giovedì 14 marzo 2024

Presentazione: "Da Barbiana al Forteto. Don Milani e il Donmilanismo" (Firenze, 19/03/2024)




Giunto in poche settimane alla seconda edizione il libro "Da Barbiana a Bibbiano. Don Milani e il Donmilanismo" (Edizioni Solfanelli), a cura di Pucci Cipriani e Ascanio Ruschi, con la prefazione dell'Onorevole Vito Comencini, verrà presentato a Firenze il giorno martedì 19 marzo 2024 (Festività di San Giuseppe), alle ore 17:00, presso "Città Metropolitana di Firenze" - Palazzo Medici Riccardi, via de' Ginori n. 8 (Saletta Oriana Fallaci).
Interverranno (alla presenza degli autori, dopo il saluto dei Consiglieri Alessandro Scipioni, Claudio Gemelli e Alessandra Gallego Bressan) il prof. don Stefano Carusi (Docente di Teologia Dogmatica e Direttore di "Disputationes Theologicae") e l'on. dott. Vito Comencini.
Tutti sono invitati. Vin d'honneur per i presenti. Frittelle di San Giuseppe per tutti.

* * *

L'appuntamento per coloro che, dopo la presentazione, insieme ai curatori del libro e agli oratori, vogliano partecipare alla consueta riunione conviviale sono pregati di prenotarsi (entro il lunedì 18 alle ore 18:00) presso avv.ruschi@libero.it (tel 3494657869) oppure pucciovannetti@gmail.com  (tel 3339348056).
La quota di partecipazione è fissata per euro 30,00 con grande e ricco menù toscano (chi ha partecipato altre volte sa bene di cosa si tratta). Un'occasione per decidere se segnalare alle prossime elezioni alcuni amici, a noi vicini e che si sono distinti per le loro battaglie contro il pensiero unico e in favore della vita e della famiglia e che si candideranno alle prossime elezioni.
Vi aspettiamo numerosi.

mercoledì 7 dicembre 2022

Instaurare omnia in Christo (di Giovanni Tortelli)



C’è un Io lirico che attraversa tutte le opere di Pucci Cipriani, specchio della sua stessa essenza di uomo che gli permette di vivere la vita con l’entusiasmo del giovane, con la lucida cognizione del saggio e con la perseveranza del forte.

Se poi il lirismo di Pucci Cipriani è per sua natura inscindibilmente connesso alla religiosità convinta del christifidelis, possiamo concludere che tutta la vita del professor Pucci Cipriani è la testimonianza stessa dei valori assoluti dell’autentico cattolicesimo romano.

Quest’ultimo saggio (Pucci Cipriani, La Messa clandestina, “Mira il tuo popolo”, Solfanelli 2022) - che l’Autore ci regala nell’imminenza di questo Santo Natale, nella solennità dell’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, che cambiò il senso della storia dell’uomo - traluce dei valori assoluti vissuti da Pucci e che egli ci trasmette con generosità, un insegnamento dal quale ciascuno di noi potrà trarre la propria lezione ma di cui dobbiamo fin d’ora essergli riconoscenti: una lezione di fede autentica vissuta sul luogo stesso del Sacrificio, cioè sull’altare nella Santa Messa di sempre; una lezione di fede assoluta nella missione salvifica della Santa Chiesa apostolica romana come unica depositaria della Rivelazione; una lezione di fede cattolica nell’ordine della creazione e quindi nella gerarchia «mensura, numero et pondere» (Sap. 11,20) di tutte le cose; una lezione di culto nel paschale sacramentum della liturgia perché nel culto, e solo nel culto liturgico, il cattolicesimo possiede e conserva integra la sua complessa unità. Nella teologia il cattolicesimo possiede la sua dottrina, ma nel culto liturgico il cattolicesimo possiede tutto se stesso.

Questo di Pucci Cipriani è appunto un saggio liturgico. Non dico la lettura, che pure è esaltante, ma la sua attenta comprensione e meditazione è già un’orazione di lode e di ringraziamento al Signore.

Voglio dire che con questo libro, Pucci Cipriani ci consegna un chiaro invito ad adorare Nostro Signore in tutte le cose.

La liturgia corre parallela al tempo, non a caso si parla di “tempi liturgici”, e come dicono Giovanni Pallanti nella bella presentazione e Ascanio Ruschi nella sua eloquente prefazione, il tempo, legato ai mesi e alle stagioni dell’anno, è il grande protagonista di queste pagine. Purché si concepisca questo tempo come tempo religioso, la vera chiave di volta per comprendere - e dare il senso proprio che loro compete - alle memorie scelte dall’Autore per queste pagine.

Pucci Cipriani ci introduce dolcemente nel mistero cristiano della vita quotidiana, nel mistero cristiano che è soprattutto mistero liturgico che ammanta e ordina tutte le cose, perché solo attraverso la liturgia - che la Tradizione ha affidato alla Chiesa - possiamo veramente trovare la via della salvezza indicataci dal Signore: Instaurare omnia in Christo.

In queste pagine la mente umana abbraccia la vastità del piano di Dio e su questo piano si dispiegano i ricordi e i valori assoluti di fedeltà e di amore alla Chiesa che Pucci ci ha trasmesso in tutte le sue opere, soprattutto con la testimonianza della sua vita. Qui i ricordi sono come i grani di un rosario che l’Autore recita con la fede tranquilla di chi osserva le cose sotto il segno della divina carità.

 Sfilano davanti ai nostri occhi e al nostro cuore i ricordi di Camerino “la bella”, con l’importanza di ritrovarsi in un sodalizio fra anime elette, “a difesa della Santa Messa tradizionale, la Messa nel rito romano antico, la Messa di sempre e di tutti”, col regalo di incontri che sembrano annullare il tempo: l’elegantissima Contessa simbolo di una nobiltà mai sfiorita e dell’ininterrotta Tradizione che perpetua i suoi valori; i figli di Giovannino Guareschi, Carlotta e Alberto, il presente che testimonia il passato recente; i due studenti Stefano e Manlio, una promessa per il futuro, che si è mantenuta, di anime chiamate alla conservazione del patrimonium fidei. E ancora i ricordi, insieme alle incursioni in una cultura letteraria e storica che non è mai secca erudizione e che il professor Cipriani mostra di maneggiare con la calma sicurezza del maestro, da cui trapela quell’Io lirico che dà vera vita al rapporto religioso fra il protagonista e tutte le cose.

Borgo San Lorenzo, l’amato borgo natìo. Quel giovane studente camerte, oggi sacerdote, regala ai fedeli convenuti alla Villa “Gli Ochi”, quell’assaggio di Paradiso – così lo chiama l’Autore, ed è vero – che è la Messa solenne in rito romano antico. La delizia dei luoghi si incontra con l’Autore della Creazione in un mirabile connubio di Grazia e di Natura.

Da qui il titolo del saggio: una Messa per pochi, quasi catacombale, lontana dagli edifici di culto ufficiali dai quali è purtroppo bandita da sessant’anni, da quella disgraziata riforma liturgica che volle la protestantizzazione del rito a fondamento della Chiesa. È nella Messa di sempre che la Chiesa trova e ha sempre trovato la sua essenza identitaria.

Da qui, l’occasione per parlare delle “Insorgenze” in terra di Mugello scoppiate fra il 1796 e il 1799 contro le truppe francesi è ghiotta, e il professor Cipriani non se la lascia scappare: quadri e scenari di una religiosità campestre che si tradusse in difesa della propria confessione cattolica, a monito per tutte le generazioni, soprattutto per quel piccolo resto delle generazioni future, a cominciare da quelle attuali, che lo sapranno cogliere. Un lavoro oltretutto meritorio, quello di Pucci Cipriani, ché altrimenti tante memorie locali sarebbero cancellate dai libri di storia.

“Cacciati i francesi – ma presto ritorneranno! – si fece festa nel Mugello e nella Val di Sieve. La popolazione si riversò nelle chiese dove vene cantato il Te Deum di ringraziamento e aretini e popolani della terra di Giotto e dell’Angelico ringraziarono anche la Madonna del Conforto …”. Come si vede, non solo la natura con le sue bellezze della Creazione, ma anche la storia si riconnette alla liturgia, ed è logico: la venuta di Gesù Cristo segna la fine dei tempi e tutte le cose, anche la storia, hanno origine e fine in Lui e a Lui vanno ricondotte, perché Cristo è la vita del mondo e tutto il mondo e tutta la storia vivono il mistero di Cristo come un mistero pasquale, cioè come un “passaggio” dalla legge alla libertà, dalla morte alla vita, dalla terra al cielo.

Semplicemente commovente il resoconto della visita della Madonna di Fatima a Luco di Mugello, le parole dell’Autore riescono a rendere perfettamente l’atmosfera di festa ma anche di commozione che colpiva tutti quelli che ammiravano quella santa immagine incoronata. Tutta la campagna, e poi le strade di Luco e la chiesa festante risuonava di “Ave Maria!” e di inni alla Vergine Madre. La folla faceva ressa per entrare dentro la chiesa e davanti ai confessionali sostavano file di fedeli in attesa del proprio turno. Quale miracolo più grande poteva fare Maria se non quello di spingere i suoi figli prediletti a chiedere perdono e a riconquistare la perduta Grazia, segno della potenza rigenerante e salvifica che la Chiesa elargisce ai suoi fedeli tramite i segni liturgici della penitenza, della lode, del ringraziamento e dell’impetrazione.

