giovedì 7 marzo 2019

Controrivoluzione n. 129



http://www.edizionitabulafati.it/controrivoluzione129.htm

Editoriale:
TRENT’ANNI DI BATTAGLIE IN NOME DELLA TRADIZIONE
di Pucci Cipriani

Maggio 68: Tre grandi equivoci
di Giovanni Tortelli

La sostituzione del popolo serve al genocidio culturale e viceversa
di Patrizia Fermani

Testimonianze letterarie su “Branda” e giacobini in Piemonte
negli anni 1798-1801
di Dario Pasero

I crimini dei comunisti titini e italiani: le foibe e l’esodo
di Giovanni Stelli

Requiescas in pace, carissimo Neri
di Ascanio Ruschi

Quelle campane che suonavano per i vivi e per i morti...
di Pucci Cipriani

Recensioni

mercoledì 6 marzo 2019

L'Altra letteratura (di Pucci Cipriani)


Ci sono vicende della storia o, addirittura periodi, sui quali — a causa dell'arroganza dei vincitori, dei totalitarismi liberale e marxista, del conformismo e della la paura di molti — è stato steso un velo, anzi una pesante coltre. La storia dovrebbe essere una perenne "revisione", nel senso che si dovrebbero accogliere con piacere gli studi seri e le nuove prove dei fatti per dare un quadro completo ed obiettivo degli avvenimenti.
Ricordate il Comunismo? Oggi sembra di essere in un'altra era: pubblicazioni di ogni genere sui crimini comunisti — specie dopo che il KGB aprì gli archivi dell'Unione Sovietica — a cominciare dal "Libro nero sul Comunismo Italiano" (Mondadori 2000 — ma fu pubblicato per la prima volta in Francia nel 1997 da Laffont) in cui autori ( Stéphan Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panné, Andrzej Paczkowski, Karel Bartosek, Jean-Louis Margolin — tutti studiosi e militanti (ex) comunisti, di quelli "duri e puri" aggiungerei io, alcuni allievi di François Furet — con una montagna di documenti reperiti in archivi, come abbiamo detto, fino allora inaccessibili e con una raccolta di tantissime testimonianze svelano quello che noi, andavamo dicendo dagli anni Cinquanta, ovvero che il Comunismo fu più efficiente nella produzione di Gulag e cadaveri che non in quella di grano e beni di consumo. La documentazione di cento milioni di morti nelle "purghe" comuniste (non solo staliniane), in Cina, in URSS, a Cuba, nell'America Latina, in Africa, in Europa...
C'è di più: il curatore del "Libro nero sul Comunismo", lo storico (ex) comunista Stéphan Courtois va oltre e — in questo non seguito solo da due dei coautori del libro: Nicolas Werth e Jean-Louis Margolin — paragona il Comunismo al Nazismo sostenendo addirittura che il Nazismo sarebbe "meno grave" in quanto ha causato "Meno vittime".
Quei crimini denunziati ora da tutti gli storici (a cominciare da quelli di sinistra) — difficile che qualcuno di loro difenda ancora il Comunismo — noi li denunziammo a cominciare dagli anni Cinquanta e ci prendevamo l'etichetta di "fascisti", faziosi, fanatici, fuori dalla storia: eppure c'era stato un cinquantennio di "Samizdat", di "Dissidenza"... ma i "dissidenti" allora, per il PCI, per il PSI... ma anche per la Democrazia Cristiana, erano sen non "fascisti", almeno "persone piene di risentimenti", "non credibili" e fanatiche che avrebbero ostacolato quel dialogo che, seppur attraverso fiumi carsici, c'è sempre stato tra comunisti e pseudocristiani ovvero militanti della setta degasperiana. Perfino il Vaticano con Paolo VI — se poi leggiamo i recenti documenti bergogliani comprendiamo che "al peggio non c'è mai fine" — sacrificò all'Ostplolitick del Cardinal Casaroli i "Martiri e i Confessori della Chiesa del Silenzio", primo fra tutti il Cardinale ungherese Joseph Minszenty che, con il suo lungo calvario, fu il vero Confessore (= testimone) della Fede in terra ungherese, che con le sue "Memorie" (pubblicate in Italia nel 1974 dall'editore Rusconi), fece rivelazioni sconvolgenti e scottanti sulle sopraffazioni, menzogne, atrocità del Comunismo ma soprattutto sulle ambigue connivenze dell'Occidente.
E non possiamo dimenticare che i libri del più grande scrittore russo, un vero profeta, colui che trascorse nel Gulag parte della sua vita, Alexander Solgeniztin, non potevano essere pubblicate in Italia per il veto messo dal culturalume radical-marxista e cattocomunista... perché Solgenitzin, il non dimenticato autore della trilogia "Arcipelago Gulag", come il Cardinal Mindzenty, era non solo fu un testimone del terrore rosso ma era anche un cristiano fedele alla Tradizione.
Oggi chi oserebbe parlare contro questo eccezionale personaggio, il rappresentante vero della "Santa Russia".
Se mi è permesso un episodio personale per capire il clima d'allora e l'impossibilità di affrontare qualsiasi tema con le sinistre e i loro reggicoda (talvolta assai peggiori delle sinistre stesse): ero consigliere comunale (eletto come "indipendente monarchico" nelle liste DC) a Borgo San Lorenzo e, durante una seduta del Consiglio Comunale, quando, allora, si condannava l'attacco americano in Vietnam, io lessi alcune pagine di un racconto di Solgenitzin: "Una giornata di Ivan Denissovic".
Eravamo nel 1970 e il libro di Sogenitzin era infatti formato da tre tre racconti (oltre a "Una giornata di Ivan Denissovic", "La Casa di Matriona" e "Alla Stazione") ed era fresco di stampa: apriti cielo e spalancati terra: la canea urlante, gli insulti, gli spintoni e... anche gli sputi: segno di estremo disprezzo.
