giovedì 27 aprile 2017

LA MALEDIZIONE DI DON MILANI (di Roberto Dal Bosco)



Sono giorni in cui il Male emerge in maniera piuttosto visibile.
Si sapeva che prima o poi doveva arrivare, solo non era immaginabile irrompesse in modo tanto organizzato, sincrono, concertato. Né che il letargo del catto-tradizionalismo fosse a tal punto permanente da mancare anche questa occasione.
Il mondo tutto giace sotto l’abracadabra donmilaniano. La Maledizione di Barbiana non è però un affare da baciapile. Riguarda i nostri figli, riguarda il destino di questo Paese. E non solo.


Il prete pedofilo difeso in prima pagina

Don Milani pedofilo?
Sì, lo strano prete addivenuto massimo idolo della pedagogia nazionale, accusato e insieme celebrato sulle prime pagine dei giornali che contano.
La dissonanza cognitiva per cui l’ispiratore della scuola dove ora mandiamo i nostri bimbi, verso quei bimbi potesse nutrire desiderio sessuale, dovrebbe essere tanta da far esplodere le teste.
Il bubbone è finito sulle prime pagine di tutta la grande stampa, con seguito di lenzuolate doppie nelle pagine di cultura.
Non è una novità, ma la cosa ha fatto comunque impressione: Corriere e Repubblica uniti a fare il medesimo lavoro - che non è, vedremo poi, solo quello di pompieri.
Don Milani raccontato come pedofilo da un libro, Bruciare tutto, in uscita per un grande editore che ora sta sotto l’ombrellone di Marina Berlusconi.
In realtà, il romanzo lo accenna appena, nella dedica: «All’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani».
Narra di tale Don Leo, prete pedofilo, e delle sue simpatiche avventure.
L’autore è Walter Siti, un critico letterario divenuto romanziere, un trascurabile intellettuale d’apparato (Normale di Pisa, docenze di letteratura in giro per le Università dello Stivale, saggi su Nuovi Argomenti, studio di Pasolini e Montale: mamma che originalità) che ha forse vinto qualche premio di quelli che finiscono fugacemente in TV con l’autistico mondo letterario italiota a masturbarsi di applausi per mezza serata; mai avremmo immaginato di doverci occupare di Siti, che - va detto - quest’anno compirà appena 70 anni. Una giovane promessa, che infatti si prende molto sul serio.
Il Siti però ha lanciato il sasso: sì, «Ho creduto che don Milani somigliasse al mio prete pedofilo». Così titola La Repubblica, che lo intervista per poi, nel finale, insinuare cose brutte sul povero intervistato. Qualche giorno prima, aveva cercato di attaccarlo Michela Marzano, deputata scrittrice ultra-abortista confezionata dal Gruppo Espresso per gli scranni del PD (dal quale è ora però disgustata, dimostrando profonda gratitudine per il partitone che la lanciò con paracadute porcellum a Sesto San Giovanni, un tempo gloriosa «Stalingrado d’Italia»).
La Marzano («La pedofilia come salvezza. L’inaccettabile romanzo di Siti») rilevava la mostruosità del tema pederastia, per cui anche la foto di Aylan, bambino profugo morto sulla spiaggia nella nota iconica foto, è materiale per usi erotici.
A causa forse di alcuni limiti culturali, l’on. Marzano appena accennava alla bomba: quella dedica che faceva sì che il prete pedofilo si potesse identificare con Don Milani.
Il riferimento, poi riemerso carsicamente su tutti i giornali (che parlano di «linguaggio forte e provocatorio», «sboccato» «paradossale», «da interpretare» etc.) è una lettera di Don Milani a Giorgio Pecorini. Tale lettera, contenuta nel libro di quest’ultimo Don Milani! Chi era Costui? (Baldini&Castoldi, 1996, pp.386-391) fu per anni brandita dall’unico che negli anni ha combattuto di petto il donmilanismo, Pucci Cipriani.
Scrive il Don Milani: «… Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani piú che la Chiesa e il Papa? E che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!). E chi non farà scuola cosí non farà mai vera scuola e è inutile che disquisisca tra scuola confessionale e non confessionale e inutile che si preoccupi di riempire la sua scuola di immaginette sacre e di discorsi edificanti perché la gente non crede a chi non ama e è inutile che tenti di allontanare dalla scuola i professori atei … E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?».
Di recente la sconvolgente epistola è stata ripubblicata dal meritorio foglio fiorentino Il Covile, all’interno di un numero speciale dedicato alla catastrofe del Forteto.
Ho la sensazione che il Siti abbia piluccato proprio da qui, da Pucci e dagli altri eroici fiorentini che hanno tentato di resistere al nero incantesimo che ha fatto di Don Milani un maestro, e fors’anche, lo farà Beato.

Overton per pedofili

Vale la pena di spendere due parole sulla novella di Siti, Bruciare tutto.
La cui trama è: prete pedofilo si astiene dal consumare un rapporto sessuale con un bambino, il quale però vorrebbe essere sodomizzato dal sacerdote. Il bambino ci rimane male e si suicida.
Di qui il dilemma: meglio pedofili o assassini? La risposta è semplice: meglio pedofili.
Fin qui ci siamo: mica è una novità, la normalizzazione della pedofilia. Forse chi legge non ricorda che nell’estate del 2014 vi fu a Cambridge un convegno che indicava come l’attrazione per i bambini fosse «naturale e normale per i maschi adulti».
Nel 1998 furono i radicali ad organizzare una conferenza sul tema «Pedofilia e internet».
Vi sono indicazioni dell’Unione Europea sull’argomento, come la Risoluzione del Comitato dei Ministri agli Stati membri dell’UE 5/2010 [CM/Rec(2010)5], intitolata «Sulle misure volte a combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sulla identità di genere», che contiene al numero 18 un chiaro invito alla legalizzazione della pedofilia:
«Gli Stati membri dovrebbero assicurare l’abrogazione di qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali; dovrebbero inoltre adottare misure appropriate al fine di abrogare, emendare o applicare in modo compatibile con il principio di non discriminazione qualsiasi disposizione di diritto penale che possa, nella sua formulazione, dare luogo a un’applicazione discriminatoria».
Il candidato all’Eliseo Emmanuel Macron, che liceale si accoppiò con la professoressa di un quarto di secolo più anziana (già sposata con tre figli) pare la plastica incarnazione di quanto stiamo dicendo.
Che la finestra di Overton sulla pedofilia sia aperta non è un segreto per nessuno.
Si tratta della fase detta «radicale»: certo che il cannibalismo è mostruoso, ma se ti trovassi in pericolo di vita? Se ti trovassi tra quegli sventurati precipitati sulle Ande?
In fondo, pare dire Siti, il suo personaggio - e Don Milani - sono pedofili solo nel pensiero, nella pulsione, in interiore homine.
Il foro interiore è insindacabile, e tali voglie mai più si possono catalogare come deviazioni (il pensiero corre a Giovanardi che confessa in TV sogni zoogamici, ma rimaniamo sul tema).
Il lettore saprà che il DSM V (2013), l’ultima edizione del manuale diagnostico in uso dalla psichiatria planetaria, inizialmente conteneva la derubricazione della pedofilia come disturbo psichico. La modifica fu poi parzialmente ritirata, ma il passo in avanti venne fatto.
Il Walter Siti, da buon servo del sistema che lo mantiene e che lo premia, ha già recepito il ritornello. E dichiara a Repubblica: «Penso che fin che un desiderio non danneggia gli altri, la legge non ha niente a che farci; ma se la realizzazione di questo desiderio fa danni, la legge è obbligata a intervenire. La pedofilia, in quanto “filia”, cioè desiderio, non è reato; molestare i bambini lo è».
Tutto vero: la legge non punisce il pensiero. Tuttavia qui l’obiettivo è un altro, ovvero: nessuno deve essere sfiorato dall’idea che tale pensiero sia malato. O malvagio.
Niente di nuovo sotto il sole. Nell’ottobre 2014, il New York Times - il timone giornalistico della Terra - pubblicava un editoriale chiarissimo: «Pedofilia: un disordine, non un crimine». (Notate: «disordine», non «malattia», e giammai «Male»).
Si ebbe quello che nel mondo giornalistico si chiama New York Times Effect, l’eco tematico sul resto dei media: ecco l’Huffington Post: «”Sono un pedofilo, ma non sono un mostro”» è il titolo di un articolo del 2015. Occhiello: «in una lettera online la confessione di un designer americano. “Non tutti facciamo del male”».
Pedofili bonari ne abbiamo?
Sì.
Dopo aver letto tutta questa sbobba, il bravo cittadino democratico non può aver dubbi: meglio pedofilo che assassino.
Dicevamo, fin qui nulla di nuovo.
Quello che colpisce è come questa nuova torsione della «teologia» del Male minore si innesti stupendamente nella neochiesa gesuita di Bergoglio.