Libro prezioso, questo di Pucci Cipriani, per darne conto in qualche modo in una recensione dovremmo soffermarci su ogni singolo capitolo, su ogni singola pagina, sui rimandi letterari, di storia nazionale e locale, sulle curiosità, che le annotazioni dell’Autore offrono abbondanza. Dalle campane del campanile longobardo di Borgo san Lorenzo, all’importanza liturgica delle campane, annunciatrici di gioie e dolori, di nascite e di morti: “Quanto più bello e umano dunque non nascondere la morte, ma anzi annunziarla col suono delle campane come fa quel mio caro amico, il parroco di San Donato in Poggio (…) che, con il triste rintocco suono delle campane ripetuto più e più volte, durante il giorno, quando scompare uno dei suoi parrocchiani, sembra far catechismo e ricordare a tutti che, dopo la morte, che chiede silenzio e rispetto, le campane suoneranno l’Alleluia nel giorno della Risurrezione del Signore”.

E come non soffermarci poi sull’importanza delle rogazioni che un tempo si svolgevano con processioni in mezzo ai campi il 25 aprile e nei tre giorni precedenti l’Ascensione. Una preghiera semplice, spontanea, prevista e regolata dalla Chiesa, un innesto di fede nella natura campestre, un connubio felice fra liturgia cattolica e sensus fidei del popolo, anch’esse un modo naturalmente sublime di Instaurare omnia in Christo.

Come non ricordare poi, fra gli spunti offerti da questo libro straordinario di Pucci Cipriani, l’illustre mugellano Tito Casini, non solo l’autore del celebre saggio La Tunica stracciata, ma anche il fondatore – insieme ai “cattolici belva” Domenico Giuliotti e Giovanni Papini – dell’altrettanto celeberrima rivista Il Frontespizio.

Esattamente come il professor Cipriani, anche il professor Tito Casini descrisse il mondo e la vita rurale come baluardo della cultura cattolica nei confronti del laicismo che avanzava. Esattamente come Pucci Cipriani, anche Tito Casini usò quella lingua musicale e scintillante che forse i neonati mugellani acquisivano succhiando il latte materno. Entrambi questi illustri figli del Mugello, con le loro opere, hanno messo in luce qual è il male spirituale odierno, cioè quella che Romano Amerio chiamava la “de-adorazione”: “Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza”.

Esattamente quello che Pucci Cipriani ha fatto in ogni pagina di questo splendido libro e nella sua stessa vita, adorando Dio nella Messa cattolica di sempre egli ha portato dentro l’adorazione anche tutto il resto del mondo. Con la riverenza, il rispetto, il tremore e la tenerezza religiosa dell’autentico cattolico.

 

 

Giovanni Tortelli

martedì 6 dicembre 2022

Recensione a “I padrini dell’Italia rossa” di Roberto de Mattei

L’opera storiografica di Roberto de Mattei si arricchisce oggi del nuovo e prezioso saggio che il Professore dedica al decennio dagli anni Settanta agli anni Ottanta del secolo scorso (Roberto de Mattei, I padrini dell’Italia rossa, Solfanelli, Chieti 2022, collana Interventi).

Si tratta di una raccolta di sei articoli, scritti dal dicembre 1975 all’aprile 1979 da un Roberto de Mattei poco più che trentenne, che colpiscono per la profondità e la compattezza dell’analisi politica, per la lucidità e la fondatezza delle tesi esposte, per la maturità e la conoscenza dello scacchiere politico interno e internazionale, ma anche per il coraggio del loro Autore, capace di alzare una voce già autorevole, critica e controcorrente di fronte a un’opinione politica uniforme e piatta, poco o punto abituata agli scenari presentati in quegli articoli.

 Quelli fra il Settanta e l’Ottanta furono anni complessi e sofferti per la politica interna italiana, apparentemente autoreferenziale e immobilista ancorché sorniona, in cui i nomi di Moro, Andreotti, Leone, Fanfani, Forlani, Cossiga, Nenni, La Malfa, Almirante, Berlinguer, parevano dover riempire l’universo politico nazionale e non solo, ondeggiante fra estenuanti crisi extraparlamentari che minavano la stabilità dei governi, svuotavano le prerogative del Parlamento e assegnavano un potere fuori controllo alle segreterie dei partiti, veri centri di potere capaci di determinare la vita o la morte di interi esecutivi grazie a un pugno di voti.

Eventi politici di rara gravità per la Repubblica dovevano però accadere proprio in quel decennio, iniziato con opachi collegamenti fra le istituzioni, tensioni fra i Poteri, misteri e segreti di Stato veri o artefatti, gran parte dei quali ancor oggi insoluti o coperti. Dovevano accadere eventi straordinari e dolorosi per tutto il Paese, che avrebbero imposto scelte istituzionali altrettanto dolorose.

Fu un decennio di stragi, aperto nel 1969 dalla più emblematica di tutte, quella di Piazza Fontana a Milano, e poi Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 e la strage alla stazione di Bologna nell’agosto 1980. Nel mezzo di quegli anni, l’approvazione della legge sul divorzio nel 1974 e quella sull’aborto nel 1978, le prime e forti tensioni fra la politica e la magistratura, i tentativi destabilizzanti di una parte deviata dei Servizi segreti insieme al ruolo onnipresente della Massoneria e in specie della Loggia P2 di Licio Gelli, e poi il caso Lockheed, le dimissioni del Presidente Leone, fino all’assassinio di Aldo Moro e alla lunga scia di sangue delle Brigate Rosse, che costituiscono il sigillo politico e morale di un Paese per la prima volta seriamente provato nei suoi valori civili.

È naturale che in quegli anni il mondo guardasse fisso agli affari interni italiani, ogni atto della politica interna aveva riflessi internazionali, niente di meno se si parlava di far entrare il Partito comunista nell’area di governo, considerata la fedeltà all’atlantismo garantita da sempre dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati di centro e la sudditanza politica e morale del comunismo italiano verso quello sovietico.

 Il Partito comunista di allora, guidato da Enrico Berlinguer, forte di dodici milioni di voti alle politiche del 1976 era stabilmente secondo in Europa dopo quello sovietico, e proprio per la consapevolezza di questa sua forza era sempre più insofferente per quella conventio ad excludendum da ogni compagine governativa nazionale alla quale lo aveva condannato lo sbarramento centrista della Democrazia cristiana e dei suoi alleati minori.

Il contesto politico stava però già cambiando, e gli articoli di de Mattei ce lo spiegano molto bene, sia in Italia che nel mondo si stavano muovendo dietro le quinte quei “padrini” dell’Italia rossa da cui il titolo emblematico del presente saggio.

Un nuovo vento stava spirando sia sulla politica interna italiana che su quella internazionale, le grandi forze economiche e finanziarie alla guida dei destini politici del mondo stavano riposizionandosi dopo un intervallo durato dalla fine della seconda guerra.

Chi erano questi “padrini” che a un certo punto vollero un revirement così profondo della politica non solo italiana verso i comunisti nostrani, ma della politica internazionale verso le forze più progressiste del mondo intero? L’Autore ci spiega che queste forze non erano altro che le punte di diamante dell’altissima finanza internazionale, capaci di larghe influenze anche sui destini politici di Stati e Governi, forze di élite che prepararono e aprirono in Italia alla possibilità di cooptazione del Partito comunista di allora come forza di governo nazionale, in linea con un generale appoggio ai regimi progressisti del mondo, più sensibili a un cambiamento tecnologico e tecnocratico.

In altre parole si pianificò - da parte dei potentati economici e finanziari più esclusivi del mondo - una politica progressista “controllata” su scala mondiale, finalizzata alla realizzazione di una sorta di «repubblica universale» fondata sui nuovi valori di una democrazia limitata dalla supremazia tecnologica e tecnocratica di una ristretta classe dirigente al potere.

Con sorprendente lucidità, in quegli articoli Roberto de Mattei spiegava che in tutto ciò non vi era alcuna contraddizione. Che alta finanza e comunismo potessero dialogare con reciproche soddisfazioni non doveva scandalizzare, era già successo con la Rivoluzione d’ottobre finanziata in gran parte dal capitalismo germanico. Supercapitalismo e comunismo hanno infatti il medesimo obiettivo di eliminare la proprietà privata: i comunisti come tappa necessaria per arrivare alla dittatura del proletariato; l’alta finanza per creare un nuovo tipo di società tecnologica manovrabile e controllabile da una ristrettissima élite di potere, i tecnocrati. Naturalmente ciò non poteva avvenire dalla sera alla mattina ma tramite un percorso di avvicinamento fra sistemi economici avversi, percorso che fu individuato negli istituti bancari di prima importanza, giudicati idonei apripista per intese di integrazione sempre più larghe e proficue in ogni campo fra sistemi capitalisti e sistemi comunisti.

Così le Banche, sempre più multinazionali e sempre meno ideologiche, potevano cominciare a incontrarsi per affari sempre più in larga scala coi partners oltrecortina, e con ciò fare ponte per la politica.