Ma il "revisionismo" ovvero la storia vista in tutte le sfaccettature si è fatto avanti: perfino sulla "Guerra Civile", sulle stragi perpretrate dai partigiani comunisti..anche dopo la fine della guerra, si è fatto, o meglio si è cominciata a fare, seppur faticosissimamente, luce e anche qui grazie all'opera — più che di storici — di due giornalisti e scrittori (insomma due "cronisti della storia") Giorgiò Pisanò (di parte fascista) autore di quei tre volumi usciti negli Anni Sessanta e più volte ristampati: "Storia della Guerra Civile in Italia" e, dopo, molto dopo, Gian Paolo Pansa (di parte comunista) con alcuni romanzi o saggi storici tra cui "Il Sangue dei vinti"... Lo stesso dicasi per le "foibe" che, nei libri di testo delle scuole, ieri come oggi, o non sono ricordate, o altrimenti si arriva addirittura al grottesco quando vengono definite "Grande forre nelle quali i tedeschi gettavano i corpi dei cittadini uccisi nelle rappresaglie". Ricordo, negli anni Settanta, don Luigi Stefani — un sacerdote dalmata, al quale ero legato da profonda e cara amicizia — che, nel suo studio presso la Confraternita di Misericordia di Firenze, aveva posto una suggestiva foto di un "tramonto zaratino" e una croce con la scritta "Parce mihi Domine quia dalmata sunt", ricordando i suoi quattro alunni al Seminario di Zara, gettati, ancora vivi, in una foiba nudi, evirati, con i genitali in bocca, e una corona di spine in testa.
Dopo settant’anni la RAI, sia pur nei giorni del Festival di Sanremo, ha presentato, in prima serata, un bel film diretto, sceneggiato, e prodotto da Maximiliano Hernando Bruno, per ricordare, come ha sottolineato Fausto Biloslavo su "Il Giornale", una martire della bestialità dei partigiani comunisti, juguslavi e italiani: Norma Cossetto (e con lei tutte le migliaia e migliaia di vittime infoibate, fucilate, annegate in quel periodo), una studentessa di 23 anni la cui unica colpa era quella di essere la figlia del Podestà in un paese nel cuore dell'Istria.
Norma Cossetto fu stuprata ripetutamente, torturata e, quindi, gettata ancor viva in una foiba durante la "pulizia etnica" al seguito del vuoto di potere dell'otto settembre.
Insomma si comincia a vedere — e lasciamo stare se son passati settant'anni — anche l'altro lato della storia per quanto riguarda i grandi totalitarismi del XX Secolo come Comunismo e Nazismo e Fascismo e infatti sul Fascismo venne pubblicata, già negli anni Settanta, la monumentale opera di Renzo De Felice. Ma silenzio sulla Guerra Civile in Italia: era troppo presto per parlarne e, infatti, c'erano ancora, da ambo le parti, ferite aperte sulle quali, forse, non andava sparso altro sale.
Ci voleva il genio di uno scrittore come Giovannino Guareschi per poter parlare di quei fatti sanguinosi. E Giovannino — a cui si deve riconoscenza anche per aver grandemente contribuito alla sconfitta del Fronte Popolare, ovvero del Comunismo, nel 1948 ( forse per questo De Gasperi lo spedì in galera ) — che nei suoi libri ( lasciamo, ahimè, perdere i film "addomesticati" dal regime ) che io definirei addirittura "poetici" affronta anche il problema dei "morti", dell'una e dell'altra parte, ovvero delle "opposte sponde", quelli morti col fazzoletto rosso al collo o quelli con la camicia nera, non i "buoni" o i "cattivi", ma solo giovani che combatterono su opposte barricate e le cui intenzioni solo Dio conobbe.
"Fratelli — è Guareschi che parla attraverso il suo "Don Camillo" — si parla tanto di dialogo fra chi sta sulle opposte sponde. Queste anime che noi ricordiamo stanno sulla sponda della morte e parlano a noi che stiamo sulla sponda della vita. Ascoltiamo ciò che ci domandano e il nostro cuore troverà la giusta risposta. La terra purifica tutto, come la morte. La terra fine di ogni cosa e fonte eterna di vita" (Cfr: "Don Camillo e don Chichì" Ricordo di un novembre lontano)
E, nella sua breve vita (morì a Cervia il 22 agosto del 1968 ed era nato, sessant’anni prima, a Fontanelle di Roccabianca PR); alla vigilia del Sessantotto e alla vigilia della sua morte, aveva già capito tutto di quella Rivoluzione sessantottarda stupida e tremenda a un tempo; aveva capito che c'era chi "tirava i fili" di quel movimento per cui poteva allora ammonire i giovani (e questo ammonimento sembra scritto anche per i giovani d'oggi), e sentite con quanta profetica lungimiranza e lucidità:
"Protesto perché nessuno dice a questi giovani: "Diffidate di chi vi sorride e vi da' importanza eccezionale. Vuole rifilarvi un giornale, un libro, un disco, una rivista pornografica, un intruglio gassato, una chitarra, un allucinogeno, una pillola (... ) un cartello, un manganello, un mitra." Protesto perché sono stato giovane e buggerato come saranno buggerati i giovani d'oggi... " (Cfr. "Chi sogna nuovi gerani?" "... ai giovani")
Quale ammonimento e quale condanna ai vecchi "Cattivi maestri"... che nel Sessantotto montarono in cattedra e da quella cattedra non sono più scesi e pretendono di farci la morale... anche a Destra... e chi ha orecchi da intendere intenda.
E ancora Guareschi alle ragazze, comprendendo le conseguenze della "rivoluzione sessuale": "... come tanti giovani è dominata dalla paura di essere considerata una ragazza onesta. E' la nuova ipocrisia: un tempo i disonesti tentavano disperatamente di essere considerati onesti: Oggi gli onesti tentano disperatamente di essere considerati disonesti." (La Voce del Cristo in "Don Camillo e don Chichì" "E' di moda il ruggito della pecora")