Contraccezione del semen christianorum

Il pensiero corre a Silence, il kolossal hollywoodiano-gesuita firmato dal cocainomane divorziato (e prete mancato) Martin Scorsese.
La pellicola, tratta dal romanzo di Shusaku Endo, narra dei misfatti dei gesuiti nel Giappone del XVII secolo; in particolare, si esalta l’apostasia dei religiosi davanti alla minaccia di strage di cristiani promessa dallo shogunato.
Meglio apostati che assassini. Messaggio chiaro.
Il film, riportano le cronache, è stato proiettato in anteprima a Roma davanti a 300 gesuiti in solluchero: che si ricordi che il Giappone fu da loro perso per sempre (tranne Nagasaki, ma a quella pensò il massone Truman) non li disturba. Anzi, parrebbe proprio la ritirata della cristianità a mandarli in estasi.
Scorsese poco dopo è ricevuto in udienza dal Papa. La benedizione a questa immane apologia dell’apostasia è del massimo grado.
Meglio traditori (dall’etimo vero, quello degli apostati del IV secolo che consegnavano - tradivano - i testi all’Imperatore) che martiri.
Senza martiri, è noto, non vi può essere cristianità, perché sanguis martyrum, semen christianorum.
La negazione del martirio è la contraccezione applicata al seme di Dio; così come è contraccettiva la sodomia (pedofila o no che sia).
Non è la prima avvisaglia di contraccezione del martirio durante il papato argentino: pochi accenni alla funzione divina del martirio quando ammazzano i cristiani a Ninive, in Libia, in Egitto, a Rouen (a morire è un sacerdote, e davvero in odium fidei).
In particolare vanno riportate le parole papali esatte quando nel settembre 2014 tre suore missionarie vennero decapitate in Burundi: «il loro sangue sia seme di fraternità». In pratica, l’esatto opposto del semen christianorum, con tanto di uso di parola in odore di massoneria (...fraternité).
Viviamo il tempo della grande contraccezione del seme di Dio, e pure di quello della sua immagine.
La neochiesa come grande preservativo della Fede. E quindi, in quanto atto contraccettivo par excellence, la sodomia come atto supremo del postconcilio - così come indicato durante il Sinodo 2014, che trasformò gli omosessuali in depositari di grandi poteri spirituali.
Vedasi la Relatio post disceptationem, n. 50: «Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana».
Ebbene, non poteva che essere questa la Chiesa che ora non solo difende, ma celebra don Milani.

«Non celata omosessualità»

Dell’omosessualità patente di Don Milani oramai paiono esservi testimonianze certe.
Giuseppe Fornari, filosofo vicino al Forteto collaboratore del grande teorico del sacrificio Réné Girard (del quale ha organizzato una videoconferenza proprio al Forteto: sappiamo come i temi girardiani siano tenuti in palmo di mano dagli Adelphi con le loro brame di sangue) lo ammise già nel 2008 in un saggio («I doppi vincoli d’amore di don Lorenzo Milani») contenuti nel volume collettaneo La contraddizione virtuosa. Il problema educativo, don Milani e il Forteto, edito nel 2008 dall’editore prodiano Il Mulino:
«Alla luce di quanto ho accennato sulla sua storia famigliare, è verosimile che Milani avesse sviluppato una propensione di tipo omosessuale, favorita dall’ammirazione verso il modello fraterno e dalla sfiducia di poterlo eguagliare nel campo particolarmente minato delle conquiste sentimentali».
Silvia Ronchey lo ha ripetuto il 21 aprile scorso nella sua difesa su La Repubblica («Le vere parole di Don Milani»): «calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta, è quasi dandistico il suo primo incontro con il messale romano: “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore? “, scrive diciottenne all’amico Oreste del Buono»
Non conta tanto qui l’insulto alla Messa, che scalda il cuore alla Ronchey. Del resto ella è eccitata anche davanti alle metamorfosi della fede, nulla o difforme, del Nostro: «è un ebreo non praticante che fa “indigestione di Cristo”, come scrive al suo mentore e direttore spirituale Raffaele Bensi. Ma la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto».
(Per inciso: sì, Don Milani era ebreo per parte di madre, Alice Weiss; il padre, poco presente nella sua vita, è anticlericale o peggio. La parabola di Don Milani ricalca con esattezza impressionante un pattern già visto in Ludwig Wittgenstein: famiglia di origine ebraica, spleen borghese giovanile che lo porta ad insegnare ai bambini in un paesino di montagna, bambini che prende regolarmente a cinghiate e infine, certo, l’omosessualità come cifra).
La Ronchey insomma se lo lascia scappare: «la non celata omosessualità nella Firenze degli anni Trenta».
Non abbiamo dubbi sul fatto che la giornalista sia ben informata: è figlia del boiardo repubblicano (con il PRI e poi con il «livornese» Ciampi) Alberto Ronchey, nonché cognata della collaboratrice dell’Osservatore Romano Lucetta Scaraffia in Galli della Loggia; insomma gode di ampie entrature sia in Loggia che in Vaticano.
Ma quindi, se tutti sapevano, come è possibile che Don Milani sia stato fatto prete?
Questo il primo grande mistero.
Perché vi è stato un tempo, prima dell’abominio del Concilio Vaticano II, in cui agli omosessuali era materialmente impedito di avvicinarsi all’ordinazione.
Don Bensi, il suo direttore spirituale, ha mancato di segnalare?
Don Raffaele Bensi, nume tutelare della chiesa «resistenziale» della Firenze del dopoguerra, non si è accorto delle pulsioni di quel giovane che studiava arte e non nascondeva le proprie inclinazioni?
C’è da dire che il Bensi, a Firenze, è a sua volta chiacchierato. È noto pure che, a differenza di altri recipienti delle scabrose lettere pedo-erotiche di Don Milani, egli abbia bruciato tutta la privata corrispondenza. Secondo Neera Fallaci, nella corrispondenza si trattava molto anche di Papa Paolo VI.
Il Bensi fu apostrofato con la classica espressione di ortaggio dallo stesso Milani in una lettera in cui quest’ultimo si lamentava delle pressioni cui il confessore lo aveva sottoposto per scrivere il libro: «può darsi che lei abbia in vista una felice sintesi delle due cose, di cui io invece non intravedo la compatibilità p. es. passare a un tempo da finocchio e da maestro, da eretico e da padre della Chiesa, da murato vivo nel chiostro e da pubblicatore del più polemico dei libri».
Bensi il confessore non può non sapere cosa covi il cuore del seminarista, che arriverà a scrivere ad un amico: «Vita spirituale? Ma sai in che consiste oggi per me? Nel tenere le mani a posto».
Insomma, questo è un primo mistero maggiore: nel mondo del pre-Concilio, il ragazzo don Milani mai sarebbe potuto divenire sacerdote.
Eppure egli fu ordinato.