Accanto alle banche, operavano già consessi come l’anglo-americano Council of Foreign Relations, il trans-nazionale Bilderberg Club o in Italia l’Istituto Affari Internazionali fondato da Altiero Spinelli, come delle vere e proprie sponde di una politica riservata se non occulta, ad altissimi livelli, lontana dai riflettori dei media e quindi assolutamente libera da controlli. A distanza di più di quarant’anni da quegli articoli di Roberto de Mattei, e il professor de Mattei quarant’anni prima di tutti noi, si accorgeva e scriveva che “pugni di uomini simili per interessi e prospettive, manovrano gli avvenimenti da posizioni invulnerabili dietro le quinte”.

I primi abboccamenti fra l’altissima finanza anglo-americana e i comunisti italiani (grazie anche all’anello di congiunzione della Famiglia Agnelli), potevano dirsi contemporanei a un generale ripensamento dell’alta finanza nei confronti del progressismo mondiale. L’Autore ne dà prova, nel suo articolo del gennaio 1977, a proposito dell’elezione del democratico Jimmy Carter alla Presidenza degli Stati Uniti, favorita dal formidabile appoggio della Trilaterale di David Rockefeller (Chase Manhattan Bank) e di quel politico di lunga esperienza che fu Zbigniew Brzezinski, poi Consigliere per la Sicurezza nazionale dello stesso Carter, e del suo potente entourage saldamente arroccato con la finanza democratica di Wall Street.

Forse la scelta caduta su Carter fu anche avventata o semplicistica, ma è un fatto che quel nome fu scelto in nome del progressismo: si volle un uomo semplice come Jimmy Carter, simbolo dell’«uomo nuovo» non attaccato al potere, emblema del pioniere stelle e strisce, onesto e coraggioso, incarnazione dell’autentico spirito americano dopo lo scandalo Watergate.

 Mutate le circostanze, questo nuovo indirizzo filo-progressista dell’alta finanza internazionale poteva essere adattato anche all’Italia. Un Partito comunista che si candidava alla guida del Paese in alternativa alla Democrazia cristiana, storica e fedele alleata degli Stati Uniti e dell’atlantismo, non poteva lasciare indifferenti consessi come il Council o il Bilderberg per le ripercussioni internazionali che avrebbe potuto avere un partito comunista al potere in un Paese occidentale strategico come l’Italia. Da qui, i primi abboccamenti del mondo finanziario più esclusivo verso il comunismo italiano e le prime aperture a esponenti di rilievo del Partito comunista con la scoperta che i comunisti italiani non erano pericolosi rivoluzionari, ma potevano avvicinarsi al più ai “socialdemocratici di tipo nordico, o laboristi sul modello britannico”, quindi tutto sommato affidabili.

L’Italia era però anche quel campo fertile di un sottobosco politico ed economico che negli stessi anni fra il Settanta e l’Ottanta produsse fenomeni come Michele Sindona e i suoi opposti Enrico Cuccia, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli. Tutti più o meno affiliati o per lo meno contigui alla Massoneria internazionale e tutti abituati ad un lavoro di cui si potevano anche intravvedere i risultati ma non certo la progettazione né la preparazione.

In quegli anni, spiega l’Autore, il repubblicano Ugo La Malfa incarnava l’icona dell’antifascismo e della laicità dello Stato liberale kelseniano, e sicuramente anche quella del referente di rapporti di politica ed economia internazionale ad altissimo livello, lontano com’era da ogni compromesso col Vaticano e con le sue finanze e quindi tanto più gradito al mondo finanziario americano fondamentalmente protestante e calvinista. Nell’ultimo articolo del Saggio, datato 28 aprile 1979, Roberto de Mattei ricostruiva minuziosamente la figura di questo politico che era maturato però all’interno della Banca Commerciale Italiana, una sorta di “Università segreta” come la chiamò allora l’Autore, luogo nel quale La Malfa incontrò il pensiero keynesiano, il sistema alla base del New Deal, e dove incontrò anche l’alta finanza internazionale e l’imperitura Fabian Society stabilendo amicizie e intese strategiche. Fu nel 1962, scriveva de Mattei, che La Malfa ebbe il suo grande momento con la nascita del centro-sinistra, vero punto di partenza del lungo cammino di avvicinamento fra finanza e comunismo italiano, acquisito come forza democratica di governo.

“Alle soglie dell’ultimo passaggio del compromesso storico – scriveva allora de Mattei – si chiude bruscamente l’avventura terrena di Ugo La Malfa” ma con lui se ne andava anche l’illusione di quei tanti come lui, intellettuali, laici, antifascisti, agnostici, anticlericali, in buona parte massoni, che avevano creduto fino in fondo al loro progetto e poi – secondo le ultime parole dello stesso Ugo La Malfa - “alla fine una grande amarezza”.

Roberto de Mattei concludeva allora che i due veri partiti del mondo sono in realtà solo due: “Quello dell’amabile Salvatore sta alla destra, su di un sentiero angusto, sempre più ristretto dalla corruzione del mondo (…). A sinistra c’è il partito del mondo e del demonio, ed è più numeroso, più magnifico e, almeno nell’apparenza, più splendido”, parole che suonano ancor oggi come un epitaffio, tuttavia pieno di speranza, per Ugo La Malfa.

 Si resta affascinati dalla ricchezza della trama di questo densissimo saggio. Quei fatti sono già storia, in buona parte vissuta direttamente da molti di noi, col ricordo di tutte le reazioni che avemmo a caldo nel vivere quelle storie.

Mi sono chiesto la ragione che ha spinto il professor de Mattei a ripubblicare queste sue gemme di pensiero datate lungo gli anni Settanta, e posso azzardare una risposta solo guardando non solo alla vastissima e lungimirante cultura del Professore che vedrà – immagino - il ripetersi di certi “motivi” alla base degli eventi storici e politici, ma anche alla sua straordinaria sensibilità religiosa che nella dottrina cattolica è carità. Carità verso i suoi simili perché attraverso queste gemme di pensiero il professor Roberto de Mattei affida ai destinatari la possibilità di cogliere il tremendum di questi ultimi tempi in quei motivi che si ripetono ieri e oggi, segno della natura stessa dell’uomo.

 Giovanni Tortelli

mercoledì 21 settembre 2022

A Civitella del Tronto il richiamo della Tradizione

 

Devono averlo riproposto negli anni Sessanta lo sceneggiato che apparve in TV, a puntate, tra il novembre e il dicembre del 1954, in bianco nero, "L'Alfiere", tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Alianello; ricordo di averlo visto in TV negli anni Sessanta e, naturalmente, parteggiavo per Francesco (Pino), il giovane napoletano, Alfiere del Re, che combatte per la Patria mentre i suoi coetanei si rifiutano di prendere le armi e di combattere per il proprio Re... figuriamoci, sebbene tricolorato e risorgimentalista – son passati una sessantina di anni – ero già allora un vero conservatore (comprai a Napoli, sulla Collina del Vomero, il libro di Barry Goldwater “Il vero conservatore" pubblicato nelle Edizioni del Borghese, che mi affascinò), e ricordo bene quelle serate in cui "mi bevevo" le puntate de "L'Alfiere" (preso dalla libreria paterna avevo letto, ancora ragazzo, il romanzo dell'Alianello nelle edizione Einaudi del 1944, senza dargli particolare importanza) la storia del giovane eroe napoletano.

Sprofondato nella "poltrona della nonna", quasi a sentirmi protetto dall'allora nascente Sessantotto, ammiravo le gesta dell'eroe "napolitano" e mi rodevo per la viltà dei suoi coetanei (anche se allora parteggiavo per i tricolorati), mentre fuori imperversava l'incipiente Sessantotto... i "capelloni", i "figli dei fiori", le "Comuni" e il libero amore, la marijuana e l'LSD, il messaggio d'odio di don Milani per cui la scuola seria andava abolita insieme al latino, alle bocciature (todos caballeros), il disprezzo per la "divisa" e per l'esercito e, in primis, per i cappellani militari, l'invito alla diserzione e all'obiezione di coscienza perché "l'obbedienza non è più una virtù ma la peggiore delle tentazioni" (don Milani).

Don Luigi Stefani, il Cappellano della “Tridentina" – nei cui confronti don Milani metterà su, di fronte ai ragazzi e allo stesso don Stefani, un infame processo farsa – così scriveva nel 1972 in una biografia su don Carlo Gnocchi:

«Morente amico mio, avvi espresso il desiderio di ritornare a Firenze (...) Tante cose sono cambiate da allora! A Firenze e in Italia (...) Una progressiva degenerazione sta avvelenando l'anima stessa della Patria; e la corruzione e la disonestà si sono insinuate in tutti i campi.

Ritorna! Ti incontrerai con preti che hanno perduto la testa e contestano l'autorità (...) Vedrai derisi gli ex combattenti, i cappellani militari; esaltati i cosiddetti "obiettori di coscienza", tu che vestivi con orgoglio il tuo grigioverde e portavi con fierezza il tuo cappello alpino (...)

