venerdì 24 febbraio 2017

PELOSINI E IL MAESTRO DOMENICO (di Ascanio Ruschi)

Il nome di Narciso Feliciano Pelosini è oggi sconosciuto ai più. Eppure egli fu, nella seconda metà dell’ottocento, una figura di un certo rilievo, a livello toscano e anche nazionale, sia come politico, che come avvocato, ma anche come uomo di cultura e letterato. Oggi grazie alla preziosissima opera dell’editore Marco Solfanelli si deve la riscoperta della sua opera maggiore, e più conosciuta, il “Maestro Domenico” appunto.
Ma chi era il Pelosini? Narciso Feliciano – questi i nomi di battesimo – nasce a Fornacette di Calcinaia, provincia di Pisa, nel 1833, da una famiglia benestante, ma certamente non ricca e non nobile. Instradato alla vita ecclesiastica nel seminario di Montepulciano, scopre ben presto di non avere la vocazione sacerdotale (un fratello invece si farà prete), e si iscrive all’Università di Pisa per studiare diritto. Si laurea all’Università di Siena nel 1854, non prima di aver dato alle stampe una prima raccolta di poesie, dal titolo “Poesie italiane”. Già dal titolo dell’opera, si evince il clima culturale e sociale in cui è immerso il Pelosini. Di cui egli stesso risente. Pisa è al centro dei fermenti unitari, e certamente il Pelosini non è estraneo a questo fermento politico. Infatti in questo periodo entra in contatto con i circoli culturali di tendenza liberale, grazie ai quali conosce e stringe amicizia, tra gli altri, anche con il Carducci, il quale lo ricorda nelle sue memorie come un “giovane d' idee avanzate, non fervente cattolico come dipoi”.
Dopo una breve parentesi di docenza alla scuola di Scienze Aziendali di Firenze “Cesare Alfieri”, ove insegna diritto penale, si dedica definitivamente alla professione forense. Grazie alla sua ars oratoria, alla battuta pronta e sagace, diviene in breve un avvocato piuttosto conosciuto anche oltre i confini toscani, e partecipa ad importanti processi, arrivando anche a difendere Giacomo Puccini. Peraltro l’episodio è spassosissimo: il Puccini, era un appassionato cacciatore, e si recava spesso in riva al lago di Massaciuccoli a sparare nella riserva del Marchese Ginori Lisci, col permesso del proprietario ovviamente. Se non che, con l’aiuto di un boscaiolo del posto, iniziò ad andare di frodo, fino a che una sera non fu fermato da due carabinieri. Instaurato il giudizio per il reato di caccia di frodo e porto d’armi abusivo avanti al Pretore di Bagni San Giuliano, il Pelosini ne assunse la difesa, e con un’accorata arringa difensiva, nella quale sostenne che non essendo stato trovato il corpo del reato, e cioè l’anatra contro cui il colpo di fucile del Puccini era diretto, mancava la prova del fatto, e che il suo assistito si era recato in riva al lago solo per provare delle nuove cartucce per il fucile. Fu così che il Puccini fu assolto. In cambio, oltre ad un lauto pranzo offerto, il Pelosini ricevette in regalo uno spartito con dedica autografa dell’illustre musicista.
Ma torniamo alla vita del Pelosini. Intorno agli anni sessanta egli si riavvicina al cattolicesimo e assume posizioni sempre più critiche nei confronti del liberalismo e dell’unificazione. Evidentemente gli avvenimenti cui egli assiste, lo influenzano fortemente, tanto da fargli rivedere le sue posizioni di liberale moderato. Questo periodo di forte conversione e di critica al liberalismo, culmina nel 1871 con la pubblicazione – a proprie spese - della “fiaba” Maestro Domenico, che stasera abbiamo il piacere di presentare. L’opera, apertamente antirisorgimentalista, da’ il via a nuovi contrasti con il Carducci e con i circoli liberali toscani. Contrasti che, anche a causa del carattere piuttosto burbero e oltremodo schietto del Pelosini, negli anni successivi si acuiranno sino ad una rottura netta.