Dunque, a poco a poco, dopo diecine e diecine di anni, si sta alzando la pesante coltre che ricopriva alcune vicende storiche e si possono — solo ora si badi bene — criticare ideologie come il Comunismo, addirittura, fare la comparazione con il Nazismo.
Si ricorda, ogni anno, — ed è giusto che sia così — il "genocidio" del popolo ebraico" quella che gli ebrei chiamano la "Shoah" — e anche qui c'è un bel libro: "Il Diario di Anna Frank" che ben, nel racconto adolescenziale di due giovani braccati dalla Gestapo, si riassume la tragedia di questo popolo, i campi di concentramento, le deportazioni, la morte.
Provate però a domandare se, nella storia, vi sia stato qualche altro genocidio tipo la Vandea: sicuramente vi risponderanno (parlo di molti docenti di scuola di ogni ordine e grado... ma anche di storici) che sì, in Vandea, ci fu "qualche morto" in quanto si cercò di reprimere una rivolta di un popolo riottoso (quello vandeano)... .ma non pragonabile allo sterminio del popolo ebraico... come numeri... ma scherziamo? Così ha risposto una professoressa di lettere alla domanda di un suo alunno liceale che domandava "lumi" sulla Vandea.
I libri di testo delle scuole fanno ancora prima: o ignorano il "genocidio vandeano" e i crimini della Rivoluzione o se la cavano con una mezza dozzina di righe: "Ci furono tumulti e ribellioni nella Regione della Vandea e in altre zone della Francia ma, presto, furono domati".
La Rivoluzione francese che fu essenzialmente anticristiana (divenne antimonarchica solo dopo il rifiuto di Luigi XVI di procedere nelle misure antireligiose. Come non ricordare le stragi sistematiche attraverso la ghigliottina e l'annegamento di diverse migliaia di cristiani, di preti, di monache. E come non ricordare i massacri di settembre commessi — e lo testimoniano addirittura i testi rivoluzionari dell'epoca — in nome di ideali pseudo spartani di eliminazione degli emarginati e dei più deboli (= analogamente aveva fatto il Nazismo quando si levò alta e stentore la voce del Cardinale Clemens August Von Galen, il "Leone di Munster", che il Reich voleva impiccare per dare un esempio). E bisogna ricordare anche i massacri commessi ovunque, specialmente nel Lionese e nel Mezzogiorno, la deportazione delle popolazioni di diversi villaggi Baschi e e soprattutto l'immenso genocidio della Vandea e delle province dell'Ovest. Un genocidio che fu freddamente e razionalmente deciso dalla Convenzione e che la sua esecuzione fu eseguita giorno per giorno, donne e bambini, da 300.000 a 400.000, e che fu accompagnato da terribili novità come la creazione di fonderie di grasso umano e della concia della pelle della stessa origine.
In questo genocidio premeditato come dimenticare altri orrori come le diecine di villaggi bruciati dalle truppe infernali del Generale Tureau, i fedeli bruciati vivi nelle chiese che venivano incendiate perché "rifugio dei ribelli" e gli annegamenti sui barconi a Nantes perpetrati nei vari mesi dal diabolico Carrier.
Del resto questa Rivoluzione sanguinaria, questo genocidio orrendo, sono stati esaltati da tutti
più grandi dittatori totalitari e massacratori della storia: Lenin, Trotski, Hitler, Stalin, Mao, senza dimenticare il cambogiano Pol Pot che rivelò alla Sorbona la sua ammirazione per Robespierre, di cui fun un grande e coerente ammiratore.
La Storia ha taciuto e tace tuttavia su questo immondo genocidio. Oggi la Rivoluzione con i suoi principi non può essere messa in discussione da nessuno: perfino una certa destra dice o diceva: "Siamo anche noi figli della Rivoluzione francese" Ebbi, proprio per questa affermazione, uno "scontro" per questo con il pur bravissimo Piero Buscaroli (si firmava Piero Santerno su "Il Giornale" di Montanelli).
Il poco che sappiamo sui crimini della Rivoluzione francese e sul terrore lo dobbiamo a qualche raro scrittore e ad una letteratura popolare, con in prima fila, Honoré de Balzac (1799-1850) il quale in alcuni suoi romanzi della Commedia Umana", su un veritiero sfondo storico, vi innesta una storia di fantasia come negli "Gli Sciuani", ovvero gli "uccelli della notte", i combattenti della Vandea e della Bretagna fedeli alla Monarchia e alla Religione ( XII Volume della Commedia umana) in cui racconta una storia d'amore tra due personaggi: l'aristocratica Maria de Vermeil e lo chouan monarchico Alphonse de Montauran, E poi "Un tenebroso affare", episodi e racconti, certo romanzati, ma che ricordano fatti realmente accaduti, romanzi in cui si rileva l'ammirazione dell'autore per il "genio" Napoleone ma anche l'obiettività della narrazione.
Da non dimenticare, poi, J:Barbey d'Aurevilly con "La Stregata", e "Il Cavaliere des Touches".
Perfino Hugo, uno degli scrittori simbolo della Rivoluzione e del "laicismo", in un suo romanzo, "Novantatré", descrive i crimini giacobini del "Genocidio vandeano".
Da non dimenticare "L'Ultima al Patibolo" della tedesca Gertrud Von Le Fort - ripresa poi dallo scrittore francese George Bernanos per una "riduzione teatrale" — nella quale l'autrice, pur mettendoci alcuni elementi fantastici, racconta la storia autentica del Martirio delle sedici carmelitane di Compiègne, ghigliottinate il 17 luglio 1794 a Parigi.
Ma, forse, ciascuno di noi, si ricorderà di quand'era ragazzo e si appassionava alle storie della "Primula Rossa"... era un personaggio immaginario frutto della fantasia di una fertile scrittrice ungherese: la Baronessa ORCZY (1865-1947) che esordi nel 1905 e pubblicò una serie di romanzi, appunto, ispirati alla "Primula Rossa", un imprevedibile personaggio, che, nei giorni del Terrore, insieme ad un gruppo di coraggiosi, si prodiga per far fuggire Oltre Manica gli aristocratici, altrimenti destinati alla ghigliottina.