Il problema del padre

Era davvero patente il problema famigliare del Milani. Il classico schema freudiano dell’omosessualità: padre assente, enorme attaccamento alla madre. Una verità nota a tutti qualche decade fa - pensate al film Psycho di Alfred Hitchcock, dove l’ambiguo assassino Anthony Perkins vive con la mummia della madre in casa -  ora divenuta indicibile (al punto che proprio la settimana scorsa il film è stato censurato perché, essendo l’assassino malato al punto da uccidere vestito come sua madre, discriminerebbe i transessuali).
Ammette il sito della Fondazione Don Lorenzo Milani: «negli scritti pubblici di don Lorenzo, appare poco la figura del padre», mentre «la figura della mamma, per don Lorenzo è molto importante. Anche quando è uomo conosciuto e padre dei suoi ragazzi, lui è sempre un figlio che si sente generato. Di fronte alla mamma si trasforma, diventa figlio amoroso e rispettoso, con la quale si consiglia e parla a lungo. Più volte alla settimana scendeva da Barbiana a Vicchio solo per telefonare alla mamma oppure mandava qualcuno del popolo a imbucare la lettera che le scriveva».
«Ricordo la prima volta che sua mamma venne a Barbiana, chiamò l’Eda e i sei ragazzi della scuola e ci disse pressappoco così: “Domani viene qui la mamma e si fermerà due giorni. Lei non è cristiana e bisogna essere con lei attenti e premurosi anche se non capiremo il suo modo di porsi di fronte a questi luoghi e le sue difficoltà a vivere con noi. Cerchiamo di aiutarla in tutto e di attenuare i suoi disagi, perché noi cristiani dobbiamo dimostrare di essere migliori”.»
«Per noi quando veniva la mamma lassù era una festa perché don Lorenzo si trasformava, era meno esigente, più tollerante. Quando non condivideva qualche nostro atteggiamento non faceva nessun urlaccio ma ci diceva sottovoce: “ne approfitti perché c’è la mamma, ma quando va via faremo i conti”. Un figlio esemplare e rispettoso e forse un potere straordinario che essa ha avuto su di lui… »
Sull’assenza del padre come cifra della nostra epoca qualcosa è stato scritto; sul valore teologico della questione - il parricidio come atto satanico, nel senso proprio di lucifero - non c’è da sforzare molto la ragione.
L’assenza del padre genera mostri.
O forse peggio: l’assenza del padre genera pedofili?
Si tratta di un’altra cosa ora indicibile.
Riguardo a Don Milani, ne accennò sempre su Il Covile Armando Ermini: «la scomparsa o l’assenza del padre ha effetti sul piano sociale ma anche su quello individuale, compresa la distorsione del senso dell’amore nutrito da un adulto verso un ragazzo e dell’attrazione sessuale che di quella distorsione è conseguenza».
Ora il lettore capisca che sto per fare il passo che non uno ha osato fare in questi giorni.
Il passo da Barbiana al Mugello.
Il passo da Don Milani al Forteto.
Chi non conosce la storia del Forteto, questa sorta di pedo-gulag gnostico sostenuto dal contribuente e rifornito di carne fresca dal tribunale dei minori, può informarsi.