Tra il 1882 e il 1890 è per due volte Deputato nel gruppo della Destra, e poi diviene Senatore del Regno; in tale ambito la sua attività politica è principalmente orientata nella riforma del diritto penale. Muore a Pistoia nel 1896, ove si è ritirato nell’ultimo periodo, profondamente sfiduciato per l’evoluzione, o meglio l’involuzione, della società italiana post unificazione.
Tratteggiata così brevemente la vita del Pelosini, se ne ricava una figura piena di sfaccettature, variegata, complessa nei modi ma schietta e sincera nei pensieri. Certamente egli non fu un pensatore della Restaurazione, uno strenuo difensore legittimista, un esponente di quel connubio tra Trono e Altare che ispirò tanti intellettuali ottocenteschi. Ma questa particolarità non lo rende meno interessante, anzi. E proprio questo suo percorso, intellettuale e religioso, dal liberalismo a posizioni più tradizionalmente orientate, ne fa una figura di rilievo, e degna di attenzione.
Il percorso di conversione, e la radicalizzazione della critica risorgimentalista, ci fanno capire come il Pelosini si trovò a confrontarsi con la realtà, che evidentemente non era quella tanto vagheggiata e auspicata da chi si era fatto promotore dell’unificazione. Egli si mosse lungo binari di assoluto realismo, scevri di connotati ideologici, anche se ovviamente pieni di idealità e di sentimenti. Il riavvicinamento al cattolicesimo più profondo, gli permise di aprirsi ad una visione della societas tradizionalmente orientata, fondata sui sani principi cristiani del buon vivere e dell’unicuique suum.
Egli da liberale moderato, non ostile per partito preso al processo di unificazione, si spostò su posizione politiche di difesa delle piccole patrie, fondate sulla comunione delle credenze e degli affetti. Non una idealizzazione del bel tempo che fu (inteso come luogo astratto, come aveva fatto l’illuminismo con la teoria del buon selvaggio), bensì la concreta e triste constatazione che l’invenzione dell’Italia risorgimentale aveva distrutto quel collante fondamentale costituito dall’appartenenza alla stessa terra (la Toscana lorenese e granducale) e alla stessa fede, così come trasmessa dalla Chiesa Cattolica. Quel che descrive il Pelosino, e soprattutto quel che egli contesta, è frutto dell’esperienza diretta, di chi addirittura, in quegli anni tormentati, fu protagonista della vita culturale toscana e poi di quella politica nazionale. Un osservatore dunque assolutamente in medias res, testimone oculare di quella rivoluzione politica e sociale della seconda metà dell’ottocento.
Egli contesta alacremente la “Nuova Italia” fatta di repubblicani anticlericali, di massoni e di politicanti di mestiere che aveva portato alla caduta di Roma e alla fine dello Stato della Chiesa. La descrizione del tempo che fu che il Pelosini fa in una lettera dedicatoria al Guerrazzi – anch’egli uno dei grandi delusi del post risorgimento -, è mirabile: “Erano buona gente que’ nostri vecchietti della campagna toscana. Avevano de’ pregiudizi, e di molti; crescevano ed invecchiavano un po’ alla carlona: ma il cuore era buono, il costume severo, la vita semplice, tranquilla ed agiata (…). Lavoravano per sé e per i figliuoli: davano ordine alle cose della famiglia e del Comune; temevano più Dio del Codice penale; e, ignari anco del nome non che dell’ufficio e degli arnesi del boia, lasciavano inoperosi gli sbirri ed i carcerieri”. Ecco dunque i principi immortali ai quali si richiama il Pelosini, e che sono poi quelli sostanzialmente espressi dal Maestro Domenico.