I suoi libri ebbero immensa fortuna e furono pubblicati in Italia da Salani: "La Primula Rossa", "La Banda delle Primula Rossa", Il voto di sangue", "Il figlio della Rivoluzione" etc. e de "La Primula rossa" si ebbe anche la versione cinematografica.
Per quanto riguarda la Storia vorrei ricordare quello che non esito a definire il dramma di Reynald Secher: negli anni Ottanta, giovane ricercatore all'Università della Sorbona — discepolo del Professor Pierre Chaunu, protestante, Membro dell'Institute de France — dopo una ricerca sulla Vandea pubblica un libro, con una documentazione incalzante: "Il genocidio vandeano" con la prefazione di Jean Meyer e la presentazione dello stesso Pierre Chaunu.
Al giovane e promettente ricercatore — dopo quella pubblicazione — fu preclusa ogni via accademica... solo un piccolo editore in Francia ne tirò alcune copie... anche in Italia fu pubblicato dalle edizioni Effedieffe. L'Autore attualmente fa l'editore pubblicando, a sue spese, libri come il suo... . ovvero una sorta di "controstoria"...
Per quanto riguarda la Rivoluzione italiana ovvero il così detto Risorgimento, parlarne male significa finire nel "ghetto degli intoccabili"... e noi ci siam finiti con estremo piacere. Da noi, fin dalle scuole elementari, abbiamo sentito una continua esaltazione dell'invasione armata del Regno delle Due Sicilie, e abbiamo letto libri pseudo storici e un sottobosco di produzione letteraria (mi riferisco ad esempio agli scritti sconclusionati e grotteschi del nizzardo Giuseppe Garibaldi, improvvisatosi "letterato" o a quelli demenziali di Giovanni La Cecilia) portando sugli altari e celebrando le gesta dell'esercito piemontese: villaggi incendiati dalle orde "garibaldesche" e dai "prodi bersaglieri" del generale Alfonso Lamarmora, fucilazioni di massa per "briganti" o sospettati tali (chi non ricorda la Legge Peruzzi - Pica).
Denunziò tutto questo lo storico "controrivoluzionario" Giacinto De Sivo, di Maddaloni, che parlò anche dei tradimenti dei generali borbonici "compri dall'oro inglese e massonico", nel suo celeberrimo "Viaggio da Boccadifalco a Gaeta", un libro finalmente ristampato negli anni Ottanta, e a cui — sfidando il conformismo radicalcomunista — pose la prefazione Leonardo Sciascia, un grande scrittore non certo "reazionario". Ma il vero cantore del regno Duosiciliano è Carlo Alianello (1901-1981) con i suoi capolavori "Soldati del Re", "L'Alfiere", "La Conquista del Sud", "L'Eredità della Priora" e "L'Inghippo"... Alianello che Fausto Gianfranceschi definisce uno scrittore "cattolico" — e definirsi cattolico oggi appare difficile quando i cattolici fedeli alla tradizione sono perseguitati, oltre che dalla così detta società civile, persino dai vertici "peronisti" vaticani — per il quale "il principio di selezione etica trascende il calcolo del successo storico: gli uomini debbono svolgere il ruolo assegnato ad essi dal destino anche se è contro la StorIa, perché giudice è Dio non la Storia". Alianello dunque Scrive e scrive dalla parte dei vinti e sarà un personaggio del suo romanzo, forse il più bello, "L'Alfiere", un ufficiale, il Tenente Franco, morente sugli spalti di Gaeta a lasciare quel testamento di fedeltà e onore del popolo "napolitano".
"Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento magari o un ideale: ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza. Qui non c'è vanità, non c'è successo non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora. Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono la fedeltà, l'onore, la bandiera e la Monarchia perché son padroni di se' e servitori di Dio. Ieri forse poteva sembrare più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con noi c'è la sventura, e questa è la parte più bella. Perché sopra di noi ci possiamo scrivere senza speranza... " (Cfr. Carlo Alianello: "L'Alfiere" )
C'è un giornalista però a Napoli che racconta le vicende della sua città... seguitissimo, ed è Ferdinando Russo criticato da Benedetto Croce ma "amato" dal Carducci che lo volle incontrare, sempre in polemica con Salvatore di Giacomo che, però, in morte, scrisse su di lui versi bellissimi. Fu poeta il Russo e non cantò una Napoli oleografica, da cartolina, ma una "Napoli lunare", una Napoli dove le ore della notte sono scandite dalle gesta della povera gente. Fu anche il poeta dei vinti... per cui dopo aver diretto per vent'anni una rubrica letteraria sul "Mattino" fu licenziato: poeta reazionario, borbonico, sanfedista... aveva scocciato abbastanza.
Di lui vanno ricordati due "poemetti": 'O Luciano d' 'o Ree e 'O Surdate 'Gaeta 'O Surdate 'Gaeta ove un ex combattente, racconta gli episodi di eroismo nella difesa della Roccaforte di Gaeta, ricorda anche l'eroismo di re Francesco e piange sulla sua sorte, infatti, dopo aver combattuto per la sua Patria e per il suo Re, il nuovo regime gli ha tolto, con le tasse e i balzelli, ogni suo avere e, per lui, finita la vita lieta del Regno, non resta che il rimpianto e il dolore all'Ospizio dei Poveri.
Analogamente 'O Luciano d' 'o Ree che ha combattuto sulle navi della flotta borbonica in difesa della Patria Napolitana: ora trova la sua bella Napoli cambiata e distrutta ed è sottomesso a un tiranno che non conosce e che, sembra, lo abbia preso di mira con le sue leggi liberticide, quando invece:
'O Re me canusceva e me sapeva!
Cchiù de na vota, (coppola e denocchie!)
m'ha fatto capì chello che vuleva!
E me saglieno 'e llacreme ant'all'uocchie!
'A mano ncopp' 'a spalla me metteva:
"Tu nun si' pennarulo e nun t'arruocchie!
Va ccà! Va llà! Fa chesto! Arape 'a mano!"
E parlava accusì: napulitano!