Don Forteto

Il Forteto è, ha scritto Sandro Magister, «quella catastrofe che si è consumata in quel di Firenze, tra i circoli cattolici che fanno riferimento a don Lorenzo Milani e alla sua scuola di Barbiana. Una catastrofe che opinionisti e media hanno a lungo negato o passato sotto silenzio, per ragioni che si intuiscono dalla semplice ricostruzione dei fatti».
Come in un incubo cataro, nella comunità del Forteto i bambini mandati dal tribunale devono accoppiarsi con il genitore adottivo dello stesso sesso.
«Al Forteto - scrive la Relazione della Commissione regionale d’inchiesta -  l’omosessualità era non solo permessa ma addirittura incentivata, un percorso obbligato verso quella che Fiesoli definiva “liberazione dalla materialità” (…) l’amore riconosciuto e accettato, l’amore vero, alto e nobile era solo quello con lo stesso sesso (…) Il bene e l’amore vero erano quelli di tipo omosessuale, perché lì non c’è materia». Lo ha sentenziato tronfio anche un altro guru dei nostri tempi malati, Umberto Veronesi.
Non vi sono prove del coinvolgimento di Fiesoli e Goffredi («il profeta» e l’ideologo fortetani) con il Milani - la comunità nacque dopo la morte di Don Lorenzo.
Tuttavia che l’ispirazione del Forteto fosse il donmilanismo è universalmente accettato.
È più concreto forse il rapporto tra Don Milani e Giampaolo Meucci, il presidente del tribunale dei minori, che spedisce i minori al Forteto a frotte: a sei mesi dal primo arresto di Fiesoli  e con il processo in corso, il tribunale affida al Forteto un bambino down di 3 anni. Goffredi, l’ideologo del gruppo, riuscirà persino ad avere due bimbi in adozione dopo la propria condanna.
A Meucci Don Milani confessa proprio il desiderio di una énclave separata dal resto del mondo, oramai contaminato e compromesso. Nulla si salva. La DC, la Chiesa, la società tutta.
La lettera è del giugno 1952.
«Caro Gianni, ieri m’hai fatto un po’ patire perché noialtri campagnoli quelle poche notizie che ci vengono dalla città le beviamo per vere. Sul mio popolo (...) Fino a ieri p. es. usavo consolare i miei ragazzi colla promessa d’una redimibilità della parte migliore della DC. Dicevo loro che colle preferenze potremo ricostruire un partito cristiano fatto tutto di sindacalisti e di massaie. Della CISL m’hai insinuato invece il sospetto d’infiltrazioni dell’area del dollaro. Dell’Acli massa di manovra ecclesiastica. Di Fanfani conformismo. Di La Pira paternalismo. Dell’ACI merda. Di Pio XII merda. Di De Gasperi merda. Di Adesso merda. Di Dossetti disperazione. Oppure no forse qualcosa di peggio. Di Dossetti stima illimitata. Ma in questa stima per l’uomo, che s’è trovato solo nel deserto quasi un invito anche a me a dire siamo soli. Sentirci due o tre dalla parte di Dio e tutto il resto nel più sporco tradimento».
Don Milani avvertiva con chiarezza questo bisogno di palingenesi comunitaria: ritirarsi dal mondo per creare una società nuova.
Va ricordato come tale pulsione sia comune a tutte le personalità disturbate che danno origine alle sette apocalittiche - lo ha dimostrato lo psichiatra americano Robert Jay Lifton che ha esaminato tale fenomenologia da vicino per il suo libro (Destroy the World to Save It) su Aum Shinrikyo, la setta che nel 1994 mise il sarin nella metropolitana di Tokyo.
Don Milani ebbe appena il tempo di gettarne i semi, rifugiandosi in campagna con l’idea di possedere totalmente le vite dei suoi «fedeli», così come riportato nell’altra lettera a Pecorini.
Tuttavia, di recente la magistratura ha fatto salire in superficie alcune perle illuminanti.
Nel febbraio 2014 Edoardo Martinelli, allievo di don Lorenzo Milani, sindacalista e soprattutto tra i fondatori del Forteto depose al processo contro Fiesoli e i 22 soci per abusi e maltrattamenti. Martinelli fuggì dal Forteto già nel 1978, ai tempi della prima inchiesta del magistrato Carlo Casini sui crimini fortetani.
«Lo scontro con Rodolfo fu sulla sua idea di comunità rigida e sulla terapia selvaggia basata sulle confessioni pubbliche - dice al magistrato Martinelli - attuarono quella terapia selvaggia con una mia amica, disperata perché da bambina suo padre aveva abusato di lei. Cercarono di applicarla anche a me».
«Rodolfo mi guardava negli occhi, mi voleva far dire che ero un abusato, addirittura che anche don Milani era un abusante».
Emerge insomma come Fiesoli detto il «profeta», il condannato guru indiscusso del Forteto, ritenesse che Don Milani abusasse dei suoi ragazzi.
Don Milani «abusante». Lo dice il pregiudicato Fiesoli: possiamo pensare che la contiguità territoriale ed umana tra Barbiana e il Mugello possa aver dato al «profeta» informazioni precise.
Oppure possiamo pensare che ben due volte al giorno un orologio rotto dice l’ora esatta.
Martinelli aggiunge un oscuro aneddoto che riporta a galla anche il mistero di Don Bensi, il direttore spirituale di Don Milani e di tanto catto-comunismo fiorentino: «era come se mi volesse ipnotizzare. Erano pressioni disumane. Tutto un gruppo faceva coercizione. Siccome credo di non aver mai perso del tutto la lucidità, dissi a Rodolfo [Fiesoli]: “Si va io e te da don Bensi, il mio confessore” (...) Non si fa a tempo a entrare che Rodolfo gli fa il suo sorriso e gli mette la mano sui genitali (era un suo vezzo). Don Bensi gli sferrò uno sganassone e lo cacciò a calci nel sedere. Poi mi disse: “Questo è pazzo, è uno psicotico attivo”. Quel giorno capii che ero finito in un bordello».
È più di un bordello. Tra botte, stupri, sfruttamento minorile, e pedo-«incesti» regolarizzati, il quadro che si potrebbe dipingere è assai scabroso.
Sul Forteto si spalanca la bocca dell’Inferno, e chi vi guarda dentro ne esce pazzo. Succede a magistrati e poliziotti, cioè persino a chi dovrebbe sentirsi al riparo dagli orrori che scoperchia.
È noto come transitano stranamente al Forteto decine di personalità politiche, da Di Pietro a Rosy Bindi, da Fassino a Pisapia, da Livia Turco a Susanna Camusso. Per non parlare delle connivenze con enti locali, la magistratura (in casa di Fiesoli vengono trovati gli incartamenti relativi all’inchiesta su di lui!), il mondo delle cooperative.
Perché?
Chiediamoci pure perché il sindaco Matteo Renzi nel 2011 offre il palco della Fortezza da Basso a Rodolfo Fiesoli per il TedX Firenze. Il sito ha cancellato la memoria dello spettacolo di Fiesoli, che fu invitato nonostante avesse condanne già nel 1985 per svariati reati di natura sessuale.
Rimane un video su YouTube a mostrare come i due quella sera abbiano materialmente calcato insieme il palco.
Parimenti, con Renzi divenuto primo ministro, il governo del PD nega sia il Commissariamento del Forteto sia la Commissione d’inchiesta sulle malefatte della Coop di Fiesoli.
Basta così. È di Don Milani che vogliamo parlare. Anche se, scrive Matteo 7 (15-16) «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete».

Roma Locuta: il sigillo papale sulla pedofilia?

Ebbene, in tutto questo strano processo è irrotto Bergoglio.
Ma andiamo con ordine: trovo singolare la sincronia degli eventi.
Esce il libro di Siti, con la dedica dello scandalo.
Al contempo, alla manifestazione milanese «Tempo di libri» (evento che vuole usurpare la Fiera del Libro del Lingotto) vi è il lancio del doppio Meridiano Mondadori dedicato a Don Milani, con tanto di ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli (quella del gender, sì) presente all’evento.
Il curatore del volume è Alberto Melloni, erede della scuola di Bologna, la fucina eruttiva del modernismo ecclesiastico.
Bergoglio manda un video alla manifestazione, un video in cui guarda in camera ed esalta proprio Don Milani. Potete vederlo sul sito di Repubblica, e notare come anche questo sia «a cura di Alberto Melloni».
I registi ingaggiati per lo spettacolo, alla fine, sono sempre i soliti.
Infatti Repubblica brucia il Corriere e manda in stampa il testo della difesa bergogliana di Don Milani.
«Mi piacerebbe che lo ricordassimo soprattutto come credente, innamorato della Chiesa anche se ferito, ed educatore appassionato con una visione della scuola che mi sembra risposta alla esigenza del cuore e dell’intelligenza dei nostri ragazzi e dei giovani».
Roma locuta, causa finita.
Bergoglio entra a gamba tesa e fornisce al popolo l’unica interpretazione della questione don Milani.
Un sacerdote «ferito» (cioè, per come lo intende anche Siti, «pedofilo») può essere un «educatore appassionato».
La parola è proprio la stessa. «Ferita». Un’ammissione. Un imprimatur.
Il lettore avrà capito che si tratta ad un nuovo fronte del «Chi sono io per giudicare».
La finestra di Overton, già spalancata per l’omoeresia, ora pare aprirsi, per mano del Papa, per la pederastia ecclesiastica.
Il cosiddetto «ritardo cattolico» martiniano è finito. La società secolare può metterci anni a normalizzare la pedofilia; la Chiesa ci può invece impiegare pochissimo. Con il golpe modernista è tutto chiaro: la dissoluzione aumenta esponenzialmente, e la foga satanica contro l’Ecclesia è ben maggiore di quella usata contro la società civile.
Dubbi bisogna averne pochi: basta ricordare chi è il direttore di Santa Marta. È Monsignor Ricca, l’uomo per cui Bergoglio rispose «Chi sono io per giudicare» (alla domanda aerea di Ilze Scamparini, che riguardava proprio l’ospite papale). L’uomo uscito intonso da tutto: da L’Espresso che gridava fin dalla copertina riguardo «Il prelato della lobby gay», dalle diecine di inchieste, spifferi, scandali sullo IOR dove Bergoglio lo ha subito sistemato.
Alcuni sostengono che la lobby gay, la cui esistenza fu ammessa dallo stesso Bergoglio, sia stata determinante all’ultimo conclave.
Che il Pontefice debba restituire il favore, magari - oltre che inzaccherare di gender i documenti papali come l’Amoris Laetitia - ponendo il sigillo su una figura come quella di Don Milani?
Il dubbio sale atroce quando si apprende dalla sala stampa del Vaticano che il 20 giugno Bergoglio effettuerà un «pellegrinaggio» (sic - proprio come per i viaggi presso santuari e luoghi sacri) a Barbiana, per onorare don Milani.
L’appoggio del Papa verso il prete «ferito», cioè pervaso di pulsioni omosessuali e financo pedofile, è totale.
Don Milani diviene un esempio a cui tutti i sacerdoti devono ispirarsi.
Quindi: scandalo di Siti, Meridiano, video-intervento del Papa, pellegrinaggio dello stesso.
Come pensare non si tratti di una significativa coincidenza.
Non che vi sia un disegno vaticano, abbozzato neanche tanto in profondità, per sdoganare le voglie dei preti moderni?
Non dico sdoganare del tutto, ma iniziare a legittimarle. Piano piano, sottovoce, tra Marzullo e Overton.
O forse neanche tanto lentamente.
Torna in mente la storia della «casita de Dios».
Qualcosa è trapelato anche presso i grandi media.
Chiamavano così la piccola cappella con il ritratto della Madonna, sul retro dell’istituto cattolico Antonio Provolo, nella provincia di Mendoza, in Argentina.
Alcuni sacerdoti vi stupravano ripetutamente, tra il 2006 e il 2007, bambini dai 6 ai 12 anni. Costoro non potevano urlare e chiedere aiuto, perché sordomuti.
La casita è uno scandalo transnazionale: anche l’Italia ha il suo tentacolo d’orrore. «Decine di studenti dell’Istituto Provolo di Verona, in Italia, erano stati abusati per anni e tra i loro aguzzini figurava uno dei religiosi arrestati in novembre in Argentina», scrisse il Corriere.
È il caso di ricordare che tra il 1998 e il 2013 l’arcivescovo di Buenos Aires era Jorge Mario Bergoglio».
La connivenza con il male pedofilo - vasto fenomeno psichiatrico, come viene detto nel film Spotlight - ha radici antiche, e diramazioni fitte nell’opera bergogliana.
«Il Vaticano sapeva almeno dal 2009, quando le vittime italiane raccontarono pubblicamente gli abusi subiti – ricorda l’agenzia AP -. Nel 2014, scrissero direttamente a Papa Francesco accusando per nome 14 preti e religiosi laici dell’istituto, tra cui il reverendo Nicola Corradi. E’ lo stesso sacerdote, trasferito nelle sedi argentine del Provolo, denunciato ora da 24 ex studenti argentini».
«Lo scandalo sfiora anche Papa Francesco che, tra il 1998 e il 2013, era vescovo di Buenos Aires e apparentemente ignorò le lettere inviate dalle vittime italiane».
La spinosa questione affligge il papato del Bergoglio, che chiede ripetutamente, quanto genericamente, scusa per la pedofilia nella Chiesa, forse in attesa di rivelazioni shock su antiche complicità.
Eppure il sigillo papale sul Male - no, non solo il silenzio - assume anche qui una forma attiva.
67 giovani ospiti dell’istituto denunciano l’orrore per quasi 30 anni. I sacerdoti coinvolti sarebbero 25.
Un ragazzo, Gianni Bisoli, fa un nome preciso, quello di Mons. Giuseppe Carraro. Si tratta dell’ex vescovo di Verona. Il Bisoli, scrive MicroMega, «nel 2012 era stato ritenuto inattendibile nonostante la minuziosa descrizione della stanza in cui era costretto a «masturbazioni, sodomizzazioni e rapporti orali».
Il 16 luglio 2015 Bergoglio autorizza la pubblicazione del decreto riguardante le «virtù eroiche» di  Mons. Carraro, ponendolo tra i venerabili, il primo passo, cioè, verso la beatificazione.
È inutile pensare che lo stesso processo non avverrà, a breve, per Don Milani. Dopo il «pelligrinaggio» di Bergoglio la strada per la canonizzazione sarà spianata, e quindi - ça va sans dire - metabolizzata nel profondo la sua «ferita».
Gli argini sono rotti.
La pedofilia lorda la Chiesa, distrugge la famiglia, minaccia la stessa incolumità dei nostri figli.

