A momenti viene da dire a biografi e opinionisti, ma anche a battaglieri colleghi improvvisamente filo papali: ma ci credete senza memoria o ci prendete in giro?


Il processo a Papa Francesco

Il cattolicesimo sta andando incontro alla più grande trasformazione da molti secoli in qua: entro trent’anni i suoi bastioni saranno in Sudamerica, Africa e Asia. Indagine su come il Papa sta rivoluzionando, non senza divisioni, la più grande religione al mondo
Ripercorro l’articolo. Trovo quasi in incipit una vecchia conoscenza; sono infatti decenni che si descrivono e diagnosticano lo spostamento di asse mondiale della Chiesa, la nuova composizione del Collegio cardinalizio e della Curia romana, e le loro implicazioni “future”. La vera novità di oggi è che le istanze delle chiese africane e asiatiche non corrispondono alle attese dei novatori “conciliari”. Basta pensare alla fermezza cattolica e romana del card. Robert Sarah, guineano, prefetto della Congregazione dei riti, o alle posizioni dei vescovi d’Africa e Asia al Sinodo dei Vescovi del 2015 sul regime sacramentale dei divorziati. Così avviene che, quando si oppongono le cattolicità extraeuropee alle “vetuste chiese europee” e si depreca “l’arroccamento [della Chiesa in Europa] in fortini sempre più diroccati”, si pensa di confermare uno schema perenne (la freschezza del ‘nuovo’ ecclesiale contro la conservazione del tradizionale), ma è il contrario che è vero. Abbiamo la freschezza della tradizione (della continuità cattolica) contro la vecchiezza di innovazioni e rivoluzioni. Insomma, il paradosso inconsapevole che risiede in questi enunciati è che i ‘fortini’ che si designano non sono quelli di una Chiesa conservatrice (alla quale in genere si riservano dal Concilio in poi queste metafore belliche) ma le stesse chiese modernizzanti d’Europa. Ci si dà, usando una immagine d’altri tempi, la zappa sui piedi.

La vera novità di oggi è che le istanze delle chiese africane e asiatiche non corrispondono alle attese dei novatori 'conciliari'.
Così per un’immagine-diagnosi successiva: la crisi attuale deriverebbe dall’apertura del “vaso di Pandora” delle “tensioni accumulatesi nel postconcilio e tenute a bada nella lunga stagione giovanni-paolina” fino a Benedetto XVI. Questa suggestione, per quello che vale, non è errata ma sconta anch’essa un’ovvietà: la maggior parte dei giornalisti e commentatori che scrivono ora non ha conosciuto gli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso. Non sa o dimentica, cosa comunque strana (vi è tanta letteratura in proposito), che ben altro vaso di Pandora fu aperto dall’evento-Concilio; il suo contenuto, che non è propriamente il Concilio stesso, si riversò in una lunga stagione di divisioni e diaspore, cui Roma dovette far fronte. L’età del pontificato di Paolo VI, poi quella giovanni-paolina, “tennero a bada” non tensioni che si accumulavano, ma l’opposizione esplicita e il disfacimento aggressivo di intere chiese nazionali e di ampi ceti teologici, trasformati in intelligencija “critica”. Con un successo parziale e pagato caramente: la persistente opposizione ai pontefici, fino a ieri, dell’intelligencija ecclesiastica e laica d’élite, derive teologiche e pastorali e liturgiche, effettive eresie. Salito ora al soglio di Pietro un uomo di una di quelle chiese e di quella intelligencija, sia pure nella diversità latino-americana (che da qualche secolo non abita alla “fine del mondo”!), segnato a partire dal Concilio da forti venature antiromane, il dramma di allora è oggi divenuto farsa. Poiché il Papa, per oltre venti anni vescovo ausiliare poi arcivescovo di Buenos Aires, non può evitare di fare due parti in commedia, il papa e il vescovo “anticuriale”, un ruolo prefissato che trova sempre giustificazioni. E non credo per la sua natura dialettica. Ne parlerò più avanti.
Quel miracoloso ma limitato successo dei pontificati di resistenza, poi di nuova partenza dottrinale e universalistica della Cattolica, non autorizza a dire che se ne sia ricavato “un falso senso di stabilità”; l’opinione di R.R. Reno, direttore di quello splendido periodico che è “First Things”, con cui in genere concordo. Non so negli Stati Uniti, ma in Europa i ‘conservatori’ o, semplicemente, quanti restano convinti della oggettiva verità di ogni enunciato del Credo che professano, avevano solo sperato che all’apice del percorso giovanni-paolino e benedettino vi fosse una uscita dal tunnel, ovvero dalla liquidificazione dell’Una Sancta. Avevano, avevamo, goduto di una boccata d’aria dopo una troppo lunga sopravvivenza in apnea, mentre per altri (ma lo sapevamo) ogni “stabilità” o “solidità” residua era ancora qualcosa da minare o liquefare. Nessuna illusione di “stabilità” né che, al di fuori della sede di Pietro, tanti fenomeni in corso si arrestassero. Ci affidavamo e tutt’ora ci affidiamo, spes contra spem, al Capo del corpo che è la Chiesa, al suo Fondatore e alla Sua promessa di divina assistenza.
Ma la cultura di papa Bergoglio, si dice, è più complessa di quanto appare. Che, stando al saggio di Borghesi cui Matzuzzi fa riferimento, non ci si trovi con papa Bergoglio “di fronte a una persona che non possiede le categorie per affrontare il mondo contemporaneo”, non è dire granché. Quali sono le “categorie” con cui la Chiesa e Pietro possono (ma direi: devono) affrontare il cosiddetto “mondo contemporaneo”? E vi sono categorie variabili?

Quali sono le 'categorie' con cui la Chiesa e Pietro possono (ma direi: devono) affrontare il cosiddetto 'mondo contemporaneo'? E vi sono categorie variabili?
La Gaudium et Spes tentò, oltre mezzo secolo fa, questa operazione sulla fine del Concilio e, com’era inevitabile, ne risultò una Costituzione conciliare ridondante, eclettica, già vecchia quanto a categorie di analisi. Ne restò, nel breve giro di anni, un pacchetto di citazioni buone a tutto, purtroppo anche ad essere usate come popolare chiave ermeneutica del Concilio, quello considerato vitale, “traente”; delle ovvietà sub-teologiche furono usate come perno per interpretare un corpus teologico (Costituzioni, Dichiarazioni, Decreti) controverso ma, spesso, di alto livello. Davvero un dato strutturale, che spiega molto di un post-Concilio tra radicale e imbastardito. Suo difetto essenziale còlto subito dalle stesse culture progressiste “escatologistiche” - come si diceva, per distinguerle da quelle orizzontaliste, sociali, dette “incarnazionistiche” - era l’aver cercato una proiezione mondo-centrica della fede e della vita cristiana, più che la diagnosi dei “processi storici”. Era in realtà, quella della GS, una ri-costruzione moderatamente “secolare” di un canone di “mondo”; ovvero, era l’ideologia prodotta dallo stesso saeculum che veniva privilegiata e assimilata come parametro di verità dall’intelletto cattolico. Quel supplemento di visione su come il “mondo” laico-secolare intendeva se stesso non si sarebbe dimostrato fecondo; era una visione del mondo (non più critica ma tale da sembrare, al contrario, quasi normativa per i cattolici), non il Mondo contemporaneo. Era ideologia aliena, da analizzare con sguardo fermo, distante; fu invece assimilata come amica. Agevole già allora, per le menti più libere, la previsione (oggi la post-visione, la scienza di Epimeteo) della successiva colluvies di equivoci e errori nell’esistenza credente.
Caro direttore, intenderci con i lettori su questi punti è importante. Papa Bergoglio ha certamente delle “categorie per affrontare il mondo”: ha anzitutto quelle del secolarismo cattolico. Di tanto in tanto il suo eloquio sembra sottintendere: But I can’t believe!, “questo non posso crederlo”, con J. A. T. Robinson, professore di Nuovo Testamento, vescovo anglicano, celebre per Honest to God, 1963, in Italia tradotto come Dio non è così (ma l’espressione equivale ad un Perdio! scelto dal buon vescovo per la sua equivocità ’esemplare’). ‘Non possiamo più credere x o y’, con le sue implicazioni, fu un canone popolare, alla portata di chiunque, anzitutto del clero e dei laicati colti. Innestato su molte altre mode e parole d’ordine, rivestito di ermeneutica, ha avuto lunga vita, e perdura.

Quali arroccamenti e su quale scacchiera?
Come credere, allora, che la Chiesa si sia “adagiata”, “chiusa in se stessa” dopo la caduta del Muro di Berlino come Borghesi spiega a Matzuzzi, e che “Bergoglio la riapre alla storia”? Quale chiesa? Che chiusura su di sé può praticare, su quali contenuti e forti istituzioni, una chiesa permeata da decenni di secolarismo (debole) se non in capite certo in membris? Da un lato, e dall’altro, quanta chiesa, non coincidente con questa, rimasta su tutte le frontiere? Ovviamente la diagnosi è empiricamente falsa. È vero semmai qualcosa di molto diverso e più volte diagnosticato: dopo il collasso della stagione politica, ha prevalso nell’onda lunga del post-concilio una visione dualistica (essere contro apparire, manifestarsi) della cosiddetta comunità cristiana in sé e per sé, che dovrà essere orante, celebrante ma, possibilmente, invisibile lievito - quasi il senso del lievito sia nel suo scomparire, più che il suo visibile operare, nell’impasto. Dunque non “pubblica” o politica, contro la supposta visione militante, di riconquista, del Novecento cattolico preconciliare, ma in effetti contro la vicenda millenaria della Cristianità. In compenso, e come conseguenza cercata, oltre il confine della “comunità” ogni singolo cristiano opererà “laicamente”, con totale arbitrarietà. È l’essenza della ‘scelta religiosa’ dei lontani anni Settanta. Questa disarticolazione tra fede e agire conseguente (non certo conforme ai modelli etici e politici millenari), era già stata di molte élites cattoliche, dagli anni Sessanta. Ma fu un drammatico segnale quando venne proclamata da una storica organizzazione del laicato per sua natura ordinata alla “azione cattolica”, formale e pubblica. E questa era la sua natura religiosa. “Azione cattolica” è formula ottocentesca, allora nuova, preesistente all’organizzazione laicale che prese questo nome e che non avrebbe potuto esistere in forma diversa. E l’AC non sopravvisse.
In terra cattolica, negli ultimi cinquant’anni, hanno operato sia radicali e diffusi indebolimenti secolaristici, sia l’attrazione per il Sektentypus (la tipologia protestante della piccola comunità di salvati) e uno spiritualismo anti-istituzionale, la crisi della missio (poiché il “cristiano anonimo” ha in sé idoneità sufficiente alla salvezza), la conseguente fine della presenza universalistica del clero: la fine della direzione spirituale diretta a chiunque [si direbbe ora: vada dallo psichiatra!], l’abbandono dell’abito e la mimetizzazione sociale. Invece di un prete palese, per tutti e di fronte a tutti, un uomo chiuso in canonica con la sua cerchia di parrocchiani “amici” e cento attività secondarie. Costituisce una assoluta confusione mentale, un collage inconsulto di dati e di analisi, sostenere che questa condizione di comunità, questo perseguire un ecclesiale in sé e per sé, che hanno prevalso, tra candore e mediocrità teologica, e distruzioni del passato, nelle parrocchie “riformate” dal Concilio (quelle che ancora esistono) specialmente in Europa, possano essere analogati a fortini o steccati o muraglie, secondo parametri da anni Sessanta. Se vi sono in Europa realtà ecclesiali, diroccate, cadenti, queste sono i prodotti del Concilio o, come preferisco dire, del suo cosiddetto “spirito”. Un quadro plurinazionale che coesiste e si oppone in Europa ad un altro, divergente, di chiese cattoliche nazionali, maggioritarie o meno, ma “resistenti” alle secolarizzazioni. Esemplare la polacca; miracolosa, agli inizi del terzo Millennio, la capacità di volersi rempart, baluardo e scudo, della Cristianità, mostrata nella catena di pellegrinaggi e rosari ai confini orientali ma anche occidentali! Aggiungiamo una residua capacità di resistenza di Italia e Spagna e delle stesse isole di identità cattolica nelle aree francofone. Qualcuno, cui manca ogni voglia celebrativa, sottolinea piuttosto i pericoli di una tale geografia di rapporti. Le divergenze tra chiese, anzi tra cattolicità, non troverebbero, per la prima volta da secoli, un punto equilibratore e regolatore in Roma, anzi proprio nel Papa un (il) fattore di divisione.