Alla fine termina amaramente 'O Luciano, il povero marinaio di Santa Lucia, su un letto all'Ospizio dei poveri:
Ca stammo tuttequante int' 'o spitale!
Tenimmo tutte ' a stessa malatia!
Simmo rummase tutte mmiezo 'e scale,
fora 'a lucanna d' 'a Pezzenteria!
Che me vuò dì? Ca simme libberale?
E addò l'appuoie, sta sbafanteria?
Quanno figlieto chiagne e vo' magnà,
ceca int' 'a sacca... e dalle a libertà!

Nostalgie... soltanto nostalgie... la Nuova Italia, liberale, liberista, laica, laicista, quella della "Libera chiesa in libero Stato", aveva già ormai consolidato il suo potere, e così come, poi, i fascisti formeranno i "Balilla" con il libro di stato e i comunisti formeranno "I Pionieri"; la Nuova Italia affiderà l'educazione della gioventù a uno scrittore, tra l'altro autore di una serie di piacevoli "Bozzetti di Vita Militare", che le persone della mia età conosceranno certo a menadito: Edmondo de Amicis con il suo libro "Cuore".
Dietro i buoni sentimenti, voi vedrete una classe torinese, dell'Italia unita, decritta nel Diario annuale di un alunno (Enrico Bottini); vedrete i bambini, i maestri, i genitori che non rammenteranno mai il nome di Dio, festeggeranno le imprese militari o gli eventi civili, ma non festeggeranno il Natale o la Pasqua ; non vedrete un simbolo religioso in classe o un famiglia.
perfino la carità è ridotta a filantropismo... è l'uomo nuovo" che va formato nell scuola pubblica — la scuola del plagio di adesso e quella dei "Todos caballeros" del Sessantotto e di don Milani è figlia di "Cuore" — Insomma il titolo cuore non è messo solo per indicare i buoni sentimenti il sentimentalismo sdolcinato ottocentesco ma è messo scientemente il "Cuore" laico, in
contrapposizione al Dogma del Cuore Carneo, alla devozione delle famiglie italiane che ancora resiste. Nell'Ottocento non c'era famiglia che non avesse in casa il simbolo del Sacro Cuore.
Ma veniamo al nostro "Maestro Domenico", veniamo al Granducato di Toscana, al nostro Granducato. L'Italia era fatta e guai a parlare degli Stati preunitari, dei sovrani, dei Re legittimi e, soprattutto "Del si stava meglio quando si stava peggio"
Figuriamoci con la "cacciata del Granduca e l'avvento dei piemontesi il Giusti ( sia chiaro, non è Dante) che pur bolla in una sua poesia Leopoldo II, il sovrano buono e paterno, come un re "Travicello"... ovvero, inetto, "minchione"... i "Girella" che pur il Giusti condanna in una sua poesia salteranno subito sul carro del vincitore.
Ma c'è un "poeta", un poeta di strada a Firenze, Mario Palazzi un pover'uomo ma con le idee chiare che, di fronte, ai tanti Girella, di fronte a questo nuovo regime totalitario che sta distruggendo tutta la storia antica e la tradizione della Toscana verga i suoi versi — per campare li vende ai passanti — che di fronte al nuove può ben dire, anzi scrivere in versi:
A noi par d'essere civilizzati / ma peggio d'ora / non siam mai stati...
E poi, in un dialogo tra padre e figlio:
Figlio: Dimmi papà, / ov'è il Granduca / sta rinserrato / dentro una buca? Padre Pur troppo è morto / Roma l'accoglie / esule andò / da queste soglie / quando qui stava / Ernesto mio / c'era in Palazzo / l'angiol di Dio / coi cari figli / la sua consorte / di Santi e Angeli formò la corte / Nè pel colera / né per la piena / ai cari sudditi voltò la schiena / e mai si videro / entro il suo regno /
farsi pei poveri / case di legno / trattare i popoli / con le prigioni / se in cuor racchiudono / altre opinioni / dare ai ragazzi / tante licenze / di fare ad altri / le impertinenze / Figlio Che Italia è bella / forte Nazione / Lo dicon sempre / molte persone. Padre Per chi ha rubato / le altrui sostanze / son tempi rosei per le finanze / se tenta il popolo dir sue ragioni / vi è Bersaglieri /
Linea e Cannoni / così ragione han sempre loro / Ecco la bella età dell'oro.
Se cercassi l'applauso dovrei — come avevo programmato — terminare citando la "chiusa" di un bell'articolo dell'amico Enrico Nistri che pubblicai su "Controrivoluzione" nel 1994 (e mi sembra ieri): "Quando scoppiarono i moti rivoluzionari che avrebbero trasformato Firenze da capitale di uno Stato a semplice prefettura del regno d'Italia, Leopoldo II avrebbe avuto facilmente ragione dei dimostranti se solo avesse voluto fare ricorso alla forza delle armi e in particolare ai cannoni ben piazzati a Forte Belvedere. Ma il suo amore per la pace, il suo affetto per i sudditi, la sua convinzione che il buon senso avrebbe finito comunque per prevalere lo indussero ad abbandonare senza spargimento di sangue la città e il granducato su cui aveva regnato da sovrano onesto, scrupoloso e paterno. I fatti com' è noto smentirono le sue speranze. Ma Leopoldo continua ugualmente ad essere ricordato con simpatia, affetto e una punta di rimpianto da tutti i fiorentini e i toscani di retto sentire."
E questa sarebbe stata una bella "chiusa" ma viene da domandarsi: Se quei cannoni ben piazzati a Forte Belvedere avessero sparato sulla canaglia, la Dinastia dei Lorena regnerebbe ancora e, forse, a noi ci sarebbero stati risparmiati gli odierni di governanti, senza onore e senza cervello, che ci hanno portato a questa Europa che ricalca, peggiorandolo, lo stampo della vecchia Unione Sovietica.