Ritorna! Anche nel tuo collegio è entrata la contestazione. Molte ragazze poliomielitiche, che dovrebbero piangere di gratitudine pensando a te, non sanno niente di te, non ne vogliono sapere. La scuola esterna le ha avvelenate. Hanno perduto la fede. Si sono lasciate strumentalizzare da chi diabolicamente ha strumentalizzato anche la loro infermità.»

(Cfr Don Luigi Stefani, "Il Santo con la penna alpina - Ricordo di don Carlo Gnocchi", Ed. Quaderni de "Lo Sprone")

Il Sessantotto era stato preceduto dal Concilio Vaticano II (1965) che fu, secondo il rosso cardinal Suenens, "il Sessantotto della Chiesa" per cui, nella società, al Sessantotto seguirono gli eccidi delle Brigate Rosse, le liste di proscrizione, gli agguati e i crimini dei vari movimenti armati della Sinistra (per la TV le BR erano "sedicenti", per un Presidente della Repubblica erano "nere"), mentre al Concilio seguì il "Postconcilio" e, mentre nella società fu tolto il latino con conseguente "caduta libera" della scuola, nella Chiesa fu tolta la S. Messa in rito romano antico per cui, invece Sacrificio della Croce, la Messa divenne, alla maniera protestante, la "cena".

Noi – e quando dico "Noi!" intendo quei giovani di "destra" o di estrema destra, per l'ordine costituito, contro il Comunismo, per il tricolore e per il Risorgimento che pensavamo avesse "finalmente" unito la Patria... insomma più vicini, senza esserne coscienti, al "giacobinismo di destra" e alla "destra storica" (che fu più sovversiva della sinistra) che alla Tradizione – ci battevamo contro la contestazione nelle Università e ci schieravamo, giustamente, sempre a fianco delle forze dell'ordine... per chi volesse avere un quadro della situazione caotica di allora nelle Università e nella Chiesa consiglio la lettura di un affascinante saggio di Duilio Marchesini (il famoso "Cazzotto di Dio" che ebbi l'onore di conoscere, npc) e Giancarlo Scafidi: "Nati per combattere - dalla Sapienza a Regina Coeli" (Tabula fati, 2020).

Ero a Napoli – come già ho raccontato nel mio "Dal natìo Borgo selvaggio" (Solfanelli, 2017) – e avevo aderito al PPM (Partito Popolare Monarchico) di Achille Lauro – un personaggio che mi ha sempre affascinato – quando un giorno, prendendo la funicolare dal Vomero, il mio amico Bruno Fichman, mi accompagnò alla sede del MSI che era proprio al capolinea in piazzetta Duca d'Aosta... una trentina di giovani e giovanissimi della nostra età stavano discutendo con i fratelli Gennaro e Angelo Ruggiero e Gennaro criticava un inserto sul Brigantaggio apparso sul settimanale "Lo Specchio" (ero anch'io lettore di quel giornale con il quale, poi, collaborai facendo fare l'ormai famosa intervista che smascherò il prete rosso don Milani) in quanto si considerava quella pagina di storia completamente negativa... mentre ci fu un "Brigantaggio" lealista, una vera e propria Resistenza all'invasore piemontese tricolorato.

Da lì iniziò il mio "Revisionismo storico" ... "L'Alfiere", che un tempo consideravo come una sorta di romanzo "di guerra", certo ben scritto ma nulla più – allora mi domandavo, però, perché ce l'avesse tanto con l'Unità d'Italia e i "gloriosi bersaglieri" (sic) – divenne per me una sorta di Bibbia e in un dialogo tra il giovane alfiere Pino e il suo superiore il Tenente Franco, c'è tutta la spiegazione e la bellezza della Tradizione e l'orgoglio della fedeltà all'onore e alla Patria:

«E la libertà,» chiese Pino, «che n'hai fatto?»

«Ce l'ho qui,» rispose Franco e si batté sul petto, «giacché tra la mia e quella dei liberali ho scelto liberamente, da uomo. Non mi piace la loro libertà, ché quando te la vengono a imporre con le baionette, non è più essa. Io sto da questa parte, perché così piace a me che sono don Enrico Franco, e mi piace perché oggi è la parte più bella. Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento, magari, un ideale, ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza. Qui non c'è vanità, non c'è successo, non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora. Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono l'onore, la fedeltà, la bandiera e la Monarchia perché son padroni di sé e servitori di Dio. Ieri forse poteva sembrar più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con noi c'è la sventura e questa è la parte più bella (...) Preferisco combattere al mutar casacca.»

Quando a sera infuriava la contestazione e nelle strade rigurgitava sinistramente la canea urlante – (rivolta ai Carabinieri del Battaglione Mobile) "Camerata, basco ero, il tuo posto è al cimitero", "Almirante boia Fanfani la su' tro..a", "Pagherete caro, pagherete tutto" –, quando nell'università le "guardie rosse" impedivano l'accesso a chi rosso non era, quando i Katanghesi andavano in giro ad aprire le teste come cocomeri di Rassina, quando "Lotta Continua" rivendicava l'assassinio del Commissario Calabresi ("Un gesto in cui si identifica tutto il proletariato"), mentre con le chiavi inglesi Hazet 36 ("hazet 36 - fascista dove sei") i comunisti spaccavano il cranio a Sergio Ramelli (il Consiglio Comunale di Milano applaudì alla notizia della morte del ragazzo dopo quaranta giorni di penosa agonia e di indicibili sofferenze), quando venivamo assaliti perché "sorpresi" ad affiggere manifesti per la famiglia, contro il divorzio, quando anche molti tra i "falsi" amici mi (e ci) dicevano: "Ma voi siete sempre dalla parte dei perdenti... siete degli sfigati ma chi ve lo fa fare?" ci ricordavamo delle parole di Franco morente nella difesa di Gaeta: noi combattevamo e tuttavia combattiamo per un'idea di bellezza, senza chiedere compensi, per un senso dell'onore, insomma per la Verità, che è una sola e che si riassume nel motto: "Per Iddio, la Patria, il Re"... spesso facendo un esame di coscienza sulla mia vita e prendendo paura per il Giudizio inappellabile a cui nessuno potrà sfuggire, ringrazio il Signore che, nonostante i miei peccati, mi ha fatto dato la gioia e l'onore di poter combattere la "buona battaglia" (il "bonum certamen")...

E non sono tanto le letture, pur belle, di storici come Giacinto De Sivo, il Buttà, Carlo Alianello, Harold Acton, De Cesare, o le affascinanti pagine di meravigliose riviste come "l'Alfiere - Rivista tradizionalista napoletana" – fondata dall'indimenticabile On. Silvio Vitale – a farci amare la Tradizione quanto l'esempio di quei "camerati" e fratelli che dettero la vita per "essere uomini ancora": i Cristeros messicani, i vandeani, gl'insorgenti antigiacobini italiani, i combattenti dell'Armata Bianca della Carnia, i "Briganti" del Sud e i "soldati napolitani" che combatterono sul Volturno, a Messina, a Gaeta, a Civitella del Tronto e a coloro che, per non tradire, per non "cambiar casacca" perirono nei lager dei Savoia e, poi, i milioni di morti nei Gulag, nei Laogai e in tutte le prigioni del Comunismo assassino.

Già, il valore dei soldati napolitani a Civitella del Tronto, l'ultimo baluardo del Regno Duosiciliano... conoscevo i fatti storici della difesa di Messina e di Gaeta, ma ignoravo la Resistenza eroica della "Fedelissima" Civitella del Tronto quando lessi, fine anni Sessanta, un bellissimo e assai documentato libro di Giorgio Cucentrentoli, "La Difesa della 'Fedelissima' Civitella del Tronto 1860-1861" edito da "La Perseveranza" di Bologna (nel 1978 ristampai il libro come "Pucci Cipriani Editore"), un libro fondamentale che mi meravigliò, infatti, conoscevo Giorgio Cucentrentoli come storico "risorgimentalista", militante nel Partito Monarchico Nazionale, che aveva pubblicato in precedenza un ridondante volume "Squilli di un secolo"… esaltante tricolori, penne bersaglieresche, cariche sabaude a cavallo, trombe, trombette e tromboni etc...

Nel frattempo avevo conosciuto il prof. Paolo Caucci, Docente di letteratura ispanica all'Università di Perugia, che, sin dalla fine degli anni Sessanta, organizzava una gita a Civitella del Tronto una volta all'anno in prossimità del giorno di San Giuseppe: partenza il sabato ospiti, per la cena, in una villa nell'Ascolano dello stesso Caucci e, poi, al mattino, su, alla Rocca... dopo aver assistito alla S. Messa in rito romano antico, la Messa di sempre e di tutti, la stessa Messa che, ogni giorno, l'eroico cappellano militare, il francescano padre Leonardo Zilli, celebrava portando l'Eucaristia ai difensori, insieme al suo incoraggiamento e ai suoi ammonimenti: "Ecco la nostra società – tuona il frate di Campotosto – ha perduto la grazia di Dio e si è resa schiava miserabile del demonio e degna di eterni castighi... noi tutti abbiamo offeso Dio che ci creò, ci redense, ci costituì suoi figlioli adottivi con il Santo battesimo (...) invochiamo il suo perdono" e mentre la pugna infuria p. Zilli depone sulla lingua dei soldati, in ginocchio, la Sacra Particola: "Corpus Domini nostri Jesu Christi..." Il buon frate conforta i feriti e si china, pietosamente, benedicente, sui morti...