Se non ha corrispondenza con le cose affermare che “oggi siamo tornati nel recinto e questo rischia di clericalizzare la chiesa”, neppure ha senso dichiarare che “il Papa risulta essere destabilizzante per chi ama un mondo trincerato”?
Papa Bergoglio ha ragione quando stimola ad uscire e andare per le strade, ma è come non avvertisse che il “ritrarsi” spiritualistico e “rispettoso” (della laicità e dell’autonomia degli altri, dei valori del cristiano anonimo e via dicendo) da parte di preti e pastori, che oggi ha almeno un quarto di secolo, non ha niente a che fare con gli “antichi bastioni”, tema retorico della sua, nostra, giovinezza. Borghesi cita von Balthasar, Abbattere i bastioni! Bene, ma eravamo appunto nel 1952. Senza contare che il grande teologo e intellettuale, dalla sua Svizzera, forse non capiva bene quale fosse la situazione dell’Italia e di gran parte dell’Europa continentale, sotto la interna sfida comunista. In Vaticano si era meglio informati.
Di fronte ai laicati “conciliari”, minoritaristi e ostili a Roma, permeabili e mimetici verso tutto quanto non fosse cattolico (penso alla tragedia delle chiese protagoniste del Concilio, quelle francofone come quella olandese) l’opera di Giovanni Paolo II aveva già puntato su forze altre: i giovani, le chiese non europee, le stesse aree ecclesiali ‘tradizionali’, e riscoperto la essenziale ‘pubblicità’, in senso affine a quello giuridico, della Chiesa. Così, dire ora che “la Chiesa non può chiudersi entro il recinto di tre o quattro valori non negoziabili”, fa parte dei controsensi di una deformazione della realtà e di un cattivo uso della categorie. Con la battaglia sulle questioni bioetiche la Chiesa è stata, ed è, pubblica, alla luce del sole, conforme al proprio compito universale. Non casualmente queste battaglie furono accusate di ingerenza politica. Ma quale segnale più convincente della presenza cristiana attiva nelle banlieues spirituali della reazione che essa suscita in chi è responsabile di quelle rovine morali? Quale peggior segnale, invece, che questi soggetti responsabili (maîtres à penser, ceti intellettuali e politici ‘laici’) invece ti blandiscano, ti elogino?
E se non ha corrispondenza con le cose affermare che “oggi siamo tornati nel recinto e questo rischia di clericalizzare la chiesa”, neppure ha senso dichiarare che “il Papa risulta essere destabilizzante per chi ama un mondo trincerato”? Chi si sente in trincea? Il parroco che predica un Gesù accostante, solo umano e amorevole, perché non osa (o non sa) dire altro? Il prelato che, ormai stancamente, elogia i ‘lontani’? Per avere trincee bisogna aver qualcosa e qualcuno da proporre ed anche difendere; bisogna accettare, con coraggio, di avere anche nemici. Non è questo il caso oggi prevalente, anche se nello stringere le mani a tutti (nel limiti della correctness mondiale!) non vi è niente di virtuoso. Certo, chi combatte sembra avere trincee; così il mondo cattolico conservatore, o tradizionale, minoritario, che è però (anche) l’unico mondo che va allo scoperto, oltre le “trincee”. La convinzione pigra e politically correct che, essendo la missio per definizione pacifica (in realtà essa è annuncio della recuperata pace con Dio), per predicare si debbano cercare condizioni epidermiche di non conflitto, è un fragile sofisma che contrasta con l’intera esperienza della missione cristiana, dalle sue origini.
Non vi è topos, insomma, tra quelli documentati da Matzuzzi o reperibili negli autori che cita e in altri ancora, che non sia vecchio, o fuori contesto, o usato controsenso. Con il pontificato attuale schieramenti e significati (meglio: denotazioni) di parole sono mutati; questo, non il “puro vangelo” del Papa, è disorientante. Cercavo di spiegare ad una coppia di giovani (con figli) partecipanti alla Marcia per la vita, quale coerenza possa esserci tra la fedeltà al supremo magistero del vescovo di Roma, sempre creduto dal mondo “tradizionale”, e la contemporanea opposizione di questo mondo all’attuale pontefice. È sintomatico, dicevo, che le subculture cattoliche duramente antiromane da oltre mezzo secolo, oggi proclamino per la prima volta (loro!) una autorità del magistero ordinario, in senso estesivo, del Papa non suscettibile di critica. Si tratta di una geometria di posizioni ecclesiali alterata, normalmente incomprensibile. Infatti gli ex- oppositori di Roma non ammettono certo di essere diventati solo tatticamente filo- romani, perché a Roma c’è un papa che fa quello che piace loro, rigore dottrinale o meno, cosa che a questi ambienti non importa. Si trovano simpliciter e comodamente, per ora, ad essere i difensori del Papa. Il mondo conservatore invece, quello diretto e palese della Correctio, sa di avere l’onere di spiegare che una interna e intollerabile contraddizione resterebbe, se non si procedesse, come si è fatto, ad affermare che il papa attuale è talora gravemente in errore. E non può essergli dovuto assenso, almeno sui terreni in cui si muove senza la prudenza e la scienza (senza doni dello Spirito santo) che il suo munus gli impone. “I trascendentali sono inseparabili. La misericordia non può [in sé] essere contrapposta alla verità, sono due poli della stessa tensione ecc.”, ricorda Borghesi. Ma l’onere della prova d’essere dentro e non fuori questa dialettica è ora a carico del Papa.

Che Bergoglio abbia della chiesa una visione dialettica è possibile, forse scontato. Ma dialettica è categoria da trattare con rispetto
L’idea (Ivereigh) che “Francesco sta dicendo: bene, abbiamo risolto le questioni dottrinali, ora salviamo e guariamo” è davvero comica; talmente falsa la premessa “abbiamo risolto” che può nascere nella testa di chi non conosce né chiesa, né teologia, né storia. L’azzardata formula è preceduta da una più ampia lettura delle cose, del tutto erronea: “Francesco sta recuperando la dinamica pastorale del Concilio Vaticano II, che si è persa nel (necessario) processo di stabilizzazione postconciliare, in cui l’attenzione era rivolta all’ortodossia e all’obbedienza”. Ho già detto in proposito. Qualcosa è vero, ma solo sul polo dell’intenzione dei Pontefici; se ci limita, cioè, a parlare della “attenzione” di Roma e talora delle gerarchie nazionali, non di una conseguente e oggettiva “stabilizzazione”. Nella cattolicità molto è andato diversamente (quando non in forma decisamente aberrante); la dinamica pastorale del post-Concilio è sempre attiva e, se vi sono “stabilizzazioni” nelle parrocchie come nei movimenti o negli ordini religiosi, esse sono senza ortodossia né obbedienza.
Il giochetto di connotare i critici del Papa come gli uomini dalle “lenti sfocate”, “terrorizzati” dal nuovo, con “rendite di potere”, si scopre facilmente come inconsistente. I pezzi del puzzle in mano agli apologeti di Bergoglio non vanno a posto, non è quella l’immagine da ricostruire. Non si inventano impunemente delle narrazioni implausibili.