Pucci Cipriani

martedì 5 marzo 2019

PELOSINI E IL MAESTRO DOMENICO (di Ascanio Ruschi)


Il nome di Narciso Feliciano Pelosini è oggi sconosciuto ai più. Eppure egli fu, nella seconda metà dell’ottocento, una figura di un certo rilievo, a livello toscano e anche nazionale, sia come politico, che come avvocato, ma anche come uomo di cultura e letterato. Oggi grazie alla preziosissima opera dell’editore Marco Solfanelli si deve la riscoperta della sua opera maggiore, e più conosciuta, il “Maestro Domenico” appunto. In questa novella, il protagonista, fedele suddito del Granduca, si assopisce sotto un albero e si risveglia dopo l’unificazione italiana, in una società che fatica a riconoscere, in aperta rottura con la vecchia societas granducale.
Ma chi era il Pelosini? Narciso Feliciano — questi i nomi di battesimo — nasce a Fornacette di Calcinaia, provincia di Pisa, nel 1833, da una famiglia benestante, ma certamente non ricca e non nobile. Instradato alla vita ecclesiastica nel seminario di Montepulciano, scopre ben presto di non avere la vocazione sacerdotale (un fratello invece si farà prete), e si iscrive all’Università di Pisa per studiare diritto. Si laurea all’Università di Siena nel 1854, non prima di aver dato alle stampe una prima raccolta di poesie, dal titolo “Poesie italiane”. Già dal titolo dell’opera, si evince il clima culturale e sociale in cui è immerso il Pelosini, di cui egli stesso risente. Pisa è al centro dei fermenti unitari, e certamente il Pelosini non è estraneo a questo fermento politico. Infatti in questo periodo entra in contatto con i circoli culturali di tendenza liberale, grazie ai quali conosce e stringe amicizia, tra gli altri, anche con il Carducci, il quale lo ricorda nelle sue memorie come un “giovane d'idee avanzate, non fervente cattolico come dipoi”.
Dopo una breve parentesi di docenza alla scuola di Scienze Aziendali di Firenze “Cesare Alfieri”, ove insegna diritto penale, si dedica definitivamente alla professione forense. Grazie alla sua ars oratoria, alla battuta pronta e sagace, diviene in breve un avvocato penalista piuttosto conosciuto anche oltre i confini toscani, e partecipa ad importanti processi, arrivando anche a difendere Giacomo Puccini. Peraltro l’episodio è spassosissimo: il Puccini, appassionato cacciatore, si recava spesso in riva al lago di Massaciuccoli a sparare nella riserva del Marchese Ginori Lisci, col permesso del proprietario ovviamente. Se non che, con l’aiuto di un boscaiolo del posto, iniziò a cacciare di frodo, fino a che una sera non fu fermato da due carabinieri. Instaurato il giudizio per il reato di caccia di frodo e porto d’armi abusivo avanti al Pretore di Bagni San Giuliano, il Pelosini ne assunse la difesa e, con un’accorata arringa difensiva, sostenne che non essendo stato trovato il corpo del reato, e cioè l’anatra contro cui il colpo di fucile del Puccini era diretto, mancava la prova del fatto, e che il suo assistito si era recato in riva al lago solo per provare delle nuove cartucce per il fucile. Fu così che il Puccini fu assolto. In cambio, oltre ad un lauto pranzo offerto, il Pelosini ricevette in regalo uno spartito con dedica autografa dell’illustre musicista.
Ma torniamo alla vita del Pelosini. Intorno agli anni sessanta egli si riavvicina al cattolicesimo e assume posizioni sempre più critiche nei confronti del liberalismo e dell’unificazione. Evidentemente gli avvenimenti cui egli assiste, lo influenzano fortemente, tanto da fargli rivedere le sue posizioni di liberale moderato. Questo periodo di forte conversione e di critica al liberalismo, culmina nel 1871 con la pubblicazione – a proprie spese - della “fiaba” Maestro Domenico, che stasera abbiamo il piacere di presentare. L’opera, apertamente antirisorgimentalista, dà il via a nuovi contrasti con il Carducci e con i circoli liberali toscani. Contrasti che, anche a causa del carattere piuttosto burbero e oltremodo schietto del Pelosini, negli anni successivi si acuiranno sino ad una rottura netta.
Tra il 1882 e il 1890 è per due volte Deputato nel gruppo della Destra, e poi diviene Senatore del Regno; in tale ambito la sua attività politica è principalmente orientata nella riforma del diritto penale. Muore a Pistoia nel 1896, ove si è ritirato nell’ultimo periodo, profondamente sfiduciato per l’evoluzione, o meglio l’involuzione, della società italiana post unificazione.
Tratteggiata così brevemente la vita del Pelosini, se ne ricava una figura piena di sfaccettature, variegata, complessa nei modi ma schietta e sincera nei pensieri. Certamente egli non fu un pensatore della Restaurazione, uno strenuo difensore legittimista, un esponente di quel connubio tra Trono e Altare che ispirò tanti intellettuali ottocenteschi (il grande Monaldo Leopardi tra tutti). Ma questa particolarità non lo rende meno interessante, anzi. E proprio questo suo percorso, intellettuale e religioso, dal liberalismo a posizioni più tradizionalmente orientate, ne fa una figura di rilievo, e degna di attenzione.