Ogni anno, da cinquant'anni, mi reco a Civitella del Tronto, da trentacinque organizzo i Convegni e, sempre salgo alla Rocca nella chiesa di Sant'Jacopo, con lo stesso entusiasmo di quand'ero giovane... mi sembra che da quel sacello nella chiesa dove officiava padre Zilli – poi barbaramente fucilato alla schiena, insieme agli ultimi difensori, dai "liberatori" tricolorati – si rianimino i corpi di quei soldati eroici con le divise lacere e vengano verso di noi per ringraziarci delle nostre preghiere e, soprattutto, per ringraziare della celebrazione della S. Messa, che non è la cena, ma il Sacrificio della Croce che si rinnova, seppur in maniera incruenta... e accanto a quei morti e al loro cappellano, anche don Giorgio Maffei, il nostro cappellano per più di vent'anni, che sino all'ultimo, nonostante l'età, ha celebrato la Messa di sempre e ha guidato la "via Crucis" del venerdì... già, perché son certo che quella di aver potuto sempre celebrare la Messa cattolica sia stata una grazia del Signore, ricevuta per intercessione di padre Zilli da Campotosto... il nostro incontro con la Fraternità San Pio X di Mons. Marcel Lefebvre ha fatto sì che i nostri incontri abbiano dato opimi frutti... dalle nostre file sono fiorite anche due vocazioni, due sacerdoti fedeli alla tradizione, due "ragazzi" (io li ricordo così anche se ora hanno i capelli bianchi) oggi "sacerdoti in eterno" cresciuti nei seminari della FSSPX, alla cui formazione non sono stati estranei i Convegni di Civitella del Tronto: don Giovanni Carusi Spinelli e don Stefano Carusi...

"Venire a Civitella – scrive il giovane Vittorio Acerbi, che lo scorso anno, per la prima volta, salì alla Rocca e il venerdì sera partecipò all'annuale "Via Crucis" per le vie del paese guidata dal nostro don Gabriele D'Avino – vuol dire abbracciare una croce (...) come l'hanno abbracciata quei soldati che a Civitella consapevoli del loro esito fisico, e certi del loro esito metafisico, così ogni anno cerchiamo di farlo noi nel nostro piccolo (...) nel rendere omaggio a quei dimenticati eroi. Dimenticati ma solo per la storia (con la s minuscola appunto)."

Gli fa eco un altro giovane, il ventenne Edgardo Benfatto, studente universitario di storia e filosofia di Cecina: "Poche le volte sono state nella mia vita di percepire a pieno un ideale, un valore per cui combattere; sì perché viviamo in un'epoca di profonda dissoluzione antropologica nella quale ormai l'uomo sprofondato nel relativismo non è più in grado di conservare un'identità. L'antidoto a questi mali non può che essere la Tradizione colei che è in grado di fermare il tempo (che) riesce a unire quei cuori che battono per lo stesso ed unico Dio. Civitella del Tronto ne è l'esempio."

Ricordo i giorni belli del novembre 2019 a Bergamo con quel Convegno "Da Barbiana a Bibbiano", che scatenò "l'ira funesta" di tutto il mondo criptocomunista (e agli alti lai dei trinariciuti si associarono addirittura due arcivescovi... che Iddio li perdoni!). Convegno organizzato da Filippo Bianchi, allora Consigliere Comunale di Bergamo e al quale parteciparono, insieme allo stesso Bianchi e al sottoscritto, Jacopo Marzetti allora Commissario del "Forteto" e Francesco Borgonovo Vicedirettore de "La Verità" (l'unico quotidiano che si possa leggere) e, poi, ancora a Monaco di Baviera, con la delegazione fiorentina (Filippo Bianchi, Daniel Vata e Andrea Tortelli e il sottoscritto), dove il prof. Roberto de Mattei aveva organizzato una "Acies ordinata" contro l'eresia montante dell'episcopato germanico davanti alla cattedrale del Cardinal Marx: per oltre un'ora immobili sotto il vento sferzante e il nevischio che ci frustavano, in silenzio, a recitare il S. Rosario, e poi, al termine, il canto del "Credo"... dopo invitammo gli amici (eravamo in tanti, provenienti da "tutto il mondo") a Civitella del Tronto che si sarebbe dovuta tenere a marzo... Quanta gioia ad aver fatto quel "combattimento"... e al mattino la nostra Messa, la Messa di sempre...

Ma poi, da allora, parafrasando padre Giovanni Bigazzi, posso ben scrivere: “Non ho contato i giorni del dolore / so che Gesù li ha scritti nel mio cuore.”

E al male si sono aggiunti il "coprifuoco" e le, talvolta, assurde restrizioni, l'impossibilità di incontrare persone... insomma la solitudine... per due lunghi anni... pensavo tristemente, che forse quella del marzo 2019 sarebbe stata la mia ultima Civitella... ma riuscimmo a farne una "raffazzonata" nel 2021 spostando la data da marzo a dicembre 2021, con un gruppo di trenta "baldi giovani"... poi per la Pasqua di quest'anno, il 2022, improvvisamente, un'altra forte "scossa" al cuore e allora pensai definitivamente che quei cinquanta anni di "attività", tutti quei Convegni, quell'entusiasmo sarebbero finiti. Pensiero autoreferenziale quando si sostituisce l'io a Dio, quando l'orgoglio ti fa pensare "cosa sarà senza di me?"

E invece ecco la gioia più grande: il nobile Ascanio Ruschi, quel ragazzino (ha ora quarantatré anni) che ventisette anni fa veniva a Civitella del Tronto mettendo da parte i soldi durante l'anno, quel ragazzino che da allora – sopportando i miei brontolii e il mio caratteraccio – mi è stato vicino, fraternamente, in tutto questo tempo, fedele in questo "quasi trentennio", onorando il motto a me caro: "etiamsi omnes ego non", continuerà a far vivere questa bella tradizione e, dopo di lui, altri, "i vecchi e i giovani", per dirla con Pirandello, che, fraternamente , insieme ad Ascanio, son sempre stati al mio fianco, prenderanno il testimone: "Tradidi quod et accepi"... e se non avessi avuto paura di scadere nella retorica e nel sentimentalismo melenso avrei inviato a tutti loro, facendolo mio, il testamento di un guerriero vandeano del 1832:

«Cari figli, io vi lascio per tutto patrimonio, lo stesso zelo che me ne ha privato... Dio voglia che ne siate ugualmente animati... Conservate tutte le forze del vostro spirito e del vostro corpo alla difesa della vostra Religione e del vostro Re. Siate virtuosi e costanti fate sempre tutto ciò che potete per il bene del vostri Paese, ma ricordatevi sempre che dov'è il Re là è la Patria. Non fate mai pace né tregua con i suoi nemici... ho ripreso le armi per consacrare i giorni che mi restano da vivere a servizio del nostro Re (Cristo Re!)...»

Come ogni anno ad aspettarci troveremo il Civitellese Daniele D'Emidio che, l'ultima volta, mi regalò una scheggia di una "palla di fuoco" nemica (piemontese) che trovò nei pressi della chiesa di S. Jacopo alla Rocca... ce l'ho qui, sul tavolo del mio studio e la tengo come "fermacarte" e troveremo il nostro on. Fabrizio Di Stefano con Mario (Mario quest'anno porta la chitarra vogliamo cantare, insieme a te, la canzone dei briganti!)... anche Fabrizio, nel momento del dolore, mi è stato vicino, fraternamente... com'è vicino a tutti noi da oltre vent'anni.

In questo Convegno dedicato alla memoria del Principe di Braganza e del prof. Piero Vassallo ci saremo tutti, i vivi e i morti... ora non ricordo molti dei loro nomi "ma nel mio cuore nessuna croce manca", tra gli oratori c'è il giovane veronese prof. Alberto De Marco che, tra i pensatori e letterati della "Controrivoluzione", ha scelto di parlare su Pino Tosca, il nostro indimenticabile Pino, saggista, poeta e scrittore, autore, tra l'altro, delle parole de "La Vandeana" che tante volte fu con noi a Civitella, sarà come poterlo ancora (ri)vedere e (ri)abbracciare.

Coraggio! Nessuno manchi a questo Convegno XXXV Incontro della "Fedelissima"(venerdì 7, sabato 8 e domenica 9 ottobre 2022) dove, dopo il canto del "Christus vincit" intonato da don Gabriele, grideremo insieme, a "una voce", mentre sul pennone verrà issata a garrire al vento la bianca Bandiera gigliata: Viva Cristo Re! Viva la Tradizione! Viva Francesco e Sofia!

PUCCI CIPRIANI

martedì 20 settembre 2022

Civitella del Tronto, di Giorgio Cucentrentoli


Hanno alzato
una cortina
di menzogne e d'infamie
per nasconder
la sbrecciata muraglia

che a difesa
si eresse
dell'Altare e del Trono.
 
Non chiedere
al mondo
i perché
della nuova, orrenda
barbarie.
 