L’intellettuale Bergoglio.
Vi sono segnali cólti in papa Bergoglio, come ad esempio l’enunciato che “la realtà è più importante dell’idea”? Nella sua generazione, come nella mia, era diffuso questo topos anti-idealistico, tra pragmatismo ed esistenzialismo (e “filosofia della prassi”, vagamente marxista), perché sembrava risolvere la discussione sul primato della orto-prassi rispetto alla orto-dossia. Un equivoco tra i tanti, letali, di quella infelice stagione. Come può esservi orto-prassi cristiana senza un retto credere, se non presupponendo che l’orto-prassi di un cristiano sia ormai dettata da fuori della Tradizione e della Chiesa, da altre e opposte visioni del mondo? Così fu effettivamente negli anni Sessanta-Settanta, nei quali l’ortoprassi cristiana doveva essere esemplata sulle prassi rivoluzionarie e/o di liberazione. Dopo quella fase l’ortoprassi sarà esemplificata sulle libertà dei post-Moderni, proprio come la cultura comunista si muterà in “rivoluzione” dei diritti individuali. Papa Bergoglio è dentro una eredità cattolica del genere, e i suoi modelli di orto-prassi sono quelli non eroici delle quotidianità secolarizzate (quelle del sintomatico “chi sono io per giudicare?”) e post-cristiane.
La questione della cultura intellettuale di p. Jorge M. Bergoglio s.j. affrontata da Borghesi mi attrae molto, comunque; l’analisi delle culture filosofiche è il mio terreno di formazione. Mi limito a quanto Matzuzzi riporta, perché non ho ancora letto il libro di Borghesi; ma ho personalmente molta stima per l’autore di cui conosco altre cose. Che Bergoglio abbia della chiesa una visione dialettica è possibile, forse scontato. Ma dialettica è categoria da trattare con rispetto, non si tratta di credere che è vero A ma anche il suo contrario, pericolosa propensione questa che vecchi collaboratori argentini di Bergoglio gli attribuiscono.
Una visione dialettica della Chiesa condurrebbe ad esempio a pensare necessari gli opposti (detto per semplicità) dell’istituzione e dell’evento, del mistero-sacramento e della parola, della singolarità e della comunità, dell’interiorità e del culto pubblico. In una dialettica i termini che si oppongono vengono nell’opposizione stessa dotati di senso profondo e irriducibile. In Bergoglio non compare granché del genere. Il Papa, al contrario, sembra voler deprimere o trascurare quello che, nelle opposizioni che supponiamo essergli care, considera “superato” o dato staticamente: la liturgia ad esempio, celebrata sciattamente come per un obbligo formale, e la stessa istituzione ecclesiastica, che Bergoglio solamente “usa”. Forse la “dialettica” che predilige è tra Chiesa e mondo, ma è veramente dialettica o piuttosto una relazione in cui le distinzioni si liquidificano per risolvere preoccupazioni pratiche? Dov’è l’opposizione polare (il Gegensatz che presiede al concreto-vivente) del giovane Guardini, cui Borghesi rinvia? Ricordo: “La teoria degli opposti [...] parla di opposizioni non di contraddizioni. Le sintesi dei contraddittori, come sono presentate dal monismo, si spiegano col fatto che nessun concetto vi è pensato fino in fondo, nessuna essenza è vista con chiarezza, nessun confine è nettamente tracciato”.
Che “la legge che governa l’unità della Chiesa sia basata su una dialettica polare che tiene uniti gli opposti senza annullarli” è un paradigma corretto e importante. Ma è, in sostanza, la tesi della Chiesa cattolica come complexio oppositorum cara a grandi intellettuali tedeschi da Harnack a Carl Schmitt, passando per un autorevole studioso di religioni, Friedrich Heiler, che proveniva dal cattolicesimo. Salvo che in Schmitt, si trattava anche di una tesi che apprezzava storicamente ma condannava, infine, religiosamente il Katholizismus nella prospettiva protestante-liberale. E non è prospettiva che il “riformismo” cattolico, intimamente protestantizzante dalla dogmatica alla liturgia, prediliga.
Anche per queste ragioni, credo, non si trova un’idea “dialettica” di complexio nel Papa. Né dialettica né complexio di opposti hanno a che fare con i pragmatici “x ma anche y” che si intravedono nei suoi atteggiamenti, tantomeno con l’adesione a x stamani e al suo contrario stasera. Che poi, sempre sulla falsariga delle ipotesi di Borghesi, Karl Rahner non abbia avuto influenza su Bergoglio non è plausibile, poiché direttamente e indirettamente, attraverso molti tramiti e molte semplificazioni, Rahner è arrivato ovunque (cfr. De Marco, 2017). Mentre le linee che Hans U. von Balthasar sviluppò contro Rahner, quando il post-concilio apparve per ciò che era in molti ambienti e intelletti (falsificazione del dato conciliare, in una ipnotica inconsapevolezza), non affiorano assolutamente. Erano diventate, d’altronde, le passioni teologiche di una opposizione di minoranza, la rivista “Communio”, entro l’originaria militanza di Comunione e Liberazione, e altri periodici, che non si leggevano sui fronti cui Bergoglio apparteneva.
E non parliamo di Gaston Fessard s.j., il penetrante diagnostico degli errori del neotomismo degli anni Trenta-Quaranta acriticamente recettivo delle culture marxiste (il p. Chenu, ma anche Maritain) e geniale interprete di Hegel in teologia della storia, anzitutto. Ma i confratelli della Società non pubblicarono né il suo volume di dura critica alle teologie della liberazione (1968), tradotto in spagnolo (1979) e diffuso in America Latina, né il terzo volume della Dialettica degli Esercizi spirituali (postumo, 1984). Penso che se il giovane p. Bergoglio s.j. fosse stato veramente allievo di Fessard la sua maturazione intellettuale avrebbe conosciuto un altro percorso. E non parlo di teologia della liberazione, cui sappiamo che anche Bergoglio si oppose.

La “nuova era per la Chiesa” è iniziata da mezzo secolo e questo imporrebbe, come ho detto, più che ripetizione e enfasi di vecchi slogan, una analisi critica e un consuntivo coraggioso dei suoi effetti inattesi e dei suoi visibili fallimenti.
Non si deve togliere alla fervida speranza di Ivereigh e di altri niente di ciò che essa attende di buono da questo pontificato, ma prendiamo le misure delle cose. La “nuova era per la Chiesa” è iniziata da mezzo secolo e questo imporrebbe, come ho detto, più che ripetizione e enfasi di vecchi slogan, una analisi critica e un consuntivo coraggioso dei suoi effetti inattesi e dei suoi visibili fallimenti. La “credibilità della Chiesa, e la sua statura del mondo”, mai perduta in sé, è stata riconquistata da una trentina d’anni a livello pubblico mondiale da Giovanni Paolo II. E l’equilibrio, la complexio espressa dal pontificato wojtyłiano andrebbero meditati; non vi è per ora che una continuità marginale. Dire che “lo stile carismatico e personale di grande calore e sincerità” (quanto stabili e profondi questi tratti di stile?) renda “il papato molto più vicino al Vangelo”, corrisponde poi ad un’idea epidermica e un po’ salottiera della parola di Dio. Leggo che il programma di Francesco, quello eversivo del nostro gusto per le trincee, sarebbe “andare più vicino alle persone nelle loro realtà concrete, aiutandole a trovare la grazia” (ci si rendesse mai conto di quello che significano parole così importanti, invece di usarle a vanvera!) con una “proclamazione che sia kerygmatica e indichi la misericordia di Dio”. Sono parole d’ordine che, con minime varianti, hanno oltre mezzo secolo, in Europa e in America Latina. Furono e restano ambigue, minimalistiche, senza sostanza di mistero e sacramento in mano a entusiasti e sprovveduti. Ai loro effetti variamente combinati, perversi (non vi furono solo questi, certamente), si deve l’autodistruzione delle chiese europee, con poche eccezioni, nonché l’avanzata, in America Latina, delle ‘sette’ evangelical, molto più acute nell’individuare le “realtà concrete” e le vie personali (estatiche quanto pragmatiche) di enpowerment e salvezza. Non risulta che i vescovi dell’America Latina, e in particolare l’Arcivescovo di Buenos Aires con cariche di più estesa responsabilità, ora Papa, abbiano ammesso su questo fronte l’insufficienza della loro pastorale così accostante e nuova.
Non dobbiamo accettare, insomma, che, per gettare legittimi ponti di comprensione verso papa Bergoglio, si disegnino mappe della realtà fantastiche o ingannevoli.
Grato per la ricchezza del contributo di Matzuzzi e per l’intelligenza del Foglio nell’averlo ospitato nella sua inconsueta estensione, saluto cordialmente.

Pietro De Marco

Fonte: "Il Foglio" del 10- XII- 2017

domenica 10 dicembre 2017

IL CARDINALE DOMENICO BARTOLUCCI Dal Mugello alla Sistina, una vita polifonica (di Guido Scatizzi)

Era il 20 novembre 2010, quando papa Benedetto XVI volle onorare della sacra porpora il Maestro mons. Domenico Bartolucci, del clero fiorentino. All’epoca, alla venerabile età di 93 anni, si trattava del cardinale nominato più anziano di sempre nella storia della Chiesa. Il motivo di un simile privilegio non era certo difficile da comprendere, guardando a “le opere e i giorni” di questo nostro conterraneo.
Nato a Borgo San Lorenzo il 7 maggio 1917, Bartolucci dopo le scuole era entrato nel Seminario Maggiore di Firenze, esperienza della quale conserverà sempre un fulgido ricordo per la vita religiosamente orientata che caratterizzava la formazione del clero. Qui, oltre agli studî ordinarî, si dedicò ben presto alla musica e al canto sacro, affiancando Domenico Bagnoli, Maestro di Cappella del Duomo di Firenze. Alla morte dello stesso, sarà proprio Bartolucci a succedergli (e tutt’ora è un suo diligente discepolo, il Maestro Michele Manganelli, a ricoprire tale ruolo). Nel 1939, anno in cui venne ordinato sacerdote, si diplomò anche in composizione e direzione d’orchestra presso il conservatorio fiorentino; dal 1942 invece proseguì a Roma, ospite del prestigioso Almo Collegio Capranica, gli studî musicali. In poco tempo, dopo aver ricoperto il ruolo di vice Maestro di San Giovanni in Laterano, ascese alla direzione della Cappella Musicale Liberiana di Santa Maria Maggiore, nel 1947, ruolo che ricoprirà per un trentennio, quando lascerà la celeberrima corale nelle mani di uno dei suoi più noti allievi, l’attuale Maestro mons. Valentino Miserachs Grau. Risale a quest’epoca, proprio al maggio del 1947, la musicazione dell’Inno Eucaristico In Te credo Dio nascosto, composto dal “cattolico belva” Domenico Giuliotti in occasione del Congresso Eucaristico tenutosi a Greve in Chianti.
Nel 1952, su indicazione di mons. Lorenzo Perosi, Maestro della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”, fu nominato Maestro sostituto della stessa. Alla morte del Perosi, papa Pio XII gli conferì l’incarico di Direttore perpetuo dell’insigne “Sistina”: il complesso musicale si trovava in precarie condizioni, dopo la pluricinquantennale direzione precedente, e Mons. Bartolucci, con zelo e fedeltà alla musica polifonica che tanto amava, avviò un’opera di risanamento che portò la Cappella ad alternare l’accompagnamento delle liturgie papali con tournée nei cinque continenti dell’orbe. Negli anni del Concilio Vaticano II (1962-1965), contrario all’abbandono della lingua latina come lingua liturgica tanto del parlato quanto del cantato, si spese affinché il patrimonio musicale sacro, che affonda le sue radici gloriose nella polifonia palestriniana, come anche il canto gregoriano non venissero accantonati. Furono proprio quei cambiamenti insperati, ma tristemente giunti, che portarono nel 1997 alla sua sostituzione con il Maestro Giuseppe Liberto, in modo che la “Sistina” si adattasse maggiormente allo stile liturgico (o sedicente tale) del Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, mons. Piero Marini. Furono certamente anni tristi e desolanti per il Maestro mugellano, che non smise mai di celebrare la S. Messa secondo il rito di S. Pio V (cosiddetto rito romano antico).
In occasione del suo 85° genetliaco, con l'obiettivo di conservare e diffondere il notevole patrimonio musicale composto da Bartolucci, fu costituita la Fondazione Domenico Bartolucci, con presidente del comitato d'onore, di cui faceva parte anche l’allora card. Joseph Ratzinger, il card. Sergio Sebastiani. Il nuovo pontefice Benedetto XVI, che da cardinale si era strenuamente opposto alla rimozione del Maestro dalla direzione della “Sistina”, lo chiamò per un concerto in Vaticano il 24 giugno 2006. Ma il tributo volle esser ancor più tangibile, con la creazione a Principe della Chiesa che si rammentava in incipit. Come rispettivo e devoto ringraziamento, l’ormai card. Bartolucci offrì al papa un altro concerto, nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo il 31 agosto 2011, per la cui occasione compose il pezzo Benedictus (che riecheggiava il nome del pontefice felicemente regnante).
Si è spento l’11 novembre 2013, all’età di 96 anni, e le esequie, presiedute dal card. Angelo Sodano, si sono tenute il 13 novembre all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro, con il rito dell’ultima commendatio e della valedictio presieduti da papa Franesco. La cara salma destinata alla pieve di Santa Maria a Montefloscoli (Borgo San Lorenzo), dove era solito trascorrere le ferie estive, nel mai dimenticato Mugello, si trova ancora presso il cimitero della Venerabile Misericordia.
L’opera del Maestro card. Bartolucci resta un punto di riferimento per chiunque intenda dedicarsi allo studio o al semplice ascolto, che si fa preghiera, della grande tradizione di musica sacra. Con sorpresa, tuttavia, nella scorsa primavera l’Arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori, ha annunciato che un’opera lirica inedita del Maestro è stata inserita nella Stagione Lirica 2018-2019 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: si tratta del Brunellesco, opera lirica in tre atti per coro e orchestra, narrante la storia del progetto e della costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore in Firenze. La sua prima esecuzione è stata fissata proprio per il dicembre 2018, esattamente seicento anni dopo la presentazione del progetto di Filippo Brunelleschi e l’avvio della costruzione della magnificente cupola.
Sacro e profano, sulle note ricercate e autentiche di questo sapiente compositore, hanno saputo comunicare prolificamente nell’opera di una vita devota e… polifonica.