Come nota opportunamente Gianandrea de Antonellis, che ha curato l’introduzione del libro, “il racconto Mastro Domenico costituisce dunque un interessante contributo letterario alla causa tradizionalista con un sostanziale rifiuto dell’Unità italiana, almeno nei termini e nelle modalità con cui essa è stata realizzata: con pochi tratti Pelosini mette bene in evidenza il contrasto tra la semplicità dell’antico costume ed il materialismo dell’era unitaria, riuscendo a far intendere ai propri lettori il senso della caduta da un magnifico passato fatto di pratiche religiose, sano lavoro e culto della famiglia ad un presente che consiste in un caos organizzato, frutto di una rivoluzione in cui si intersecano furbizie e accaparramenti tra lusso e utilitarismo. Così il racconto diventa messaggio e denuncia: vengono passati in rassegna l’oppressione del potere, la stoltezza della burocrazia, la superficialità della stampa, l’inettitudine della politica, la volgarità dei costumi, la diffamazione della religione”.
Il racconto, non privo di elementi autobiografici (si pensi al padre del Pelosini, che come il protagonista della fiaba, svolge al contempo l’attività di artigiano e quella di insegnante) sembra rispecchiare il travaglio interiore dei cattolici italiani che, assopitisi nel periodo della Restaurazione, non si erano resi conto che nel frattempo il potere temporale della Chiesa era andato distrutto. E’ ben rappresentato lo sbalordimento e la pena di chi assistette, impotente, a così rapide mutazioni di eventi, che solo pochi anni prima parevano impossibili. Travagli e sbalordimenti che, probabilmente, furono dello stesso Pelosini.
Leggendo il racconto, mi è venuto in mente un parallelo con i nostri tempi moderni. Ed in particolare mi riferisco la periodo del ’68, la quarta rivoluzione (come dice il Del Noce), quella dei costumi, e come tale, ancorché rivoluzione, non violenta ma non meno devastante.
Rivoluzione che tanto modificò i costumi e le idee dell’occidente. Una società che cambiò repentinamente, in mentalità e atteggiamenti, in opinioni e usanze, che solamente pochi anni prima erano considerati tabù. Nessuno aveva avuto la premonizione di tale rivoluzione: gli echi di tali cambiamenti, in Italia, erano lontani, venivano da oltreoceano, ma non sembravano tali da far breccia nella compassata società del dopoguerra. Forse, un attento osservatore, dagli esiti del Concilio Vaticano II, conclusosi nel 1965, avrebbe potuto presagire la tempesta rivoluzionaria che presto si sarebbe abbattuta sulla società italiana. Una Chiesa che, per una volta antesignana delle svolte epocali, volle rompere con il passato, ed in nome di una nuova fiducia nell’Uomo, ritenne che quanto sino ad allora detto e predicato non doveva essere più detto e predicato. Si proclamò la nuova fiducia nell’Uomo, un uomo che si fa Dio.
Ma cosa avrebbe detto e pensato, un novello Maestro Domenico, addormentatosi alle soglie del ’68 e risvegliatosi qualche anno dopo? A mio avviso avrebbe sicuramente fatto ancor più fatica a riconoscere il proprio mondo. Quantomeno, nel secolo diciannovesimo, possiamo essere sicuri che la Chiesa, anche se attaccata da più fronti, era ancora un baluardo e un faro, cui ricorrere nei momenti di difficoltà. Oggi purtroppo, assistiamo ad una confusione generalizzata, e la Chiesa, pur sempre Sposa fedele di Cristo, pare scossa da scandali e da istanze interne che ricordano i tempi bui delle eresie. Viene quasi voglia di fare come il Maestro Domenico, e appisolarsi dolcemente all’ombra di un albero, e sperare di svegliarsi in un altro mondo.
Ma fino a che il Signore non ci chiamerà nel Suo Regno, il nostro compito rimane quello di combattere la nuova battaglia, rimanere fedeli e coerenti, e vivere, come faceva il Maestro Domenico, “da buon cristiano e da galantuomo di stampo antico”.

Ascanio Ruschi

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