Domandalo
sommessamente
ai sassi consunti
dell'antica Beretra.
 
Ti parleranno
d'orrori e di morte:
d'incendiati villaggi,
di gente braccata
tra le terre d'Abruzzo.
 
E ti diranno
il vero;
quel che la storia
"ignora" e non sai.
Libertà, ma dove?
Libertà, per quando?
 
Oh: cercane
fra i massi
di Civitella del Tronto
i suoi natali!
 
Cercali a Pizzoli,
a Carsòli,
a Borgo a Mozzano
tra le stragi orrende,
le cariche de' bersaglieri,
e 'l canto de' "Briganti"
partigiani del Re.
 
E vedrai che il disgusto
dell'oggi
ha ragioni lontane
che il vento,
o forse
una mezza parola
d'un vecchio
o d'un prete
che non conosce concili
ti potranno svelare.
 
Resta però un vaticinio
su que' muri cadenti
dove l'edera abbonda
a nasconder le crepe
di giacobina mitraglia:
 
"O l'azzurro vessillo
coi gigli...
o il frigio berretto
su la bandiera rossa!"
 
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro

venerdì 9 settembre 2022

XXV Convegno di Civitella del Tronto: UN GIOVANE INVITA I SUOI COETANEI (di Edgardo Benfatto)


 
Poche le volte sono state nella mia vita di percepire a pieno un ideale, un valore per cui combattere; sì perché viviamo in un'epoca di profonda dissoluzione antropologica nella quale l'uomo oramai sprofondato nel relativismo non è più in grado di conservare un'identità. L'antidoto perfetto per questi mali non può che essere la tradizione, colei che è in grado di fermare il tempo.

Riconosco che è molto difficile parlare di questi temi in un paese come l'Italia dopo le rivoluzioni ( perlopiù massoniche) novecentesche, ma come evocato poc'anzi ecco che la tradizione riesce a riunire quei cuori che battono per lo stesso ed unico Dio. Civitella del Tronto ne è l'esempio; quella rocca, il simbolo perfetto della resistenza controrivoluzionaria borbonica,  dove ogni anno viene celebrata quell'eroica battaglia con un convegno di tre giorni. Una volta sola ho assistito all'evento, l'anno scorso, su invito del carissimo nonché grande amico Pucci Cipriani, vera e propria colonna della tradizione. Non potrò mai dimenticare la via crucis tra le strade del paesello, così come la messa e le varie relazioni dei presenti. Finalmente il 7 ottobre potrò tornare in questo luogo sapendo che sarà ancora in grado di regalarmi quello spirito magico come se fosse la prima volta.

Edgardo Benfatto

lunedì 5 settembre 2022

Civitella del Tronto: fortezza della Tradizione (di Ascanio Ruschi)

Il borgo fortificato di Civitella del Tronto sorge a circa 600 metri slm, e la sua antica fortezza domina la valle del Salinello e del Vibrata. Montagne impervie, ancora boscose e poco abitate, proteggono la valle verso nord e ovest. Solo verso il mare i monti degradano in colline, gli abitati sono più frequenti, e i segni della civiltà rurale testimoniano una identità fortemente legata al territorio. Siamo quasi al confine con le Marche, ma in terra di Abruzzi. Terra contadina, di confine, da sempre contesa (in rapporto di complementarità e simbiosi) con la natura.

L’azzurro lontano del mare, visibile nelle giornate più terse, è spesso oscurato dalle bianche nubi che scendono dai monti. Venti freddi, talvolta carichi di neve, sferzano le vallate civitellesi. Le strade che portano, tornante dopo tornante, al paese, spesso interrotte da frane, sono attraversate da animali selvatici. Specialmente la notte, quando le poche luci artificiali di vecchie cascine isolate non riescono ad oscurare la brillantezza delle stelle e della luna.

A difesa del territorio svetta, da oltre mille anni, l’antica fortezza di Civitella del Tronto, detta la “Fedelissima”, ultimo baluardo del regno del Sud all’invasione piemontese, arresasi dopo oltre 200 giorni di assedio e addirittura dopo 3 giorni la dichiarazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861). Sotto la fortezza, nei secoli è cresciuto il piccolo borgo: strade strette e lastricate di ciottoli, piccoli ma eleganti palazzi, sparuti lampioni che, quasi timorosi, illuminano di giallo il passaggio.

E’ fondamentalmente una la strada di accesso a Civitella del Tronto: attraverso Porta Napoli (ad oriente), l’unica delle tre porte urbane ancora integra (della Porta di Vena ad occidente è rimasto il passaggio a volta, mentre è sparita la meridionale Porta delle Vigne). E accanto alla porta Napoli, la Chiesa di San Lorenzo, che si apre su Piazza Franciscus Filippi Pepe, da cui uno splendido belvedere regala una vista mozzafiato sui monti e sulla valle sottostante. Meravigliosa immagine della fortezza che sovrasta il paese e la Chiesa, esemplificazione urbanistica di una societas tradizionale che poneva il potere temporale come strumento di difesa della Chiesa.

Dalla piazza la strada si restringe nuovamente, e attraversa per lungo tutto il borgo. Imboccata la via, dopo pochi metri, sulla sinistra,  la bianca bandiera con lo stemma del Regno delle Due Sicilie indica ove si terrà (e si tiene di consueto) il nostro incontro. È proprio lì, presso l’hotel Fortezza, che infatti ci ritroveremo nuovamente il 7, 8 e 9 ottobre per il nostro consueto convegno della Tradizione, quest’anno dedicato ai protagonisti della Controrivoluzione. È lì che, grazie all’assistenza della Fraternità San Pio X e dei sacerdoti presenti, celebreremo la S. Messa in rito antico, la Messa di sempre e di tutti, come la celebrava l’umile e coraggioso frate francescano padre Zilli da Campotosto, durante l’assedio di Civitella, assistendo gli stremati difensori e portando loro il conforto spirituale. Da lì partiremo il venerdì sera per la Via Crucis. Fiaccole alla mano, nel silenzio del paese, interrotto solo dalle preghiere del Sacerdote e dalle risposte dei fedeli (“Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”) circumnavigheremo, rispettosi, il piccolo borgo di Civitella, transitando davanti alla statua di Matteo Wade, l’eroico irlandese che resistette alle truppe francesi guidate da Gioacchino Murat, e alla piccola Chiesa di San Francesco.

Lì, nella giornata del sabato, si svolgeranno le relazioni degli amici che, per semplice amore della Tradizione, da ogni parte della penisola accorreranno per testimoniare, ancora una volta, che la Tradizione è viva, che non è mera riproposizione del passato, ma linfa vitale del futuro. Mangeremo tutti insieme, rideremo e all’unisono intoneremo i canti dei briganti. Brinderemo alle battaglie passate e future, e mestamente ricorderemo chi ha lasciato la vita terrena (quest’anno Piero Vassallo). Non dimenticheremo neanche quei pochi, pavidi e opportunisti, che hanno tradito Civitella e la Tradizione. Anche per loro, meschini come quegli ufficiali che aprirono le porte della Fortezza agli invasori, eleveremo le nostre preghiere.

Da lì, la domenica mattina, stendardi al vento, ci avvieremo recitando il Santo Rosario, ascendendo alla rocca, ove innalzeremo, ancora una volta, la bandiera del glorioso Regno delle Due Sicilie, simbolo di un’epoca, e di valori, che ancora vivono e rivivono nel cuore e nelle preghiere di chi ha fatto proprio il motto “etsiam omnes, ego non”. Sosteremo nella chiesa di San Giacomo, nel punto esatto ove ancora giacciono i resti dei difensori, molti dei quali fucilati, ad assedio concluso, per alto tradimento verso un regno che non era il loro. Visiteremo la fortezza, oggi in parte restaurata dopo che venne quasi rasa al suolo dagli invasori piemontesi, su ordine del generale Manfredo Fanti, quale damnatio memoriae di quella epica resistenza.

Agli eroici difensori di Civitella, ma anche a tutti i combattenti della Controrivoluzione, dai vandeani francesi ai cristeros messicani, dai briganti del sud ai carlisti spagnoli, dagli zuavi pontifici agli insorgenti antigiacobini, dedicheremo i “nostri” tre giorni di Civitella, sicuri che la fiamma della Tradizione, se Iddio vorrà, splenderà in eterno.

E ancora una volta potremo gridare “Viva Francesco e Sofia! Viva la Tradizione! Viva Cristo Re!”.