Guido Scatizzi

FONTE "IL GALLETTO" settimanale 2 dicembre 2017

martedì 21 novembre 2017

INVITO ALLA LETTURA : "DAL NATIO BORGO SELVAGGIO"

Nozze di Orazio Pedrazzi, Ambasciatore d’Italia
in Spagna, nella Pieve di Borgo San Lorenzo.
Per le benemerite edizioni Solfanelli esce l'ultimo libro di Pucci Cipriani, uno dei più noti combattenti per la Tradizione in Italia dalle origini. Il letterato e giornalista toscano racconta i ricordi del "Piccolo Mondo Antico" della sua Borgo San Lorenzo con una dose di nostalgia sincera e doverosa per un mondo in cui il ruolo della Chiesa era ancora riconoscibile ("quando ancora c'era la fede e si pregava in latino", recita il sottotitolo).
Ricordi familiari e della vita religiosa e sociale di un tempo si mescolano, in un'opera di sicuro valore letterario (rara avis nel contesto attuale), a quelli delle lotte di tanti anni per il Trono e l'Altare. Il racconto è arricchito dal vivido ritratto di tante persone reali, sacerdoti e amici, intellettuali di rango e persone semplici, che incarnano il discorso della Tradizione in volti che anche al lettore diventeranno familiari.
Processione del venerdì Santo
a San Donato in Poggio
Pucci Cipriani riesce a far parlare il passato per rendere amabili e desiderabili i valori e la fede che lo animavano, rendendo così un servizio prezioso alla nostra causa. Un ampio corredo fotografico rende ancor più viva e presente la narrazione che, farà desiderare al lettore di lottare per far rivivere quell'ordine perduto.










Pucci Cipriani
Dal natìo Borgo selvaggio
quando ancora c'era la fede e si pregava in latino
Con prefazione di Massimo de Leonardis e postfazione di Cosimo Zecchi
 pagg. 272 Euro 19,00 - Ed. Solfanelli 2017


Fonte "La Tradizione Cattolica"
Rivista del Distretto Italiano della Fraternità San Pio X
Anno XXVIII N.3 (104) - 2017

lunedì 23 ottobre 2017

E' RIMASTO SOLO TAJANI A DIFENDERE L'EUROPA E BERLUSCONI VIENE PRESENTATO COME "ARGINE AI POPULISMI"

Un certo Angelo Allegri, commentando "la rivincita del Cavaliere accolto a braccia aperte dalla Merkel", scrive su "Il Giornale" della famiglia (allargata) di Berlusconi: "La debolezza della cancelliere risulta... particolarmente evidente sul piano europeo. La Germania ha perso in pochi mesi un riferimento dietro l'altro. Consumato l'addio alla Gran Bretagna (...) la Merkel guarda a Est e vede i Paesi del così detto gruppo di Visegrad, dalla Polonia all'Ungheria, compatti nel mettere in discussione l'egemonia di Berlino (...) Quanto a Vienna (...) con il governo in via di formazione difficilmente sarà ancora così. Paralizzata la Spagna da una crisi istituzionale senza precedenti, restano la Francia e l'Italia. Qui dal punto di vista di Berlino (il pericolo è) il "velleitarismo "populista" della destra..." Insomma il cameriere di Berlusconi ammette, papale papale, che il suo padrone di Arcore, sta facendo un gioco sporco ovvero quello di dividere la "destra" ("il populismo") per presentare alla Merkel un'Italia prona, a novanta gradi, come le pecorine della Brambilla, mentre tutte le altre nazioni — quando si presenti l'occasione — cercano di liberarsi dal giogo pesante e disastroso dell'Europa. Del resto il tutto è riassunto in un titolo a quattro colonne dello stesso “Giornale” dei servi arcorei che recita: "L'ex premier (Berlusconi, n.p.c.) torna al vertice del Ppe a Bruxelles (...) unico argine ai populisti in Italia" (cfr. "Il Giornale" venerdì 20 ottobre 2017).
A questa analisi di Allegri dovremmo aggiungere un rafforzamento del così detto Gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca - Slovacchia - Polonia - Ungheria) con la vittoria, nella Repubblica Ceca, del "populista" (come vengono chiamati gli uomini di "destra" o "centrodestra" dai camerieri di Arcore!) Andrej Babis, 63 anni, che, con il suo movimento "euroscettico" di centrodestra, si è preso il 31,5% dei voti, facendo crollare al 7,9% il partito socialdemocratico al governo, e si accinge ora a guidare il Paese, insieme al partito di Destra (quella che il regime sinistro e i suoi servi chiamano Destra xenofoba...).
Ebbene di fronte a tutto questo l'omino di paglia di Berlusconi, Antonio Tajani, proveniente dalle fila del Partito Monarchico, convertitosi poi al liberal-leccaculismo europeo, una volta fatto eleggere Presidente del Parlamento — Loggia Europea delle Banche e dei "Poteri forti" — ha intrapreso una politica talmente "eurocratica" da superare di gran lunga la Merkel (ovvero la "Culona", come comunemente la chiamavano dalle sue parti anni addietro) nella difesa della politica massonica, oppressiva dei popoli, dettata dal Mondialismo; insomma Tajani — che nella mente sclerotica di Berlusconi, dovrebbe divenire il nuovo leader del centrodestra ovvero della coalizione di Lega-Fratelli d'Italia e Forza Italia — sulla scia deleteria e maleodorante dei Monti e delle Fornero, ha avuto l'ardire, dopo la clamorosa vittoria di Kurz in Austria che si accinge a formare un governo contro l'euro e contro il ricollocamento dei migranti, di inviargli un messaggio: "Ora che hai vinto forma un Governo PRO EU" ... come dire: ora che ti sei salvato dall'incendio affogati in mare.
Se ce ne fosse stato bisogno, la faccia tosta, la mancanza di intelligenza e di pudore mostrate da Tajani, sono la prova del nove, in chiave folkloristica, del pensiero arcoreo... e mi spiego.
Eravamo nel 1994, per fermare i comunisti, a un passo dal potere — e i vari Napolitano, ricordandosi dei loro brindisi ai carrarmati sovietici che avevano schiacciato, sotto i loro cingoli, insieme agli studenti e ai lavoratori magiari, ogni anelito di libertà, avevano ventitré anni di meno, e ancora intatti i canini, gli unghielli e le vibrisse di tigre — e la loro presa del potere non sarebbe stata "indolore"... circolavano già i nominativi del nuovo governo con il Procuratore Borrelli alla Giustizia, lo stesso Napolitano agli Interni e circolavano anche le "liste di proscrizione"... del resto la fine vergognosa riservata a Craxi, che non era stato certo un pericoloso "fascista", ma aveva detto chiaro e tondo che in Italia si sarebbe potuto governare anche senza i comunisti, è "pedagogica": un esempio di come sarebbero stati trattati gli oppositori del PCI. Chi ha vissuto quei tempi sa bene di cosa sto parlando.
Apprezzammo tutti la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi, senza stare a sottilizzare se lo avesse fatto per salvare le sue televisioni o per amor di patria... ancora una volta l'Italia premiò l'anticomunismo e la difesa della libertà e fecero quadrato, intorno al Cavaliere di Arcore: missini, monarchici, cattolici, leghisti e qualche socialista e liberale, riuscirono a vincere le elezioni, sfatando il luogo comune sull'inservibilità di voti della "Destra", luogo comune su cui era campata per un cinquantennio la Democrazia Cristiana come onestamente riconobbe Ciriaco De Mita: "Noi abbiamo avuto il merito storico, in questi cinquanta anni, di aver convertito milioni di cattolici alla democrazia..." Insomma il "merito" (demerito storico) di aver trasformato milioni di cattolici, ovvero di persone probe e fedeli all'insegnamento e al Magistero perenne della Chiesa, in partigianti seguaci dei giochi di potere della setta modernista della Democrazia Cristiana.
L'arrivo al potere di Silvio Berlusconi segnò la fine della dittatura cattocomunista (o meglio avrebbe potuto segnare) infatti, in tutti questi anni, si sono alternate coalizioni di centrodestra e centrosinistra, sfatando un altro luogo comune, ovvero quello dell'ineluttabilità del governo di "sinistra".
Nel 2008 il Centrodestra vinse clamorosamente le elezioni con una "maggioranza bulgara" di diciassette milioni e mezzo di voti contro i quattordici milioni della coalizione di centrosinistra capeggiata da Walter Veltroni; per cui alla Camera il centrodestra aveva 344 seggi contro i 247 della sinistra e al Senato 174 seggi contro i 134 della sinistra... a questo punto ci saremmo aspettati tutto quello che i governanti ci avevano promesso ovvero leggi che avrebbero dovuto ridare incremento alle imprese e creare posti di lavoro, con l'abbattimento della burocrazia e dei balzelli e tasse che deprimono l'imprenditore, un aumento delle pensioni "da fame" (lo stesso leader del centrodestra aveva promesso di portare le pensioni minime a 1000 euro mensili), uno stop all'immigrazione che stava diventando, già a quei tempi, una vera invasione di cui oggi se ne stanno vedendo le devastanti conseguenze, leggi a protezione della famiglia e in favore della vita dal concepimento alla morte naturale e, infine, la certezza della pena ovvero leggi che assicurassero il reo alla giustizia e gli facessero scontare interamente la pena... illusione.
Anche grazie al tradimento di Fini che ha fatto la fine ignominiosa che ha fatto, il centrodestra non fece nulla di quello che doveva fare come aveva promesso... anzi...
Berlusconi allora, dal 2008 in poi, dopo tutti quei voti piovuti dal cielo, iniziò a "perdere la testa" con festini e storie boccaccesche al limite della follia, assumendo i connotati del "vecchio satiro" e del classico satrapo che si beava della sua corte, meglio del suo cortile, dei miracoli: pullulavano i tipi come Verdini, personaggi che nessuno avrebbe invitato al compleanno del proprio figlio, o come Bondi, il suo cameriere e canaro di Arcore, le cui esibizioni televisive, degne del peggior clown del peggior circo di periferia, ogni volta ci costavano almeno tre o quattrocento mila voti in meno; questi due tristi figuri presero in mani le redini del partito e noi che votavamo per quella gente divenimmo gli zimbelli della politica. Fu fatto, da allora, il contrario di tutto quello che doveva essere fatto: invece che fare leggi a favore della famiglia fu dato il via alle bocche (o agli sfinteri) di personaggi come la Stefania Prestigiacomo, la Mara Carfagna, la De Girolamo e compagnia brutta con le loro dichiarazioni filoabortiste, femministe, eutanasiche etc... Forza Italia sul tema della sicurezza superò l'estrema sinistra e non solo non assicurò la "certezza della pena" ma si fece addirittura promotrice di leggi infami "svuotacarceri"; il duo Verdini-Bondi poi, improvvisava "siparietti" che avrebbero allontanato dal centrodestra ogni persona che avesse a cuore la morale e la legge naturale... per paura che si toccassero gli interessi del cavaliere arcoreo si appoggiò il "governo golpista" — come più o meno lo definì lo stesso Berlusconi — del duo Napolitano-Monti, un governo che portò l'Italia — e soprattutto il popolo italiano alla catastrofe... Del resto aveva cominciato Gianfranco Fini, con la sua "banda", guidata dai relitti della sottocultura e, direi della sottoumanità del GRECE, abortista, animalista ed eutanasico, insomma pagano, a far la guerra a Tremonti reclamando una "cabina di regia" sull'economia... poi scoprimmo di quale economia avesse parlato il Fini-Tulliani... ora, poi, vedremo l'epilogo in tribunale e, forse, andranno a portargli le arance in galera Menia, la Flavia Perina, i Carmelo Briguglio, Italo Bocchino e Adolfo Urso (che non perdevano occasione per andare, invitatissimi, in TV a sputtanare la Destra), Umberto Croppi chiamato come Assessore alla Cultura al Comune di Roma da Gianni Alemanno etc. etc.
Ma il vero declino del Cavaliere, la sua perdita di lucidità, insomma la sua Waterloo iniziato nel 2013 quando viene "cacciato" dal Parlamento e, quindi, dopo, il tradimento dei suoi "Ascari" mandati in soccorso del Governo e rimasti, poi, attaccati con il sedere alle poltrone — tipici esempi Alfano, il Ministro dell'invasione islamica e Lupi (omen nomen), l'uomo dei Rolex, dai lunghi canini famelici, pronto, per un "seggiolone", a divorare anche i propri genitori e, naturalmente a rinnegare Cristo e il suo insegnamento — il Patto del Nazareno, che rappresenta il "clou" del tradimento, un patto nato nelle Logge massoniche dove a Berlusconi — ora che la P2 è solo un ricordo di un passato che non ritorna — prima era "vietato" l'accesso... ma Renzi inizia invece la sua scalata.
Ci svela il "complotto" Gioele Magaldi, Gran Maestro del Movimento Massonico: "Grande Oriente Democratico", autore del libro "Massoni società a responsabilità illimitata: la scoperta della Ur-Lodges" che in un'intervista di capitale importanza rilasciata il 20 novembre del 2014 ad "Affari Italiani" ci fa capire tante cose sul "Patto del Nazareno" e l'accordo Renzi-Berlusconi. Alla domanda dei rapporti tra Matteo Renzi e i "Poteri Forti" della Massoneria Magaldi risponde:

Matteo Renzi per ora è un "Wannabe", un aspirante Massone. Non desidera essere iniziato al Grand'Oriente d'Italia o in qualche altra Comunione della Penisola. Punta molto in alto. Possibilmente a una Ur-Lodges della Rete di Mario Draghi ("Three Eyes", "Edmund Burke", "Pan Europa", "Compar Star Rose", "Der Ring"). Ma troverebbe sufficiente anche essere affiliato anche alla "Leviathan", per il tramite di Richard Nathan Haas, oppure alla "White Eagle" e o alla "Hathor Pentalpha" tramite il fratello massone Michael Leeden.

Poi lo stesso Magaldi ci informa che

Per i rapporti di basso-medio livello (...) bastano le entrature di suo padre Tiziano (non massone) e di Denis Verdini (massone). I fratelli Napolitano e Draghi sono tra i maggiori rappresentanti italiani di circuiti massonici oligarchici di respiro sovranazionale. Ma draghi ha più potere di Napolitano.

(Cfr. Intervista di Gioele Magaldi in "Affari Italiani" del 20 novembre, 2014)

Ebbene analizzando questo importante documento si spiegano molte cose come la "fiducia" (malriposta) di Silvio Berlusconi in Giorgio Napolitano e il corteggiamento dell'ex cavaliere di Arcore a Mario Draghi, nome che esce spesso dal suo cilindro; si spiega anche il "patto del Nazareno" — ovvero il suicidio politico di Silvio Berlusconi e il tradimento del suo elettorato cattolico e tradizionale — e si capisce, infine, chi sia stato il "faccendiere" autore del trait d'unione tra il Satrapo di Arcore e il Bulletto di Firenze. Si capisce anche come il partito Forza Italia sia passato dal quaranta per cento al dieci per cento e spiccioli di voti... si capisce infine il "gioco sporco" di Berlusconi che sa che "a sinistra" non c'è trippa per i gatti e che i voti si prendono a "Destra" e, per questo, si è messo con Salvini e la Meloni (che dovrebbero meditare sul vecchio adagio: "Timeo Danaos et dona ferentes") e, una volta ottenuti i voti, li pugnalerà alle spalle e porterà il suo "bottino" a Renzi, con cui ha concordato la nuova legge elettorale che prevede le larghe intese, ovvero gli inciuci.
Per cui gli elettori di destra, sono già stati traditi in partenza, dopo che nella coalizione di centrodestra è stato inserito anche il Partito tricolorato di FI... che, sia chiaro, non porta voti alla coalizione ma, semmai, li toglie. Ormai il gioco è scoperto: il "sensale" Verdini sta tenendo calda, in casa PD, la poltrona al Berlusca e alla sua banda. Il quale Berlusca ormai è prigioniero di personaggi a dir poco inquietanti, dalla Pascale — nel novembre del 2014 la detta Signorina andò a iscriversi all'Arci lesbica con Vittorio Feltri (Arci Gay) — a Luxuria... insomma una "svolta gay"... quando a dettare la "linea etica" erano, appunto, i due personaggi. In particolare la Pascale la cui candidatura ora viene data per certa a Napoli, con il programma in difesa dei matrimoni e delle adozioni pederastiche e, naturalmente, dei diritti degli agnellini e delle pecorine... a proposito delle quali ha pensato la Brambilla a fondare un "partito animalista" sponsorizzato dal Berlusca e dalla stessa Signorina Pascale... che di pecorine, assicurano, dovrebbe intendersi.
Per quanto riguarda l'Europa, il Mondialismo, le politiche antipopolari, l'invasione islamica voluta dalle Logge... Berlusconi si è già allineato ai "Poteri Forti" in attesa di un governo filoeuropeo Renzusconi. Con buona pace di noi, elettori di centrodestra, anzi di Destra.

Pucci Cipriani

martedì 17 ottobre 2017

SPIGOLATURE MUGELLANE - CAMPANILI E CAMPANE MUGELLANE

Nessun uomo è un'isola
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una nuvola
venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di un qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.

(John Donne, Meditazione XVII "Nessun uomo è un'isola")


Il verso "per chi suona la campana" della bellissima poesia di John Donne (1572 -1631), che è lo specchio - come nota Cristina Campo - di un'epoca della storia inglese, quando l'essere cattolici venne interdetto durante il regno di Elisabetta I, fu scelto da Ernst Hemingway come titolo e "chiusa" del suo capolavoro: "Per chi suona la campana", appunto, un romanzo che si svolge durante la Guerra Civile spagnola e ha per protagonista Robert Jordan (in molti hanno visto in questo personaggio lo stesso autore che sposò, nella Guerra fratricida che va dal 1936 al 1939, la parte "repubblicana e antifranchista"), combattente al fianco dei miliziani, il suo amore per la giovane rivoluzionaria Maria e la sua azione bellica, a fianco dei "ribelli" comandati da "Pablo" e dalla zingara Pilar, sulle colline iberiche.
Quanto importante sia per la comunità civile - e non solo per i cattolici - il suono delle campane ce lo dice la Storia. Forse pochi sanno, ad esempio, che la Campana di Mezzogiorno, quella che nel nostro Mugello chiamano ( o forse "chiamavano") "la Campana della Pastasciutta", suona, in realtà, per ricordare la vittoria della Flotta Cristiana -.comandata dal fratello bastardo di Filippo Il, l'eroico don Giovanni d'Austria (1629 - 1679) - nelle acque di Lepanto (7 ottobre 1971): "ultimo capitolo dell'antico scontro tra Oriente e Occidente (che) acquista oggi un significato particolare, in quanto la vittoria della Lega Santa divenne la pietra miliare sulla quale si autolegittimerà l'egemonia occidentale e di cui si nutrirà la volontà di riscatto del mondo islamico nei secoli a venire" come scrive lo storico Niccolò Capponi, nel più bel libro (immensa documentazione d'archivio vista anche dalla parte dei "turchi") mai scritto su questa battaglia (cfr. Niccolò Capponi: "Lepanto 1571: la Lega Santa contro l'Impero Ottomano" - Il Saggiatore -)
E proprio Niccolò Capponi, a proposito di "campane", mi poté dare, anni fa, queste simpatiche note a proposito del suo avo Pier Capponi: quando, di fronte all'arroganza di Carlo VIII che minacciò di invadere Firenze al grido di "Noi suoneremo le nostre trombe", rispose impavidamente "E noi suoneremo le nostre campane"...mettendo così le ali ai piedi al presuntuoso Re francese, per cui, ironizzando sulla fiera risposta del Capponi, Machiavelli chiosò: "Lo strepito dell'armi e de' cavalli / non poté far che non fosse sentita / la voce d'un Capponi tra tanti galli / tanto che il Re superbo fé partita" e anche Giuseppe Giusti volle dir la sua. "Fra gli altri dilettanti oltremontani / per infilarmi un certo re di picche / ci si messe co' piedi e colle mani / ma poi rimase lì come Berlicche / quando un Cappon, geloso del pollaio /gli minacciò di fare il campanaio".
E il suono delle campane iniziò a toccare il cuore di un mangiapreti toscano, un miscredente autore, niente meno, che del famigerato "Inno a Satana", di quel Giosué Carducci - poi divenuto un "innamorato della Madonna" negli ultimi anni di vita - allorché fu colto da una gran nostalgia e da una profonda commozione quando sentì il doppio di una campana della Romagna che suonava l'Ave Maria: "Salve chiesetta del mio canto. A questa / madre vegliarda, o tu, rinnovelata / itala gente dalle molte vite / rendi la voce / de la preghiera: la campana squilli - ammonitrice: il campanil ritorto / canti di clivio in clivio alla campagna / Ave Maria..."
Del resto chi è che non ricorda quando, bambini, ascoltavamo le note di " San Martino campanaro / dormi tu? Dormi tu? / suona le campane, suona le campane/ din ! don ! dan! din! don! dan!" o quando - e quanti, quanti anni son passati - ragazzini aspettavamo il sabato sera, il giorno in cui ci era concesso di assistere al Musichiere, lo spettacolo musicale condotto da Mario Riva, che si concludeva con la sigla di quella bella e famosa canzone che ci faceva vivere la gioia della vigilia festiva e assaporare il mattino della festa: " Domenica è sempre domenica / si sveglia la città con le campane/ al primo din don sul Gianicolo / Sant'Angelo risponde din don dan!"
Il nostro Giorgio Batini fece il verso al romanzo "Per chi suona la campana" e pubblicò, il suo "Per chi suona la Toscana" in cui scriveva: "I bronzi dei campanili hanno suonato, nei secoli, per la nascita, i prodigi, la salita al cielo di un grande popolo di Santi (...) hanno suonato nei secoli, per chiamare a raccolta i cittadini a difendere i liberi comuni, le libere Repubbliche, le istituzioni democratiche. Quello delle campane era un suono che dominava su tutti gli altri suoni cittadini, dato il gran numero di bronzi che ornavano i campanili e le torri civiche vantato da ogni città (...) i bronzi della Toscana hanno suonato per i riti della fede, per le ore del lavoro, per la legge e la giustizia, per la salvaguardia dei beni, per la difesa della libertà..." (Cfr. Giorgio Batini in "Per chi suona la Toscana" Edizioni Polistampa, Firenze 2007)
E le campane nel nostro Mugello? Ce ne parla il professor Rino Gori, di Rignano, già Preside nelle Scuole della Toscana, in una sua lettera del 2005 dove commentava il libro di Pucci Cipriani: "L'altra Toscana: Diario di un Conservatore" e che l'autore ha pubblicata in un altro suo tomo del 2013:

Caro Cipriani, il Suo libro "L'Altra Toscana: Diario di un Conservatore" è molto bello e si legge con molto piacere per i ricordi che suscita, per le speranze che abbiamo cullate (....) io sono con Lei fin dalle prime pagine. Quando Lei vide la luce a Borgo San Lorenzo, io avevo diciassette anni. Allora dimoravo nei pressi di Monte Senario, frequentavo molto spesso il convento dalla cui cisterna si gode una bella vista sul Mugello, con in primo piano il panorama di "Borgo".
A quell'epoca i paesi di campagna si somigliavano tutti sotto certi aspetti: chi può dimenticare, infatti, i rintocchi delle campane che ci richiamavano alla preghiera a quasi tutte le ore? Ci invitavano a recitare l'Angelus Domini tre volte al giorno: All'Ave Maria dell'Alba, a Mezzogiorno, alle "ventiquattro" (al tramonto). Alle ventuno del venerdì venivano a ricordare l'Ora della Redenzione (Morte di Croce). Alle ventitré ci esortavano a recitare il Credo. All'"un'ora" (prima della notte) ci ammonivano di pregare per i poveri morti. Alla vigilia delle feste solenni le campane suonavano a distesa a distanza di ogni ora, rallegrando i nostri pomeriggi e i nostri animi....e poi ogni tanto quel suono "a morto" che annunziava che uno di noi se n'era andato e che bisognava pregare per lui e per i suoi familiari, quindi ancora la campana con i mesti rintocchi dava l'ultimo addio ("ad Deum" ovvero un "ci rivedremo" al cospetto di Dio); e quel suono era triste e consolatorio a un tempo (...)
Il suono delle campane evocava tanti sentimenti e tanti ricordi. Neri Tanfucio (alias Renato Fucini), al rintoccar di non so quali campane, pensava ai suoi morti, al Ceppo, alla Befana ed agli anni suoi che erano passati "a volo": si metteva il capo tra le mani e avrebbe baciato la fune delle campane ma poi concludeva con un'inaspettata e dissacrante battuta:

Però non so capì, Dio mi perdoni
come diavolo mai faccino i preti
a trovare 'r coglion che gliele suoni

(Cfr. Pucci Cipriani in "La Memoria negata: appunti per una storia della Tradizione in Italia", Solfanelli, Chieti 2013)

Già, ma ora non c'è più bisogno del campanaro ( e quanto rimpianto per quelle figure caratteristiche ormai scomparse!) e certo, davvero, non si sarebbe trovato - neanche con la manovalanza "a basso prezzo" e " a termine" come oggi - chi potesse suonar "la squilla della sera / che dolcemente invita alla preghiera", come recita una bella laude mariana, come non si troverebbe chi potesse suonare "a morto", con il rintocco triste, o "a distesa"...ora basta girare una chiavetta, e le campane "vengono programmate" per suonare quando si vuole e ciò che si vuole e, del resto, grazie alla tecnica, il suono delle campane non è scomparso (anche se il suono non è melodioso e squillante come un tempo!) e stupisce come, ad esempio a Borgo San Lorenzo i morti non ricevano più dalle campane, ovvero dal campanile sotto il quale hanno vissuto, quell'ultimo saluto. Lo ricevono invece nella chiesa del SS. Crocifisso che, pur non avendo il campanile, ha un sacrista "con i fiocchi" nella figura di Graziano Melara che rimedia mandandoci il suono, molto suggestivo, registrato. Questo voler togliere i simboli della morte, il rifiutare di "addomesticarla" come si faceva un tempo, ma cercare di "nasconderla" come si nasconde la polvere sotto i tappeti, non è che un ritorno al paganesimo; oggi la morte è "scandalosa", si preferisce non parlarne, cambiare discorso, "ghettizzare" i parenti del defunto, che creano imbarazzo, cercare di nasconderla, abolendo l'uso dei paramenti neri o del suono delle campane.
Philippe Ariès, forse il più importante storico francese, in un suo importante studio, afferma che facendo così si fa una grande confessione di impotenza: "Non ammettere l'esistenza di uno scandalo (...) fare come se non esistesse, e quindi costringere senza pietà le persone accoste ai morti a tacere. Un pesante silenzio si è venuto così a distendere sulla morte... (e) questo atteggiamento non ha annientato né la morte né la paura della morte: Al contrario ha lasciato che tornassero subdolamente vecchi elementi selvaggi sotto la maschera della tecnica della medicina. La morte all'ospedale, irta di tubi, sta diventando oggi più terrificante del cadavere in decomposizione o dello scheletro delle retoriche macabre" (Cfr. Philippe Ariès: "L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi" - Oscar Mondadori, Milano 1980, pp. 730 -731)
Quanto più bello e umano dunque non "nascondere" la morte, ma anzi, annunziarla con il suono delle campane!
Ricordo, a questo proposito, il giovane fiorentino Paolo Bartalesi - studente ginnasiale nel Liceo classico Galileo - deceduto a sedici anni, in odore di Santità, che, proprio dal Monte Senario, ove si trovava per gli esercizi spirituali, avvinto dalla misticità del luogo e dalla bellezza del paesaggio, sentiva i rintocchi mesti della campana che suonava "a morto" nella "verde vallata del Mugello" e componeva così, pochi mesi prima della sua morte per un incidente della strada, questi suoi versi, che furono anche gli ultimi:

Non so perché quando campana suona,
leggo alcunché di bello e vedo il cielo,
a gran mestizia il cor mi s'abbandona;
.............................. .............................. .....
"Domine" dice, "Exaudi vocem meam!"
chi nel bisogno trovasi; chi teme:
"Domine" dice, "exaudi vocem meam!"
Abbi pietà, Signor, del nostro seme
.............................. .............................. ...........
"requiem aeternam", riposo verace,
da' lor Signore, e fa' che luce eterna
risplenda ad essi, riposino in pace.

(Cfr. Tito Casini in "Paolo Bartalesi, studente fiorentino", SEI 1959)

Spero anch'io di poter domandar ancora "Per chi suona la campana" del Longobardo campanile - ora che, da tanti anni, non ha più suonato -, fino quel giorno che la gente dirà che ha suonato per me.

Gaddo de Grandville





Fonte : "Il Galletto" Giornale del Mugello e della Val di Sieve dal 1986! del 14 - ottobre 2017.

martedì 19 settembre 2017

Sul "Dialogo tra credenti e non credenti"

"Pasquinata" dello storico Niccolò Capponi:

"Convegno di Assisi", grandi titoli di testa
dei quotidiani, in più con l'aggiornata lista
dei protagonisti, assai famosi e tanti,
a osannare Cecco, che dice "vai avanti".
Spiccano i crocioni sul petto dei prelati,
sobri, di semplice metallo... e uncinati.
N.C.

Mentre a Borgo San Lorenzo, venerdì scorso 15 settembre 2017, si stava presentando, di fronte ad un pubblico che si può considerare davvero eccezionale, il bel libro che eleva al cielo, curato dalla nostra Cristina Siccardi, L'Arte di Dio (vi prego di visitare il sito www.artedidio.it) edito da Cantagalli, con il contributo dei più bei nomi della Cultura Occidentale (vedere sopra), ad Assisi, dal 14 al 17 settembre, si è tenuto un Convegno dei "laici"di Bergoglio dal titolo: "Dialogo tra credenti e non credenti" (c'è da domandarsi dove stiano i credenti!)  che ha chiamato a raccolta gli esponenti del cattocomunismo, del veterocomunismo e del leccaculismo italico: da Umberto Galimberti a Giuseppe Giulietti e Corrado Formigli, dallo storico filomusulmano e donmilanmeuccista Franco Cardini al rag. Enzo Bianchi e Rula Jebroel (anche lei un’intellettuale?), da Romano Prodi e Ignazio Visco a Ermete Realacci, dal fotografo menagramo Oliviero Toscano a Giafar al Siqilli (ovvero l'apostata Pietrangelo Buttafuoco che ha pubblicamente rinnegato il Santo Battesimo per passare all'Islam) e Andrea Riccardi... e via contando. Insomma tutte persone di spiccata fede cristiana, tutte persone – anche se non cristiane come l'apostata sopra citato – che hanno a cuore la Santa Chiesa come io ho a cuore la situazione dei lombrichi del Burundi...
Non si sa se ridere o piangere. Tra questi nomi ne spicca uno di un intellettuale serio e che non ha mai praticato l'arte del leccaculismo: Marcello Veneziani. Ce ne dispiace: pensiamo che, in buona fede, si sia trovato in mezzo a questa marmaglia per dare la sua testimonianza di cristiano e di anticonformista.
Ma c'è da farsi una domanda: "Cui prodest?" a chi giova mettere il proprio nome accanto a quello di gente nemica acerrima e militante della Chiesa e dell'Occidente, a gente prona di fronte al Moloch Rosso a novanta gradi, come le pecorine della Brambilla (chi sa perché non sia stata invitata anche lei e il suo partito "animalista"!).
Per misurare la crisi e l'apostasia della Chiesa leggete i nomi dei "laici" del Papa partecipanti a questo Convegno e poi andate a leggere i nomi di coloro che hanno dato il loro contributo a L'Arte di Dio. Insomma da "L'Arte di Dio" a "L'Arte di Satana".
Leggo su facebook un commento alla  notizia del Convegno di Assisi: "Quella è gente che resta sempre a galla. Tirate lo sciacquone".