Il percorso di conversione, e la radicalizzazione della critica risorgimentalista, ci fanno capire come il Pelosini si trovò a confrontarsi con la realtà, che evidentemente non era quella tanto vagheggiata e auspicata da chi si era fatto promotore dell’unificazione. Egli si mosse lungo binari di assoluto realismo, scevri di connotati ideologici, anche se ovviamente pieni di idealità e di sentimenti. Il riavvicinamento al cattolicesimo più profondo, gli permise di aprirsi ad una visione della societas tradizionalmente orientata, fondata sui sani principi cristiani del buon vivere e dell’unicuique suum.
Egli da liberale moderato, non ostile per partito preso al processo di unificazione, si spostò su posizione politiche di difesa delle piccole patrie, fondate sulla comunione delle credenze e degli affetti. Non una idealizzazione del bel tempo che fu (inteso come luogo astratto, come aveva fatto l’illuminismo con la teoria del buon selvaggio), bensì la concreta e triste constatazione che l’invenzione dell’Italia risorgimentale aveva distrutto quel collante fondamentale costituito dall’appartenenza alla stessa terra (la Toscana lorenese e granducale) e alla stessa fede, così come trasmessa dalla Chiesa Cattolica. Quel che descrive il Pelosino, e soprattutto quel che egli contesta, è frutto dell’esperienza diretta, di chi addirittura, in quegli anni tormentati, fu protagonista della vita culturale toscana e poi di quella politica nazionale. Un osservatore dunque assolutamente in medias res, testimone oculare di quella rivoluzione politica e sociale della seconda metà dell’ottocento.
Egli contesta alacramente la “Nuova Italia” fatta di repubblicani anticlericali, di massoni e di politicanti di mestiere che aveva portato alla caduta di Roma e alla fine dello Stato della Chiesa. La descrizione del tempo che fu che il Pelosini fa in una lettera dedicatoria al Guerrazzi — anch’egli uno dei grandi delusi del post risorgimento —, è mirabile: “Erano buona gente que’ nostri vecchietti della campagna toscana. Avevano de’ pregiudizi, e di molti; crescevano ed invecchiavano un po’ alla carlona: ma il cuore era buono, il costume severo, la vita semplice, tranquilla ed agiata (…). Lavoravano per sé e per i figliuoli: davano ordine alle cose della famiglia e del Comune; temevano più Dio del Codice penale; e, ignari anco del nome non che dell’ufficio e degli arnesi del boia, lasciavano inoperosi gli sbirri ed i carcerieri”. Ecco dunque i principi immortali ai quali si richiama il Pelosini, e che sono poi quelli sostanzialmente espressi dal Maestro Domenico.
Il racconto, non privo di elementi autobiografici (si pensi al padre del Pelosini, che come il protagonista della fiaba, svolge al contempo l’attività di artigiano e quella di insegnante) sembra rispecchiare il travaglio interiore dei cattolici italiani ottocenteschi che, assopitisi nel periodo della Restaurazione, non si erano resi conto che nel frattempo l’auctoritas e la Fede nella Chiesa avevano lasciato il campo a nuove istanze illuministiche, che si erano diffuse, come una pandemia nascosta, tra la classe dirigente dell’epoca. E’ ben rappresentato lo sbalordimento e la pena di chi assistette, impotente, a così rapide mutazioni di eventi, che solo pochi anni prima parevano impossibili. Travagli e sbalordimenti che, probabilmente, furono dello stesso Pelosini. Un cambiamento repentino fodnato sulla rottura col passato: rottura col padre, con la religione, con le tradizioni. Non è una caso che nella agiografia ottocentesca e novecentesca della figura di Garibaldi, il garibaldino è spesso indicato come una persona che lascia la famiglia o il convento per unirsi ai mille. La rottura con il passato è l’elemento fondante dell’adesione spirituale e materiale alle nuove forze rivoluzionarie. Non dissimilmente con quanto accaduto con il ’68, laddove l’abbattimento, o meglio la cancellazione, delle radici rappresenta l’elemento fondante della ideologia sessantottarda. Cancellazione delle radici che in realtà non era differente da quella politica di depredazione e saccheggio applicata dall’esercito francese nel corso dell’invasione in Italia nel periodo 1796-1799. Allora la popolazione toscana insorse al grido di Viva Maria, contro l’invasore francese; ma insorse soprattutto non perché l’invasore era straniero, ma perché invasore anticattolico, deciso ad annullare le antiche consuetudini. Come detto, dunque, l’elemento determinante delle insorgenze deve essere ravvisato nella difesa della religione. Difesa in primo luogo da quelle istanze razionalizzatrici e anticristiane che si erano diffuse in un primo momento tra la borghesia grazie alle idee illuministiche, e che successivamente, grazie alla calata dell’esercito francese, si erano andate imponendosi con la forza delle armi negli stati conquistati. Dopo neanche sessant’anni la situazione in Italia era radicalmente cambiata, e la fiaba del Pelosini ci mostra una società oramai abituata, assopita, e uniformata, alle novità illuministiche. Al maestro Domenico, di fronte a questa nuova società, non rimane che auspicare un nuovo sonno, stavolta perenne.
Il nostro compito, prima dell’eterno riposo, rimane quello di combattere il bonum certamen, rimanere fedeli e coerenti, e vivere, come faceva il Maestro Domenico, “da buon cristiano e da galantuomo di stampo antico”.
Ascanio Ruschi