La maledizione di Don Milani è su tutti noi.

sabato 15 aprile 2017

Intervista ad Ascanio Ruschi sul libro di Pucci Cipriani (in "OK!Mugello" del 15/04/2017)

Abbiamo rivolto alcune domande all’Avvocato Ascanio Ruschi, –  della nobiltà fiorentina, Cavaliere dell’Ordine Militare di Santo Stefano una delle figure più rappresentative, insieme al Conte Neri Capponi e allo stesso Pucci Cipriani, della Tradizione cattolica toscana – sull’ultimo libro del mugellano Pucci Cipriani: “Dal natìo borgo selvaggio: quando ancora c’era la fede e si pregava in latino” (Solfanelli), presentato la scorsa settimana a Borgo San Lorenzo ha ottenuto un rande successo di partecipazione e di critica.

D) Avvocato dunque questo libro è più un “evento” per la Tradizione cattolica o è semplicemente un “amarcord” mugellano?

R) Il libro di Pucci Cipriani pubblicato dalla Casa Editrice Solfanelli di Chieti, è certamente un “amarcord” un ricordo affettuoso di Pucci con il suo Paese e la sua gente, un libro che chiude una trilogia dedicata alla Toscana che iniziò appunto con “L’Altra Toscana. Diario di un conservatore” (Controrivoluzione, 2005) – il volume fu molto apprezzato dal Granduca Sigismondo d’Asburgo Lorena, al quale Cipriani lo dedicò, che rispose con una sua calorosa e affettuosa missiva – e poi “La memoria negata. Appunti per una storia della Tradizione Cattolica” (Solfanelli – 2013). E qui ritroviamo – e noi conoscevamo molti degli episodi, dei personaggi, dei luoghi riportati in questo volume – la storia di un paese e di una società : il tempo scandito dal suono delle campane, le preghiere della sera e del mattino, la recita del Rosario, l’unità della famiglia, le veglie, le processioni, le comunioni, la vita oratoriana e scolastica dai salesiani (grande è il legame di Cipriani con l’opera di don Bosco , un Santo al quale l’autore è particolarmente devoto), ma anche le battaglie politiche (bello il riconoscimento affettuoso per i suoi avversari politici di allora), lo sport, le commedie in piazza, i cantastorie, gli stornellatori, i circhi…insomma una società che, ancora, ai tempi della fanciullezza dell’autore, era a “misura d’uomo”.

D) Come si è “imbattuto” con gli scritti di Pucci Cipriani?

R) Sono oltre vent’anni che ho conosciuto Pucci, da quando, ancora adolescente, (adesso ho quasi quarant’anni) mi recai a Civitella del Tronto ai Convegni della Tradizione cattolica che Pucci organizza da oltre quarant’anni. Da allora non sono mai mancato e attendo con gioia la seconda settimana di marzo per parteciparvi. L’amicizia che mi lega all’autore di “Dal natìo borgo selvaggio” è grande e sia il sottoscritto che tanti altri giovani della “Comunione Tradizionale” conoscono le opere di Cipriani anche dai suoi racconti : Pucci ha pubblicato otto libri e da venticinque anni dirige la prestigiosa rivista “Controrivoluzione” ma mai ha voluto presentare i suoi libri a Borgo San Lorenzo, nonostante l’amore che porta per il suo paese e per la sua gente; soleva ripetere “Nemo propheta in patria”. Questo suo ultimo lavoro è stato presentato a  Borgo con successo anche per l’insistenza mia e degli altri amici e, soprattutto, per quella dei suoi amici borghigiani Renzo Boni e Patrizio Baggiani. Io conosco e apprezzo molto gli scritti di Pucci e, con lui e gli amici Lorenzo Gasperini e Gabriele Bagni, mi sono recato più volte in tutta Italia  (Chieti, Civitella, Prato, Messina, Genova, Torino, Milano….) a presentare i suoi libri. A Firenze presenteremo “Dal natìo Borgo selvaggio”, insieme al Consigliere Regionale Giovanni Donzelli, presso la Regione Toscana, nella prima decade di maggio. Poi inizieremo la “tourné” nelle altri parti d’Italia….