 Pucci Cipriani

lunedì 18 settembre 2017

ARTE DI DIO E ARTE DI SATANA

Venerdì 15 settembre 2017, a Borgo San Lorenzo (Firenze) si svolto – di fronte a un grandissimo pubblico, tra cui tanti, tanti giovani e giovanissimi e alla presenza del M. Giovanni Gasparro  – un Convegno, patrocinato dal Comune del Capoluogo Mugellano e promosso dal mensile "Radici Cristiane", dalla casa editrice Cantagalli e dal Circolo "La Terrazza" di Ronta, sulla presentazione del libro curato da Cristina Siccardi L'Arte di Dio (Cantagalli) – scritto con il contributo dei più bei nomi della Cultura Occidentale: Filosofia (Corrado Gnerre, Giovanni Turco), Teologia (Don Jean-Michel Gleize, FSSPX), Storia (Roberto de Mattei), Lingua latina (don Roberto Spataro, salesiano), Storia e Critica dell'Arte (Roberto Natali, Antonio Paolucci, Vittorio Sgarbi, Christine Sourgins), Letteratura (Martin Mosebach), Architettura (Piercarlo Bontempi, Andrea De Meo Arbore), Pittura (Giovanni Gasparro), Scultura (Daphné Du Barry), Musica (Monsignor Vincenzo De Grogorio, Mattia Rossi), Teatro (Pier Luigi Pizzi), Sociologia delle Religioni (Pietro De Marco); oltre ai contributi del Cardinal Domenico Bartolucci, p. Michel Uwe Lang, Riccardo Muti – a cui hanno partecipato la stessa curatrice del libro professoressa Cristina Siccardi (autrice, tra l'altro, di molte importanti biografie tra cui quella su San Giovanni Bosco, san Pio X, Monsignor Marcel Lefebvre, ecc.),  il Diacono del Duomo di Firenze Alessandro Bicchi, Vicedirettore dell'Ufficio Arte Sacra e beni Culturali Ecclesiastici, Incaricato Inventario e Tutela Beni Ecclesiastici dell'Arcidiocesi di Firenze, Carlo Manetti, Docente Universitario.
Prima degli oratori ufficiali ha portato il saluto il Consigliere Comunale di Borgo San Lorenzo Patrizio Baggiani  che ha ringraziato i tanti presenti, le autorità, gli autori e ha portato il saluto del Vicario Episcopale per il Clero dell'Arcidiocesi di Firenze Mons. Giancarlo Corti, quindi la dottoressa Cristina Becchi, Assessore alla PI e alla Cultura, ha definito "l'Arte Sacra" come: "Bellezza, Messaggio di Fede ed elevazione dello Spirito" come si evince anche dal libro.
La curatrice del volume, professoressa Siccardi,  ha detto che "Di fronte a un'arte che spesso non sa più parlare  a Dio e di Dio, per la prima volta viene proposto un Simposio tra intellettuali artisti capace di rispondere – ha continuato la Siccardi – ad alcune importanti domande come: l'Arte contemporanea è ancora in grado di dare Gloria Dio? È capace di avvicinare i fedeli in maniera adeguata al Cristianesimo? Conta o non conta la bellezza nell'arte sacra e nei riti liturgici? Che cosa comunicano di sacro le Chiese moderne? Esiste una pedagogia catechetica nei nuovi edifici di culto? Bambini e adulti entrando nelle chiese odierne trovano ambienti adatti per il raccoglimento, la preghiera, l'elevazione dell'anima? Com'è possibile che la committenza ecclesiastica chiami ad operare architetti o artisti distanti dai concetti di bellezza e sacralità?"
Domande a cui rispondono, da par loro, gli artisti che hanno dato il loro contributo al libro e che Cristina Siccardi ha riassunto portando alla luce la tremenda crisi dell'arte e, in particolare, di quella sacra ma, nello stesso tempo, evidenziando che a differenza di quanto preconizzavano e auspicano i filosofi Hegel e Nieztscke: "Dio come l'Arte non sono morti: questa è la vana illusione dei desiderata dei senz'Arte e dei senza Dio. L'Arte Sacra del passato è contemporanea all'uomo di oggi, che spesso non sa più leggerne gli apparati simbolici e iconografici, ma forse, più che mai, vi trova sollievo, pensando che esiste una dimensione soprannaturale e, nel farlo, rimembra la sua coscienza".
Sono seguiti gli interventi di Alessandro Bicchi che, rifacendosi ai Padri della Chiesa, ha ricordato il concetto greco di bellezza e Carlo Manetti ha messo magistralmente in evidenza i motivi filosofici e teologici della crisi della crisi dell'arte e in particolare dell'arte sacra.
Ha moderato il giornalista Pucci Cipriani  Direttore di "Controrivoluzione" (www.controrivoluzione.it)

Ascanio Ruschi










lunedì 11 settembre 2017

Presentazione "L'Arte di Dio" di Cristina Siccardi a Borgo San Lorenzo (venerdì 15 settembre 2017)

Venerdì 15 settembre 2017, alle ore 21:00, a Borgo San Lorenzo — Saletta "Pio La Torre" Via Giotto, davanti alla Misericordia — per iniziativa del Circolo "La Terrazza" di Ronta, della Casa Editrice Cantagalli e del mensile "Radici Cristiane", con il patrocinio del Comune di Borgo San Lorenzo, verrà presentato il volume curato da Cristina Siccardi: "L'Arte di Dio. Sacri pensieri, profane idee" (ed. Cantagalli). Dopo il saluto dell'Assessore alla Cultura e alla PI del Comune di Borgo San Lorenzo Cristina Becchi e del Consigliere Comunale Patrizio Baggiani, interverranno la curatrice del libro Cristina Siccardi, storica e scrittrice; Alessandro Bicchi, Diacono nel Duomo di Firenze, Vicedirettore dell'Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali Ecclesiastici, Incaricato Inventario e Tutela Beni Ecclesiastici dell'Arcidiocesi di Firenze; Carlo Manetti, Docente Università private. Coordinerà gli interventi Pucci Cipriani, giornalista. Sarà presente il Maestro Giovanni Gasparro con l'opera "Salvator mundi", originale della copertina del libro. 
Il libro L'Arte di Dio. Sacri pensieri, profane idee (Cantagalli) — pagg. 456, con un inserto iconografico a colori (pagine fuori testo), Euro 29,00 — secondo la prof.ssa Cristina Siccardi, storica e scrittrice — autrice, tra, l'altro, per le Edizioni Paoline, di una biografia su San Giovanni Paolo II —  pone alcune domande, in questo saggio, che risulta essere un vero e proprio Simposio tra intellettuali e artisti: "L'arte contemporanea è ancora in grado di dare gloria a Dio? E' capace di avvicinare i fedeli in maniera adeguata al Cristianesimo? Conta o non conta la bellezza nell'arte sacra e nei riti liturgici? Che cosa comunicano di sacro le chiese moderne? Esiste ancora una pedagogia catechetica nei nuovi edifici di culto?".  In questo Simposio rispondono a tale e alle altre domande della dottoressa Siccardi ventidue personalità, fra le più importanti personalità della Cultura italiana e del panorama internazionale: i Professori Corrado Gnerre e Giovanni Turco (Filosofia), Don Jean - Michel Gleize (Teologia), Prof. Roberto de Mattei (Storia), il salesiano Prof. Don Roberto Spataro (Lingua latina), i Professori Antonio Paolucci, Antonio Natali, Vittorio Sgarbi, Christine Sourgins (Storia e Critica d'Arte), Prof. Martin Mosebach (Letteratura), gli Architetti Pier Carlo Bontempi, Andrea De Meo Arbore (Architettura), Maestro Giovanni Gasparro (Pittura), Madame Daphné du Barry (Scultura), Mons. Vincenzo De Gregorio, Dottor Mattia Rossi (Musica), Maestro Pier  Luigi Pizzi (Teatro), Professor Pietro De Marco, Sociologia delle Religioni.
Nell’appendice del volume sono presenti: il Grande Cardinale borghigiano Domenico Bartolucci, Maestro Perpetuo della Cappella Sistina, il migliore compositore di Musica Sacra del XX Secolo; il Maestro Riccardo Muti; l'Oratoriano Padre Michael Lang, che già avevano denunziato le scelleratezze architettoniche, aniconiche, liturgiche e musicali in altri contesti e che sono qui abilmente riproposte.





Per gentile concessione dell’Editore Cantagalli, pubblichiamo alcuni estratti dei contributi presenti nel volume curato da Cristina Siccardi:

La fine dell’architettura religiosa e della pittura religiosa: non è che esse abbiano tradito un principio, è che non c’è più un’esigenza che lo richieda

con Vittorio Sgarbi


Lei ha criticato aspramente «il delirio di onnipotenza di quasi tutti gli architetti contemporanei che dagli anni Settanta in poi seminano bruttezza. Sono credente e ho sempre considerato la religione cristiana il fondamento della nostra civiltà, perciò non posso restare in silenzio davanti all’eliminazione dal punto di vista morfologico di elementi costitutivi per quindici secoli degli edifici sacri quali la cupola e la volta. Elementi-simbolo del paradiso» (G. Galeazzi, Che brutta l’architettura sacra contemporanea, in «Vatican Insider - La Stampa», 6 novembre 2012). Può chiarire la sua posizione critica nei confronti dell’edilizia sacra progettata dagli anni Settanta ad oggi?
Alcuni elementi tipologici fondamentali che determinano la libertà sul male, al di fuori di ogni codice e da ogni indicazione spaziale, sono praticamente rappresentati dal fatto che dall’architettura religiosa, realizzata negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta fino a Fuksas mancano la volta e la cupola: la cupola è il Cielo, la volta è la dimensione che sta sopra alla testa degli uomini. Mancano sia le forme architettoniche, sia gli affreschi, sia le decorazioni che accompagnavano quelle forme curvilinee e quindi è evidente la volontà di interrompere le tipologie verticali, come nel Gotico; le cupole e le volte nel Rinascimento: la simbologia che tali elementi hanno rispetto ai valori religiosi e ai valori celesti è stata eliminata nella decadenza e nella fine dell’architettura religiosa, la quale non ha più una morfologia riconoscibile. Si è deciso di rinunciare al Cielo, di rinunciare alla presenza di quello che sta sopra di noi; quindi si procede attraverso stilemi meccanici, che servono magari per contenere persone, come potrebbe essere un teatro… ma teatro è già molto. Essi sono niente!
Sono l’idea di un architetto che chiama chiesa un contenitore totalmente privo di elementi morfologici che lo connettano alla presenza di Dio […].