lunedì 4 marzo 2019

Saluto di Daniel Vata alla presentazione del libro di Pelosini "Maestro Domenico"

Sabato 2 marzo 2019 a Borgo San Lorenzo (Fi), alle ore 17:00, presso la Sala Comunale "Pio La Torre", di fronte a un folto e interessato pubblico, è stato presentato il libro di Narciso Feliciano Pelosini: "Maestro Domenico" (Edizioni Solfanelli).
Dopo il saluto del Consigliere Regionale della Lega Jacopo Alberti, Portavoce dell'Opposizione presso la Regione Toscana e promotore dell'Incontro, del Consigliere Comunale della Lega Matteo Gozzi e dello studente Daniel Vata hanno svolto le relazioni Alessandro Scipioni su "Gli Stati preunitari alla vigilia dell'Unità d'Italia", Ascanio Ruschi su "Narciso Feliciano Pelosini e il "suo" Maestro Domenico" e Pucci Cipriani: "L'altra letteratura".
Riportiamo di seguito il testo del saluto dello studente Daniel Vata.


Cari amici,
sono grato agli organizzatori della serata per avermi invitato a portare la mia testimonianza.
Sono uno studente del Liceo di Borgo San Lorenzo e sono legato a questo paese, a questa regione, la Toscana, a questa terra, l'Italia. Infatti non è stato per me difficile l'integrazione grazie a elementi che uniscono indissolubilmente l'Albania con l'Italia, primo fra tutti la fede cattolica nella quale sono stato educato in famiglia e che mi è stata trasmessa dai miei avi e che ho ritrovato, qui in Italia, grazie ad alcuni sacerdoti che, per fortuna, non hanno ancora rinnegato la Fede per cui, con loro e con voi, posso dire "Fidem servavi" ho conservato la fede  che — mi sembra — non voglia più trasmettere questa attuale gerarchia ecclesiastica che tende a trasformare la Santa Chiesa di Dio, ovvero la Sposa Immacolata del Cristo, in una sorta di "frateria" filantropica e immigrazionista...
Mi  lega a voi una stessa visione della società fondata sulla famiglia e non sull'"harem", come auspicata dalla società musulmana che l'Italia sconfisse con la flotta della Lega Santa a Lepanto. Noi cristiani di origine albanese, nella nostra nazione, invece — nonostante l'epopea della guerra contro l'Islam rappresentata dal nostro eroe nazionale Scanderberg — abbiamo subito con l'occupazione turca che preparò con la barbarie la presa del potere da parte dei comunisti.
Soltanto da pochi anni la nostra società si è scossa di dosso il gioco comunista come testimonia un grande confessore della Fede: il Cardinale albanese Ernest Simoni che ho avuto l'onore di conoscere proprio qui nel Mugello e che ha trascorso trent'anni nei Gulag albanesi del Comunismo.
Ecco dunque perché mi sento, dando la mia testimonianza, di raccomandare a ciascuno di noi di tenere gelosamente le proprie tradizioni, la propria libertà, le proprie radici, proprio qui nella nostra Italia dove deve essere scongiurata un'invasione dell'Islam che proclamerebbe la legge della Shari'a  e metterebbe fine alla nostra civiltà occidentale, per cui le chiese sarebbero sostituite dalle moschee e dai minareti mentre il suono delle campane sarebbe sostituito dalla voce petulante di un muezzin... La famiglia tradizionale — perché non esiste altra famiglia che quella uomo donna — sarebbe sostituita dall'harem e dalla poligamia.
Mi fa particolarmente piacere essere qui oggi a rendere omaggio a un autore che, con il suo libro "Maestro Domenico", rende giustizia al glorioso Granducato di Toscana e ai suoi Granduchi che, con onestà, competenza, lungimiranza, assicurarono alla nostra Toscana centocinquanta anni di pace nel progresso materiale e morale.
Sono grato agli organizzatori e al promotore, il Consigliere Regionale della Lega e portavoce dell'Opposizione, Jacopo Alberti, che già ho conosciuto in altre occasioni a Firenze, durante manifestazioni organizzate insieme alla Comunione Tradizionale alla quale mi onoro di appartenere. Ringrazio anche il consigliere comunale Matteo Gozzi che rappresenta a Borgo San Lorenzo la difesa dei valori identitari della nostra società. 
Infine ringrazio Ascanio Ruschi e Pucci Cipriani — con loro mi sento in famiglia! — pronto ad affrontare le prossime battaglie in difesa della libertà, e in difesa della nostra identità, come abbiamo fatto e facciamo sempre.
Ringrazio il Signore per avermi dato la possibilità di poter combattere la "buona battaglia" in nome di un trinomio intramontabile: DIO - PATRIA - FAMIGLIA.

Daniel Vata