D)Dunque Pucci non fa solo un “amarcord”. Quale messaggio vuol lanciare  con il suo : “Dal natìo Borgo selvaggio”?

R) Penso che la più bella risposta la possa dare il prof. Massimo de Leonardis, Ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento Studi Politici dell’Università Cattolica di Milano, che nella sua prefazione a questo volume scrive :“Nel non sempre lineare mondo del tradizionalismo italiano l’opera di Pucci Cipriani spicca per coerenza e continuità…dopo il Pucci Cipriani editore, scrittore politico, organizzatore di eventi, giornalista di rara efficacia, negli anni più recenti ho conosciuto un altro aspetto della sua personalità, quello di letterato e memorialista, cantore di una Toscana “diversa”, come recita il titolo del suo volume del 2005…Di tale opera questa costituisce l’ideale continuazione, alla riscoperta di un mondo di ieri (e l’altro ieri) che rischierebbe altrimenti di essere coperto dall’oblio. La descrizione di quel mondo non è un esercizio nostalgico o sdolcinato di rievocazione del passato. E’ la dimostrazione che una civiltà cristiana è esistita non solo sui libri e nelle grandi realizzazioni ma anche nella vita di ogni giorno, scandita dai rintocchi delle campane e dai tempi della preghiera.” Ecco io condivido financo le virgole dello scritto del prof.Massimo de Leonardis che, insieme al prof. Roberto de Mattei, rappresenta il punto di riferimento del tradizionalismo cattolico italiano…e non solo.

D) il giudizio complessivo su questo libro e sull’autore?

R) Questo libro è appassionante (oltre tutto nel capitolo “L’ultima lezione” vedo un po’ l’autobiografia del mio amico) e vi rivedo quei racconti “quasi magici” che Pucci ci faceva e ci fa tuttavia del “buon tempo andato”. L’ho letto e riletto già dalle prime bozze e penso di aver contribuito a sfoltire il volume da una “coda polemica” che non mi piaceva…Pucci, infatti, è un gran polemista, una persona che, negli scritti mette il cuore. Io mi sono goduto per quindici anni i suoi “fondi” che faceva sull’Edizione Toscana de “Il Giornale” al quale il Direttore Riccardo Mazzoni affidava gli editoriali. Polemiche che entravano nel vivo dei problemi poltici e sociali e, del resto, ho letto anche, nella collezione che ho trovato in casa, le sue grandi inchieste su un settimanale, allora (io avevo pochi anni)  popolarissimo ovvero “Candido” (fondato da Giovannino Guareschi). Ecco perché lo sconsigliai a suo tempo (e con me altri amici) di non perdersi in “polemichine” con personaggi meschini di terza e quarta fila. Una volta tanto Pucci mi ha dato retta….

E ha continuato a “volare alto”. Comunque ne parlerò a Firenze, durante la presentazione, nell’Auditoriun della Regione Toscana, insieme a Massimo de Leonardis, Cosimo Zecchi e Giovanni Donzelli.

(Intervista a cura di Aldo Giovannini)

http://www.okmugello.it/mugello/intervista-ascanio-pucci-cipriani

domenica 9 aprile 2017

Presentato a Borgo San Lorenzo il libro di Pucci Cipriani "Dal natìo borgo selvaggio"

E' stato presentato a Borgo San Lorenzo sabato 8 aprile 2017, presso la Saletta "Pio La Torre" il libro di Pucci Cipriani : "Dal natìo Borgo selvaggio: quando ancora c'era la Fede e si pregava in latino" (Edizioni Solfanelli).
La presentazione, avvenuta con il patrocinio del Comune di Borgo San Lorenzo, e organizzata dal Circolo "La Terrazza" di Ronta e dalle Edizioni Solfanelli ha visto alternarsi al tavolo, mentre in un grande schermo apparivano vecchie immagini del "natìo Borgo selvaggio", il Consigliere Comunale di Borgo San Lorenzo Patrizio Baggiani, promotore dell'incontro, il giovane pubblicista Lorenzo Gasperini, Capogruppo dell'opposizione al Comune di Cecina, il Docente Universitario Giovanni Tortelli, l'ex Presidente del Fuan di Firenze Cosimo Zecchi oltre all'autore, mentre i giovani Guido Scatizzi e Gabrile Bagni hanno letto brani del libro.
Il libro che porta la prefazione del prof. Massimo de Leonardis, Ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Studi Politici dell'Università di Milano e la postfazione di Cosimo Zecchi, può essere ordinato direttamente all'Editore cliccando QUI: http://tabulafati.com/ec/product_info.php?products_id=1148









Intervento di Lorenzo Gasperini alla presentazione del libro di Pucci Cipriani "Dal natìo borgo selvaggio"

Quella di Pucci Cipriani è un'opera dal contenuto STORICO-STRIOGRAFICO, di una storia personalissima ma anche di una storia che è di tutti noi.
Dall'espediente IRONICO; l'ironia non è una mancanza di serietà, ma un tratto caratteristico del fare di Pucci, che da un lato smaschera il nemico e dall'altro rende gioviali anche le prese di coscienza più amare su un tempo che pare aver dimenticato ogni bellezza
Dal tenore AFFETTUOSO

Don Giussani, ad un ragazzo comunista che voleva fare la storia con la rivoluzione, disse: "Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo"; Pucci racconta di fatti e di vissuti che hanno fatto la storia dell'uomo più di tanti eventi macro di cui si occupa la storiografia ufficiale; non si può spiegare la storia del nostro passato senza la Messa di sempre, senza i rosari, senza ciò che animava il vivere, il morire, il fare, il lavorare degli uomini.

Ma la storia ha un nesso evidentemente molto forte con la Tradizione; per Chesterton la Tradizione è "la democrazia dei morti", ossia la possibilità di decidere, di essere, di giudicare, non a partire dall'ondivago sentimento di quel che siamo noi presenti oggi in terra, ma a partire dal giudizio e dall'amore di quelle innumerevoli generazioni che ci hanno preceduto consegnandoci ciò che di caro abbiamo oggi, dalle piazze ai ponti alle usanze alle processioni. La storia si fa quindi metodo per l'unica democrazia possibile, che non è quindi la volontà della maggioranza ma l'affermarsi della Tradizione vera, la Santa Tradizione.

Chesterton ci introduce anche al secondo tratto, quello dell'espediente ironico; ironia così tipica di Chesterton, e così tipica di Pucci.
In Pucci diventa come la forma letteraria della dimostrazione per assurdo: assunzione dell'ipotesi nemica, sviluppo coerente del discorso fino a mostrare come l'ipotesi avversata conduca al ridicolo. E questo si vede nella rappresentazione plastica di tali "ipotesi", che nel nostro presente più che ipotesi sono realtà effettuali; rappresentazione plastica della trivialità che abita il nostro tempo, nelle mammine preoccupate che i figli possano essere feriti dal riflettere sui Novissimi, ma altrettanto tranquille nei confronti della pornografia che abita i loro telefoni cellulari; o nelle gonnelle che prima sdottoreggiano al leggio e poi ti danno la Particola senza che si sappia bene cos'han toccato prima, come in una sgangherata commedia in cui tutto si palesa fuorché il senso della ritualità e della presenza reale del Signore.