Che cosa pensa degli “adeguamenti liturgici” che sacrificano gli impianti decoratovi preesistenti nei presbiteri delle nostre chiese antiche, com’è accaduto nella cattedrale di Reggio Emilia, con l’adeguamento curato da padre Andrea Dall’Asta SJ con opere di “arte povera”?  
Gli “adeguamenti liturgici” li considero scellerati perché hanno prodotto gli effetti inauditi della cattedrale di Reggio Emilia. Amboni, balaustre, altari vengono rivoluzionati in nome di questi adeguamenti. Si sono arrogati il diritto di buttare giù degli altari perché voltavano le spalle ai fedeli… ma il direttore d’orchestra continua a voltare le spalle al pubblico, affinché la musica arrivi nel migliore dei modi alle persone. La Messa rivolta ai fedeli, tentativo di dialogo goffo, sbagliato, zoppo, finisce con il paradosso di «scambiatevi il segno di pace» con le mogli, i parenti, gli amici… è una forma confidenziale grottesca rispetto a quella ieratica, quella indicata da papa Ratzinger in un libro sulle riforme degli altari; in esso sostiene che il sacerdote che volta le spalle è il primo fedele rivolto a Dio, che sta ad est. Il sacerdote non volta le spalle, ma conduce i fedeli, guida come il condottiero, come il direttore d’orchestra. L’idea che volti le spalle a Dio per parlare con gli uomini è una bestemmia, è un’eresia legata ad una follia di finto dialogo che non ci sarebbe fra Dio e l’uomo e fra l’uomo e Dio, ma che ci sarebbe fra l’uomo e l’uomo, voltando le spalle a Dio. Il sacerdote assume, in tal modo, un ruolo determinante, invece che essere determinato alla presenza di Dio.

(pp. 127-133)




Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura,
i colori sono la Parola di Dio, il pennello è la Chiesa
con Giovanni Gasparro

Quali sono, secondo Lei, le ragioni per cui il Cristianesimo ha perso aderenza nei confronti dell’arte sacra?
Nella contemporaneità, il concetto di bellezza è stato depauperato del suo afflato trascendente e del suo valore ontologico, riducendolo ad un vacuo sentimentalismo meramente estetizzante che spesso asseconda le tendenze suggerite da contesti à la mode. In ispecie, in molte città europee, le arti sacre e l’architettura sacra contemporanea, appaiono come traslazioni figurate dei dettami modernisti (funzionalisti e razionalisti) del Bauhaus, se non di false religioni orientali o protestanti, ed ancora mutuate dalle teorie spiritualistiche del XIX e del XX secolo. Come non identificare certe forzature formali se non in una sensibilità figlia delle teorizzazioni antroposofiche di Rudolf Steiner e teosofiche di Helena Blavatsky? Se questo è acclarato per Piet Mondrian che non si è occupato d’arte liturgica, probabilmente può essere esteso anche ad Henri Matisse (almeno negli aspetti formali) per la sua Chapelle du Saint-Marie du Rosaire a Vence in cui disegnò persino i paramenti sacerdotali. Lo stesso valga per lo scultore Giacomo Manzù (il quale resta comunque un ottimo artista, in altri contesti creativi) con la sua Cappella della Pace, concepita per l’uso privato di Monsignor Giuseppe De Luca ed alla morte del committente, nel 1962, destinata alla comunità religiosa di Sotto il Monte, alla memoria di Giovanni XXIII. Il patriarca di Venezia Roncalli, divenuto pontefice, era amico di Monsignor De Luca, mediatore della Curia romana con esponenti politici e persino con l’Unione Sovietica. […]
Il processo evolutivo delle arti sacre del Cattolicesimo ha avuto sempre un vigore rinnovatore, ma all’interno degli argini delle esigenze catechetiche, liturgiche e devozionali che hanno garantito l’aderenza dei manufatti artistici ai canoni ecclesiali. Questa particolarità evolutiva dei linguaggi artistici ha prodotto opere fortemente diversificate esteticamente, ma tutte armoniche e funzionali al soggetto Chiesa. Si pensi ai mosaici di Ravenna, Pesaro e Venezia, agli stucchi del Serpotta a Palermo, agli affreschi aretini di Piero della Francesca piuttosto che ai teleri monumentali di Tiziano e Tintoretto, alle vetrate di Chartres o ai pavimenti intarsiati del duomo di Siena; opere sovente sedimentate nel medesimo edificio sacro, in tempi diversi, ma in perfetta armonia. Lo stesso valga per i differenti stili architettonici.
Nella Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, promulgata dal Concilio Vaticano II, leggiamo che: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura. Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta riverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo essa potrà aggiungere la propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzano nei secoli passati alla fede». Questa estrema libertà che la Chiesa ha sempre offerto agli artisti e con essi ai committenti ecclesiastici, nel post-concilio, bisogna riconoscerlo, partendo dalla Sacrosanctum Concilium, soprattutto nella frase «Ecclesia nullum artis stilum veluti proprium habuit», è stata interpretata come un nulla osta alla rottura ed al sovvertimento dei connotati identitari dell’arte e dell’architettura sacra cattolica. Le questioni volutamente non definite che mantengono una certa ambiguità verbale, lasciano intendere cose diametralmente opposte, demandando alla libera interpretazione anche ciò che non può essere lasciato all’arbitrio; questo è il caso della Sacrosanctum Concilium in cui è insito il germe della rottura con la Tradizione, reo di aver determinato la nascita di tanta arte sacra triviale. Sbaglierebbero, comunque, quanti attribuissero al solo Concilio Vaticano II tutte le responsabilità. Già prima del Concilio si intrapresero opere di demolizione simili agli “adeguamenti liturgici” attuali […]. Il modernismo condannato con vigore da San Pio X logorava la Chiesa sommessamente almeno dal XVIII secolo. Il Concilio Vaticano II ed il post-Concilio hanno esplicitato ciò che era sotteso. Nel pre-Concilio Vaticano II, il susseguirsi dei secoli non ha depauperato il fulcro del linguaggio artistico cristiano, non ne ha inficiato l’ethos, lo ha solo declinato alle esigenze espressive del momento. Per questo ci può essere progresso vero nelle arti (soprattutto sacre) solo se c’è un giusto equilibrio fra innovazione e tradizione. Oggi, invece, si sono abbandonate proprio le prerogative fondamentali (talvolta inconsapevolmente), creando opere d’arte “sacra” che appaiono come manifestazioni gnostiche del solipsismo soggettivista, scegliendo l’opzione aniconica, rigettata dalla Chiesa sin dalle origini, a scapito della figurazione, qualità stilistica che il Cattolicesimo ha ritenuto imprescindibile in tutta la sua storia bimillenaria […].

(pp. 216-219)


La riflessione di…

Domenico Bartolucci


Maestro Bartolucci, ben sei papi hanno assistito ai suoi concerti. In quale di loro ha trovato maggior sapienza musicale?

In Benedetto XVI. Suona il pianoforte, è un profondo conoscitore di Mozart, ama la liturgia della Chiesa e di conseguenza tiene in somma considerazione la musica. Anche Pio XII l’amava molto e spesso suonava il violino. La Cappella Sistina deve poi moltissimo a Giovanni XXIII. Da lui nel 1959 ebbi l’approvazione per il progetto di ricostituzione della Sistina che purtroppo, anche a causa della malattia del precedente direttore Lorenzo Perosi, era in condizioni precarie: non aveva più un organico stabile, un archivio musicale, né una sede. Allora si ottenne la sede, si congedarono i falsettisti e si definì l’organico dei cantori con i relativi stipendi; finalmente si poté anche istituire la scuola dei ragazzi. Poi venne Paolo VI, ma lui era stonato e non so quanto apprezzasse la musica.

Perosi, il cosiddetto rifondatore dell’oratorio italiano?
Perosi era un autentico musicista, un uomo impastato di musica. Ebbe la fortuna di dirigere la Sistina ai tempi del Motu Proprio sulla musica sacra che voleva giustamente purificarla dal teatralismo di cui si era imbevuta. Poteva dare un nuovo impulso alla musica di Chiesa, ma purtroppo non aveva una conoscenza adeguata della polifonia palestriniana e delle tradizioni sistine. Del canto gregoriano poi affidò la direzione al vice maestro! Le sue composizioni liturgiche spesso sono state d’esempio per lo stile superficiale del cecilianesimo, lontano da quella perfetta fusione tra testo e musica.

Perosi faceva il verso a Puccini…
Ma il lucchese era un uomo intelligente. E poi i suoi “fugati” erano ben superiori a quelli del tortonese.

In qualche maniera Perosi è stato l’antesignano dell’attuale volgarizzazione della musica sacra?
Non proprio. Oggi nelle chiese sono di moda le canzonette e lo strimpellio delle chitarre, ma la colpa è soprattutto delle idee sbagliate di pseudo intellettuali che hanno creato questa degenerazione della liturgia e quindi della musica, travolgendo e disprezzando l’eredità del passato e credendo di ottenere chissà quale bene per la gente. Se l’arte della musica non torna alla grande arte, non ad un accomodamento o a un sottoprodotto, non ha alcun senso interrogarsi sulla sua funzione per la Chiesa. Io sono contro le chitarre, ma anche contro la faciloneria della musica ceciliana: più o meno è la stessa zuppa! Il nostro motto deve essere: torniamo al canto gregoriano e alla polifonia palestriniana e proseguiamo su questa strada!

Quali sono le iniziative che Benedetto XVI dovrebbe prendere per realizzare questo disegno, in un mondo fatto di discoteche e ipod?
Il grande repertorio di musica sacra che ci è stato consegnato dal passato è costituito dalle messe, dagli offertori, dai responsori: prima non esisteva liturgia senza musica. Oggi colla nuova liturgia questo repertorio non ha più spazio, è una stonatura, inutile illudersi. È come se Michelangelo per il giudizio universale avesse avuto a disposizione un francobollo! Mi dica lei come è possibile oggi eseguire un Gloria o addirittura un Credo. Per prima cosa dovremmo tornare, almeno per le messe solenni e per le feste, a una liturgia che dia spazio alla musica e che si esprima nella lingua universale della Chiesa, il latino. In Sistina, dopo la riforma liturgica, ho potuto mantenere vivo il repertorio tradizionale della Cappella solo nei concerti. Pensi che la Missa Papæ Marcelli di Palestrina non si canta più in San Pietro dai tempi di Papa Giovanni! Ci fu concesso benignamente di eseguirla per l’anno palestriniano e la volevano senza il Credo, ma quella volta fui irremovibile e si eseguì tutta.



(Appendice, pp. 416-418, Intervista esclusiva di Riccardo Lenzi de «L’Espresso» al maestro Domenico Bartolucci, in S. Magister (a cura di), [http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/72901], 21 luglio 2006)