Ascanio Ruschi

mercoledì 20 luglio 2022

XXXV INCONTRO DELLA TRADIZIONE CATTOLICA DELLA "FEDELISSIMA" CIVITELLA DEL TRONTO (TE)

 Pensatori e Letterati della Controrivoluzione 

XXXV INCONTRO DELLA TRADIZIONE CATTOLICA

DELLA "FEDELISSIMA" CIVITELLA DEL TRONTO (TE)

Venerdì 7, sabato 8 e domenica 9 ottobre 2022

nel ricordo di S.A.I.R dom Luiz d'Orleans e Braganca

e del professor Piero Vassallo


Venerdì 7 ottobre

Ore 18:30 S. Messa in rito romano antico

Ore 19:40 Riunione conviviale

Ore 21:30 VIA CRUCIS CON FIACCOLE per le vie del paese


Sabato 8 ottobre

Ore 8:30 S. Messa in rito romano antico

Ore 10:00 Inizio dei lavori canto del Salve Regina

Ore 13:00 Interruzione dei lavori

Ore 16:00 Ripresa dei lavori 

Ore 19:30 Terminano i lavori canto del Credo


Domenica 9 ottobre

Ore 10:00 S. Messa solenne in rito romano antico - Al termine bacio della Reliquia di san Pio X

Ore 11:30 Processione verso la Rocca con recita devota del Santo Rosario

Ore 12:20 Alzabandiera con canto del "Christus Vincit". Commemorazione dei caduti della "Fedelissima". Saluto alla voce 

Ore 12:40 Nella chiesa di Sant'Jacopo alla Rocca recita del "De Profundis" di fronte al sacello contenente le ossa ritrovate dei soldati caduti nella difesa di Civitella del Tronto

Ore 13:00 Visita alla Rocca

Ore 13:40 Riunione conviviale - Arrivederci al 2023


L'Assistenza spirituale per i tre giorni è affidata al MR don Gabriele D'Avino della FSSPX.

La vendita dei libri è consentita all'editore Solfanelli, alle Edizioni Fiducia e alla Fraternità San Pio X.

Gli oratori possono mettere in vendita le loro pubblicazioni.

Oratori che saranno presenti: M.R. don Gabriele D'Avino - Ascanio Ruschi - On. Fabrizio Di Stefano - Pucci Cipriani - Massimo de Leonardis - Roberto de Mattei - Cristina Siccardi - Carlo Manetti - Marco Solfanelli - Carlo Regazzoni - Lorenzo Gasperini - M.R. don Stefano Carusi - Vittorio Acerbi - Alessandro Elia - Federico Catani

martedì 7 giugno 2022

Presentazione del libro di Pucci Cipriani: "Napoli. Città del Trono e dell'Altare"



Domenica 5 giugno 2022 è stato presentato a Cecina, di fronte a un foltissimo pubblico, presso il Circolo culturale "Il Fitto", il libro di Pucci Cipriani: "Napoli città del Trono e dell'Altare: omaggio al Regno delle Due Sicilie"(Solfanelli). Alla presenza dell'Autore ha tenuto la sua relazione Vittorio Acerbi. Riportiamo di seguito il testo completo del suo intervento.





Probabilmente l’idea di questo libro nasce da parecchio tempo, ma certo posso affermare che in qualche misura abbiamo seguito la stesura (nonostante qualche preoccupazione durante il percorso).

Ricordo nitidamente quel 16 marzo, quando fu celebrata la Santa Messa in onore di Francesco II. Fatto questo che non passò inosservato al principe Carlo di Borbone; in quell’occasione volle personalmente ringraziare il professor Cipriani. La ricordo ancora l'emozione di quel giorno. Emozione che si è ripetuta pochi giorni fa quando il principe Carlo si è nuovamente congratulato per la pubblicazione di questo libro. Prima ricordavo quella Santa Messa del 16 marzo, celebrata in un momento dove, per le restrizioni dovute alla pandemia, non avremmo dovuto vederci. Nessuna aggregazione, nessuna evasione fuori dal proprio comune di residenza. Eppure noi ci siamo visti ugualmente e, come sempre, abbiamo ricevuto i sacramenti. Noi siamo irriducibili cristiani. Pur di ricevere i sacramenti siamo disposti a passare dalle persecuzioni e dalle catacombe. Dispiace constatare che queste ultime, purtroppo, sono spesso favorite dalla nostra Chiesa. Ma non veniteci a parlare di comunione spirituale, perché probabilmente avete sbagliato persone con cui parlarne.

 

Se volessi cercare di riassumere il senso di questo libro, sceglierei proprio una frase dell’autore che dice testualmente: “Oltre a conoscere la storia della città e del glorioso Regno Duosiciliano, bisogna cercare di comprendere Napoli, di viverla più che di guardarla e di giudicarla, tenendo conto che oramai tutto il mondo si va omologando in un livellamento giacobino, dal basso.

 

Benché io conosca sommariamente Napoli, benché ci abbia soggiornato in due sole occasioni, è tutto così estremamente bello quello che Pucci racconta. Dei suoi ricordi in una città che, per quanto si sia omologata alla società odierna infernale, esistono sempre quelle fondamenta che nemmeno la modernità è riuscita a distruggere.

E siccome io al caso non ci credo, non è un caso che quella che oggi si chiama Piazza Garibaldi sia stata rinominata da alcuni esponenti di Fratelli d'Italia (con tanto di striscione) “Piazza dell’Islam”. Non è nemmeno un caso che nella mia vicina Livorno “Piazza dei Mille” sia una delle piazze con più extracomunitari e con un alto tasso di criminalità.

 

Prontamente ecco che Pucci ci riporta al bene, ricordandoci il miracolo del sangue di San Gennaro che periodicamente si liquefà, in quella devozione popolare al martire cristiano protettore della città che oggi, come allora, continua a scandalizzare le eccelse menti moderniste.

Che scandalizzò persino Garibaldi quando, una volta entrato a Napoli, si recò a rendere omaggio a quelle ampolle portandosi al seguito Fra’ Pantaleo, frate rivoluzionario con la camicia rossa, con tanto di spada e due pistole ai fianchi che dall’ambone della chiesa annunciò Garibaldi come l’inviato da Dio dopo Gesù Cristo.

E lo stesso Garibaldi che dopo aver definito il Papa Beato “un metro cubo di letame”, che dopo aver chiamato il suo ciuco Pio IX, definirà quel sangue “un’umiliante composizione chimica, di cui dobbiamo frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno.

 

Ma gli eroi di Napoli non si fermano solo a coloro che si opposero al Risorgimento. Posto che questa “resurrezione” contenuta nell’etimologia del termine Risorgimento, trova difficilmente conferma nell’efferatezza e nell’invasione piemontese. Resurrezione per noi ha un significato ben preciso, di cui possiamo toccarne con mano la testimonianza negli 800 martiri della chiesa di Santa Caterina a Formiello. Gli 800 martiri di Otranto che nel 1480 furono uccisi dai turchi per non aver rinnegato la propria fede.

814 per la precisione che vennero tagliati in 2 parti e ricuciti metà uomo, metà donna e impalati lungo le mura della città.

E sempre contro i Turchi, quasi un secolo dopo, nel 1571, sarà consegnato, nella basilica di Santa Chiara, a don Giovanni d’Austria, il vessillo pontificio di papa Pio V che sventolerà vittorioso nella battaglia di Lepanto.

Santa Chiara che è anche l'edificio in cui si trovano le tombe del re Francesco II e della regina Maria Sofia, e dove si trova la tomba di un personaggio che molti di voi ricorderanno, perché più vicino ai giorni nostri. Il Servo di Dio Vicebrigadiere Salvo d’Acquisto che, pochi giorni prima di quel sacrificio aveva scritto alla madre “Bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio a prezzo di qualsiasi dolore e di qualsiasi sacrificio.

Quando ho letto queste parole non ho potuto fare a meno di pensare ad un altro napoletano, il santo Giuseppe Moscati quando dice: “Se la verità ti costa la persecuzione, tu accettala; se tormento, tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, tu sii forte nel sacrificio.

 

Una cristianità napoletana che passa dal miracolo del sangue di San Gennaro, ma che passa anche dal sangue di un’altra santa di Napoli, Santa Patrizia di Costantinopoli, le cui spoglie si trovano a San Gregorio Armeno. La tradizione vuole che un cavaliere abbia passato la notte in preghiera per chiedere una grazia a Santa Patrizia e, al fine di poter venerare una sua reliquia, tolse un dente dal corpo di Patrizia di Costantinopoli da cui iniziò a sgorgare un fiume di sangue che fu raccolto in due piccole ampolle. E periodicamente, sempre a Napoli, anche quel sangue si liquefà, nello stupore del bigottismo odierno che tutto vorrebbe spiegare.

 

Una Napoli quindi che è fortemente legata ai suoi santi protettori. Il 22 maggio mi trovavo a Cascia in occasione della ricorrenza di Santa Rita e fui stupito dalla quantità di napoletani che vidi quel giorno; salvo poi scoprire che Santa Rita è copatrona di Napoli.

 

Questa fede non si concretizza soltanto nei suoi santi, ma anche nei suoi intellettuali, nei suoi scrittori, nei suoi politici. Un caso è quello di Ferdinando Russo, poeta dialettale che per venti anni aveva scritto su “Il Mattino” e che d’improvviso fu licenziato per il suo essere reazionario, borbonico, sanfedista. Medaglie al valore diremo noi. Aveva pagato il prezzo di stare dalla parte dei vinti e adesso veniva collocato nel ghetto degli intellettuali napoletani.

Molte sono le personalità legate alla Tradizione di Napoli di Pucci ricorda le gesta e, come giustamente egli stesso precisa: “la Tradizione non può che essere cattolica.