Infine questo nuovo libro di Pucci Cipriani è un'opera dal tenore affettuoso, come potrete facilmente capire leggendola, tra pagine che così facilmente portano alla commozione e alle lacrime. Per una nostalgia che è dell'anima e non solo legata al fatto che il tempo andato sia in quanto tale, appunto, andato. Anche chi, come me, buona parte delle cose narrate nel libro non può averle neanche vissute, per ovvi motivi anagrafici, potrà commuoversi alla rappresentazione di sì tanta bellezza, in luogo della quale oggi si ha sì tanta bruttezza.
Pucci racconta storie affettuose, che toccano le nostre corde più profonde facendole struggere di desiderio per quella bellezza, e dimostra anche che il cristianesimo non è innanzitutto un ragionamento, ma una storia che ci muove e commuove. I personaggi del libro non sono perlopiù esperti di teologia, ma soggetti coinvolti da una ritualità, da una storia, da degli accadimenti e da uno sguardo capaci di integrarci in una vita più grande, più bella, oserei dire divina, nonostante tutta la cattiveria dell'uomo.

Il mondo di oggi è un mondo al quale Pucci sente di appartenere sempre meno. Con analoga intuizione Mons. Luigi Negri l'anno scorso dichiarava che l'unità della società italiana è oramai contro Cristo e contro la Chiesa. Di questo dobbiamo prendere atto, perché se è vero che ogni momento della storia è occasione favorevole per la nostra battaglia e per la nostra e altrui salvezza, non è però vero che tutti i momenti della storia siano altrettanti intrisi di verità e di bellezza. Non si tratterà quindi di chiudersi in una nostalgia disperata, e l'ironia a cui Pucci mai rinuncia è proprio l'indice di quella giovialità invincibile che è propria degli amici di Cristo. Si tratterà invece, nel prendere atto che una certa bellezza nel mondo c'era e non c'è più, e che siccome il cristianesimo è per sua natura non intimista ma produttore di civiltà, produttore di carne, di modi dell'esistere storico in cui possa la verità di sempre rifulgere della Maestà Divina (si pensi alla dimenticata Regalità Sociale di Cristo), di pregare e fare perché la bellezza in questo testo cantato torni ad essere storia. Non è una disperazione che lascia addosso questo libro, ma una nostalgia desiderante, una nostalgia belligerante, una nostalgia produttrice -ancora- di civiltà cristiana. 
A Pucci Cipriani, quindi, il merito di farci desiderare così tanto le cose di lassù, vissute già quaggiù come le vivevano i nostri nonni, "quando ancora c'era la Fede e si pregava in latino".

Lorenzo Gasperini

Intervento di Giovanni Tortelli alla presentazione del libro di Pucci Cipriani "Dal natìo borgo selvaggio"

Con Dal natio borgo selvaggio si entra nel vivo della vita dell'Autore, nel vivo del suo cuore, e la cosa si fa seria perché allora non si tratta più di filosofeggiare su parole e concetti, ma parole e concetti si fanno carne viva, la carne di chi ha vissuto direttamente volti, personaggi, luoghi, eventi che non sono più ma che — a distanza di anni, forse anche di molti anni — sono ancora capaci di provocare gioie e dolori, passioni ed emozioni che il tempo non scalfisce perché costituiscono la nostra "storia sacra".
Sì, storia sacra: con l'Incarnazione di NSGC la vita di ciascuno di noi è diventata storia sacra perché — con tutti i nostri fatti e misfatti — siamo stati "ricomprati" cioè redenti da Gesù Cristo, e a caro prezzo, grazie al suo sangue sul legno della croce. Solo che questa redenzione non scatta automaticamente ma va attivata dall'uomo stesso, esattamente come diceva Attilio Mordini: "La storia è sacra solo per il vir bonus dicendi peritus, cioè per l'uomo che conforma il suo dire — e quindi anche il suo fare — all'ascolto del Verbo universale cioè Cristo, in modo da ordinare il suo cammino dal caos al cosmo, all'ordine".
Io credo che questa importante affermazione la possiamo tranquillamente applicare anche a Pucci Ciprini, senza volere con ciò farne il panegirico: non è forse sempre stata la sua vita un conformarsi all'ordine di Cristo anche a costo di battaglie che hanno messo in croce anche lui? Pucci non è stato e non è solo il vir bonus, cioè onesto e valente, ma anche il peritus dicendi, ha fatto esperienza dell'ascolto di Dio e lo ha testimoniato come lo testimonia tuttora. Tanto che, se dovessi fare un raffronto anche con un recente passato, non esiterei s metterlo al fianco di quei «cattolici belva» come Domenico Giuliotti e Giovanni Papini che, con una lungimiranza che sapeva già di profezia, si scagliavano negli anni Cinquanta contro un Chiesa che essi vedevano avviata verso le spire di un modernismo che l'avrebbero prima o poi soffocata e spenta. E non è forse ciò che è successo esattamente col Concilio che ha strozzato la Chiesa e con questo sciagurato cinquantennio di post-concilio che le ha dato la stretta finale al collo? E non è forse fin dagli anni Sessanta che Pucci Cipriani è in trincea per difendere la Chiesa e i valori posseduti dalla Chiesa e per essa dalla civiltà occidentale fino alla tragica Rivoluzione francese? Ma vorrei anche aggiungere che l'Autore ha avuto il privilegio, se così si può chiamare, di vivere all'incrocio di grandi eventi storici: il Concilio Vaticano II — forse il più tremendo per i destini della Chiesa fra tutti i 21 Concili susseguitesi fino ad oggi -, il famigerato '68 politico che ha infettato tutta l'Europa togliendole ogni valore verticale e impostando tutta la vita privata e sociale su un cieco ed ottuso democraticismo, un insensato europeismo e un pericolosissimo solidarismo. Da società imperniata sulla caritas cristiana, siamo diventati una società filantropico-massonica-opportunista. Non è poco per un protagonista come Pucci stare sulla breccia di tutti questi avvenimenti, che egli ha cavalcato con la baldanza, ma anche con l'onestà intellettuale e coerenza che sempre hanno contraddistinto la sua azione sia nel campo politico che in quello religioso.
E ora Pucci ci regala questo nuovo libro, che potremmo chiamare di memorie, vista anche la ricchezza della bellissima documentazione fotografica, ma che così — a mio modesto parere — è solo apparentemente: perché le memorie di Pucci sono frammiste a riflessioni, commenti, attualizzazioni e considerazioni sulla vita e sulla decadenza d'oggi che fanno piuttosto, del Natio Borgo Selvaggio una costellazione di ricordi, di riflessioni e di idee rivolte al passato ma con l'occhio al futuro. Una costante di tutta quest'ultima fatica di Pucci è il ricorrente pensiero dell'Autore sui bambini di ieri e di oggi, questo per sottolineare l'importanza che l'educazione degli adolescenti ha avuto e ha nella vita dell'Autore non solo come docente ma anche come uomo pubblico e politico. Perciò, non solo per rimanere nel campo della vita e della poesia leopardiana da cui il titolo del libro prende spunto, ma anche pera la sostanziale ragione contenutistica che ho detto, preferirei assegnare quest'opera non al genere semplicemente cronachistico quanto a quello dello "zibaldone" inteso in senso tecnico come raccolta estemporanea e solo apparentemente casuale di pensieri e ricordi che però si tengono nel filo logico intellettuale e culturale del vissuto dell'autore.
Quindi col Natio Borgo, non sono i ricordi che "fanno" il libro, ma i ricordi sono il mezzo per far emergere i connotati spirituali e culturali dell'Autore. Infatti la scansione temporale dei luoghi, dei volti, dei personaggi, degli eventi — pur importante per classificarli nella loro storicità — non però determinante rispetto al messaggio. E i messaggi sono tanti, e tutti per così dire "elevano" il racconto sul piano della riflessione e della rimembranza, non quindi del mero ricordo: è il caso del ricordo delle varie feste della Vittoria del 4 novembre celebrate con fasto di autorità locali e di bancarelle di dolci vari ma che si accompagna alla amara considerazione che fu la gran loggia massonica a volere una guerra contro la cattolica Austria, che mandò al massacro centinaia di migliaia di giovani. O quando racconta il valore della politica in una persona come Giuseppe Paladini, personaggio noto anche a Firenze e amico della famiglia Cipriani. E quel parlare dei rosari recitati non solo dalle donne ma anche dagli uomini alla fine della giornata di lavoro, al desco fiorito degli occhi dei bambini: non si tratta solo di rimpianti del tempo che fu, qui siamo di fronte ad un amico che ci passa la parola per il futuro, un nodo estremamente di essere "tradizione vivente".
Nel Natio Borgo si apprezzano anche gli aspetti letterari di un Autore che ama soprattutto Pascoli, Carducci, i crepuscolari, Gozzano, Corazzini e anche qui è un riproporre all'attenzione di chi ha la responsabilità dell'educazione scolastica, di tutto un filone che ha cantato la famiglia, la patria, la morte, il dolore e il pianto e anche il valore nazionalista e che ora viene sorvolato, ignorato o addirittura deriso. Oggi c'è il pensiero unico che obbliga tutti a star bene, a far finta che il male non esista e comunque isolarlo quando succede. Un pensiero unico e laicista che purtroppo è riuscito, almeno apparentemente, a far piazza pulita non solo dei ricordi del passato ma anche di quell' ordine alla sequela di Cristo di cui parlava Mordini.
E ora, come ultimo cenno al Pucci Cipriani politico, credo che il miglior modo di riassumerlo sia ricordare quel scriveva a proposito della democrazia il cattolico reazionario francese Barbey d'Aurevilly (1808-1889):
"Vi è forse qualche cosa di più rivoltante e disgustoso per le anime nobili e fiere, di quei sistemi di governo a far parte dei quali nessuno è scelto per il suo personale valore, ma per il valore che non ha ? Vi è nulla di più ripugnante per un uomo che si sete scorrere un sangue generoso sotto l'unghie, d'uno stato di cose pel quale viene portato sugli scudi il primo venuto, come la scimmia sulla groppa del delfino? Non v'ingannate! Questa è l'essenza della democrazia, aver tra mano delle marionette che si posson buttar nel sacco quando si è tagliato loro il filo" Consoliamoci invece, caro Pucci, di fronte a questo impero democratico e nichilista che stiamo vivendo, ricordando quel che scriveva nemmeno troppi anni orsono il grande filosofo reazionario Romano Amerio nel suo Zibaldone: 'Il celebre motto di Cavour: «Libera chiesa in libero Stato» viene inteso come una formulazione di libertà, mentre è una formulazione di autocrazia. Si crede cioè che la Chiesa sia nello Stato mentre la Chiesa è una società assolutamente indipendente che ha in se stessa tutti i mezzi per sussistere e non è una parte dello Stato. L'errore di fondo è che lo Stato sia la società di tutto il genere umano e contenga in sé e subordini tutte le altre società. Invece lo Stato è una società particolare e la Chiesa, la famiglia, la corporazione sono società perfette senza dipendenza alcuna ".
E preghiamo perché, in qualche modo, quest'ordine possa venire restaurato.

Firenze, 8 aprile 2017

Giovanni Tortelli

mercoledì 5 aprile 2017

Video riassuntivo del 30° Incontro della Tradizione Cattolica (Civitella del Tronto, 2017)



Video riassuntivo del 30° Incontro della Tradizione Cattolica presso l'Hotel Fortezza di Civitella del Tronto, 10-12 marzo 2017. Presentazione complessiva delle tre giornate. Interviste a Pucci Cipriani, Ascanio Ruschi e Don Mauro Tranquillo. Scene dalla "Via Crucis" notturna (10 marzo) e dalla processione mattutina alla fortezza (12 marzo); la giornata dedicata alle conferenze, sabato 11 marzo, è disponibile in due video.

martedì 4 aprile 2017

Presentazione di Massimo de Leonardis al libro "Dal natìo Borgo selvaggio" di Pucci Cipriani

Presentazione

Conoscevo di fama Pucci Cipriani ancor prima di incontrarlo. Il suo nome figurava come Editore di un libro assai importante, uno dei migliori e fondamentali pubblicati sull’argomento, F. Giantulli s.j., L’essenza della Massoneria italiana: il naturalismo, apparso nel 1973. Entrammo in contatto e per alcuni anni ricevetti sempre una sua cartolina da Civitella del Tronto, dove dal 1969 organizzava un incontro che era nato come omaggio agli ultimi difensori del Regno delle Due Sicilie per crescere poi fino a diventare il più importante appuntamento periodico dei Tradizionalisti italiani. Nel 1987 iniziai a parteciparvi e a tenervi relazioni. La conoscenza si approfondì e divenne profonda amicizia. 
Nel 1988, sul modello dell’analogo comitato francese, Pucci promosse la costituzione dell’Anti 89, per organizzare le (contro)celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione Francese, e iniziò le pubblicazioni di Controrivoluzione, rivista giunta ormai al 125° numero, con molti supplementi, tra i quali gli Atti di diversi convegni di Civitella. 
Nel non sempre lineare mondo del tradizionalismo italiano l’opera di Pucci Cipriani spicca per coerenza e continuità. Non nostalgismo un po’ folkloristico, non papismo servile e opportunistico fino al tradimento della Tradizione, ma una limpida battaglia per il Trono e l’Altare, la Croce e la Corona. In particolare mi piace ricordare che Controrivoluzione non ha mai tentennato nella devozione verso il grande difensore della Fede Mons. Marcel Lefebvre e nel sostegno alle sue opere.
Dopo il Pucci Cipriani editore, scrittore politico, organizzatore di eventi, giornalista di rara efficacia, negli anni più recenti ho conosciuto meglio un altro aspetto della sua personalità, quello di letterato e memorialista, cantore di una Toscana “diversa”, come recita il titolo del suo volume del 2005: L’altra Toscana - Diario di un Conservatore.
Di tale opera questa costituisce l’ideale continuazione, alla riscoperta di un mondo di ieri (e l’altro ieri) che rischierebbe altrimenti di essere coperto dall’oblio. La descrizione di quel mondo non è un esercizio nostalgico o sdolcinato di rievocazione del passato. È la dimostrazione che una civiltà cristiana è esistita non solo sui libri e nelle grandi realizzazioni ma anche nella vita vissuta di ogni giorno, scandita dai rintocchi delle campane e dai tempi della preghiera. Una società di cattolici “non adulti”; ma, come dice l’Autore «c’è più teologia in queste due poesie per bambini delle elementari che non in mille discorsi del pretume attuale che si arrampica sugli specchi per dire certe cose».
Non sarò mai capace di scrivere pagine così toccanti e poetiche come quelle di Pucci, ma i mei ricordi di fanciullezza, sia pure in un ambiente così diverso, la metropoli milanese e non Borgo San Lorenzo, sono in qualche caso simili. Anch’io da ragazzo nelle strade nel mio quartiere incontravo frati che mi salutavano con «Pace e bene» o «Sia lodato Gesù Cristo», non «buongiorno», «buonasera» o «buon pranzo». 

Massimo de Leonardis
Ordinario di Storia delle Relazioni Internazinali
Direttore del Dipartimento Studi Giuridici
dell’Università Cattolica di Milano