Mi ha particolarmente colpito la testimonianza di “Fede e Libertà”, realtà che non conoscevo; un movimento cattolico nato negli anni ’80 da un gruppo di giovani che non solo faceva politica a parole, ma faceva attivismo politico in nome della Tradizione Cattolica: Rosario ogni sera in sede, ogni primo venerdì del mese Adorazione Eucaristica, battaglie in difesa della famiglia, contro l’aborto e la droga.

Perché la fede è proprio questo: o è un avvento che investe ogni ambito della nostra vita, politica compresa, o è solo un’attività da svolgere in chiesa un’oretta tutte le domeniche.

 

 

Siccome questo libro non è solo un viaggio nei ricordi napoletani dell’autore, ma anche un omaggio alla capitale del Regno delle Due Sicilie; e siccome è peccato mortale parlar male del Risorgimento e di Garibaldi, biondo eroe con l’orecchio mozzato, non si sa se dovuto al morso di una donna che violentò o se fu una punizione inflittagli in America Latina, poiché questa era la sorte dei ladri di cavalli (sì perché Garibaldi nel 1835 si era rifugiato in Brasile dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere).

Pensate a quanto quel Risorgimento ha stravolto l’Italia, fra un nord che era in forte miseria e un sud che, al contrario, era ricco e prospero. Inutile evidenziare quanto il Regno delle Due Sicilie fosse, in Italia, il regno più all’avanguardia nel progresso tecnologico.

Tutti voi conoscete la prima ferrovia in Italia che collegava Portici a Napoli. Tratto ferroviario che comprendeva anche il primato della prima galleria. Non solo: l’installazione del primo telegrafo tecnico; il primo osservatorio astronomico a Capodimonte; il primo osservatorio meteorologico e sismologico sul Vesuvio. Dopo Londra e Parigi, a Napoli fu installata la prima illuminazione elettrica su strada. La flotta borbonica, prima nel Mediterraneo e quarta nel mondo; la prima nave a vapore (italiana), la Ferdinando I, che faceva la tratta Napoli-Palermo in sole diciotto ore. In Sicilia il primo transatlantico, un piroscafo ad elica che attraversò l’Oceano per arrivare a New York.

Tutto questo depredato e cancellato da molti libri di storia.

 

Utilizzo le parole di un caro amico, il professor Regazzoni che definisce Garibaldi “un povero imbecille di fronte ad un Cavour, genio sì, ma genio del male.” E siccome questa potrebbe risultare un’opinione isolata, è indispensabile ricordare un rapporto scritto proprio dagli insegnanti di Garibaldi che dice testualmente: “un ragazzo di scarsissima intelligenza, forse un minorato mentale… quello che volgarmente si chiamerebbe un cretino. Ignorante come una talpa, nella nostra biblioteca non ha mai chiesto un libro da leggere.

C’è pure una lettera indirizzata a Cavour, dove Vittorio Emanuele descrive così il presunto eroe dei due mondi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi. Questo personaggio non è affatto docile né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che si è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo paese in una situazione spaventosa.

 

E siccome questo individuo per noi non rientra nella categoria di patriota, alla nostra storia serve un “antagonista”, un eroe che stia dall’altra parte della barricata (per inciso: quella dove ci poniamo anche noi). E allora non basta Gaeta, non basta Civitella, non basta Francesco II, non basta la regina Maria Sofia che combatté eroicamente sugli spalti della fortezza di Gaeta insieme agli altri soldati; ecco giunge in nostro soccorso l’eroe romantico di questa pagina di storia: José Borjes che al grido di “Per Dio, la Patria e il Re” sposò la causa del Regno delle Due Sicilie.

Nel luogo in cui morì Borjes, e vi dirò fra poco come muore, fu fatta mettere una targa che recitava queste parole “soldati italiani che prodamente debellavano l’ardita banda mercenaria che, capeggiata da José Borjes, mirava a restaurare il nefasto regime borbonico.

Non spendo ulteriori parole per controbattere il finale perché sarebbe pleonastico; Borjes non arrivò in Italia con mille uomini, né con le finanze della corona d’Inghilterra. Borjes aveva con sé 22 uomini e 20 fucili. E questa targa lo chiamava mercenario. Uso l’imperfetto perché fortunatamente gli abitanti di Tagliacozzo sono riusciti a far togliere quella targa, mettendone una in favore di quegli eroi dove, ancora oggi, sventola la bandiera borbonica. Tra i tanti appellativi che leggerete di Borjes, troverete anche “brigante”. Inutile dire quanto nell’immaginario collettivo e nel sistema scolastico italiano si sia costruita “ad hoc” l’immagine del brigante come un malvagio tagliagole. Noi sappiamo benissimo che questi briganti combattevano contro un invasore e combattevano per una causa. Nel suo ultimo scontro a fuoco, a Borjes fu fatta la promessa di aver salva la vita, la sua e quella dei suoi soldati, se si fosse arreso. Una volta arresisi i ribelli, furono fatti spogliare delle divise per indossare degli stracci sporchi. Eccola qui creata ad arte l’immagine del brigante, non quello del soldato che conserva la divisa e l’onore di fronte all’imminente morte. Borjes morirà dopo essergli stata negata la confessione, invocando il nome di Dio e del re.

 

Prima ho citato Fra’ Pantaleo, il frate rivoluzionario che accompagnava Garibaldi e lo annunciava come l’inviato da Dio, manco fosse Giovanna d’Arco.

Quindi non posso fare a meno di ricordare un altro ecclesiastico (lui sì) padre Leonardo Zilli, cappellano militare, francescano che con grande devozione ogni giorno celebrava alle ultime truppe di Civitella la Santa Messa. Quando cadde Civitella del Tronto, Fra Leonardo Zilli fu fucilato alla schiena e gli fu negata l’Eucarestia.

 

Ecco che non posso fare a meno di pensare al Risorgimento come ad un mistero dell’Iniquità; la grande Parodia che fa il deserto e lo chiama pace; che stabilisce l’arbitrio dei poteri forti e lo chiama libertà; che fonda il potere del profitto e lo chiama giustizia; che avvelena e distrugge il mondo e lo chiama progresso; che semina angoscia e disperazione e le chiama felicità.

 

L’ultima volta che siamo stati a Civitella è stato a novembre. Approfittando di una pausa dal nostro annuale convegno, vado a fare una passeggiata. Ormai sono pochi gli abitanti, un po’ perché è la triste realtà di tutti i borghi d’Italia, un po’ perché è zona sismica. Ad ogni buon conto, faccio la conoscenza di due anziane signore di Civitella. Visti i pochi abitanti, avranno già capito che sono uno straniero in quella terra. Ci scambio qualche parola sul motivo del mio soggiorno scatenando il loro entusiasmo e il loro giubilo. Prima di congedarci, dopo una battuta scherzosa sul tricolore, una delle signore mi disse: “Qua di tricolori non ne vedrai, eccetto il comune che deve salvare le apparenze; qua la bandiera ce l’hanno imposta, ma per noi c’è solo una bandiera.

Questo sentimento che vi ho raccontato non è solo di Civitella, è di molti altri paesi, di molte altre persone che rinnegano quell’unità, che fu forzata e forzosa.

A questo punto mi viene doveroso fare una considerazione personale. Se mi chiedete se sono contrario all’Unione (non Unità, che tra l'altro ricorda testate giornalistiche a me poco gradite) d’Italia nel senso di “italianità”, vi risponderò di no, non sono contrario. Ma è doveroso raccontare quello che fu commesso, a Civitella, come in tutto il sud Italia. E visto che ormai da quella unità sono passati più di 160 anni, mi sembra lecito esigere l’onestà intellettuale di raccontare i fatti.

Essere nostalgici non serve a niente. Essere nostalgici significa vivere col rimpianto di tempi che sono passati e che necessariamente non torneranno. Ho trentadue anni, quindi sono ben lontano da quei tempi che furono. A noi compete essere realistici nei tempi in cui siamo costretti a vivere; fasti o nefasti che siano. Ciò non toglie che possiamo guardare al nostro passato: conoscere, comprendere, finanche abbracciare quei valori per cui combatterono i nostri nonni e i nostri bisnonni. Questo sì, lo reputo virtuoso.

 

Concludo con le parole di Francois-René De Chateaubriand che illuminano la giusta via per capire il senso e lo spirito di questo libro che Pucci ha voluto scrivere:

Il mondo era stato sedotto dicendo che il cristianesimo era nato in seno alla barbarie, assurdo nei dogmi, ridicolo nelle cerimonie, nemico delle arti e delle lettere, della ragione e della bellezza; un culto che non aveva fatto che versare sangue, incatenare gli uomini, ritardare la felicità e i lumi del genere umano. Bisognava dunque cercare di provare il contrario, cioè che, di tutte le religioni mai esistite, quella cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti e alle lettere; che il mondo moderno le deve tutto, dall’agricoltura fino alle scienze, dai ricoveri per i bisognosi fino ai templi progettati da Michelangelo e decorati da Raffaello. Era necessario dimostrare che nulla è più divino della sua morale, nulla è più amabile, più grandioso dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto. Si doveva dire che essa favorisce il genio, affina il gusto, sviluppa le passioni virtuose, dona vigore al pensiero, offre forme nobili allo scrittore, e stampi perfetti all’artista.

Vittorio Acerbi