Controrivoluzione
Organo ufficiale dell'ANTI 89 diretto da Pucci Cipriani
giovedì 14 marzo 2024
Presentazione: "Da Barbiana al Forteto. Don Milani e il Donmilanismo" (Firenze, 19/03/2024)
giovedì 23 novembre 2023
lunedì 6 novembre 2023
sabato 10 giugno 2023
giovedì 16 marzo 2023
sabato 11 febbraio 2023
giovedì 8 dicembre 2022
mercoledì 7 dicembre 2022
Instaurare omnia in Christo (di Giovanni Tortelli)
C’è
un Io lirico che attraversa tutte le opere di Pucci Cipriani, specchio
della sua stessa essenza di uomo che gli permette di vivere la vita con
l’entusiasmo del giovane, con la lucida cognizione del saggio e con la
perseveranza del forte.
Se
poi il lirismo di Pucci Cipriani è per sua natura inscindibilmente connesso
alla religiosità convinta del christifidelis, possiamo concludere che
tutta la vita del professor Pucci Cipriani è la testimonianza stessa dei valori
assoluti dell’autentico cattolicesimo romano.
Quest’ultimo
saggio (Pucci Cipriani, La Messa clandestina, “Mira il tuo popolo”,
Solfanelli 2022) - che l’Autore ci regala nell’imminenza di questo Santo
Natale, nella solennità dell’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, che
cambiò il senso della storia dell’uomo - traluce dei valori assoluti vissuti da
Pucci e che egli ci trasmette con generosità, un insegnamento dal quale ciascuno
di noi potrà trarre la propria lezione ma di cui dobbiamo fin d’ora essergli
riconoscenti: una lezione di fede autentica vissuta sul luogo stesso del
Sacrificio, cioè sull’altare nella Santa Messa di sempre; una lezione di fede
assoluta nella missione salvifica della Santa Chiesa apostolica romana come
unica depositaria della Rivelazione; una lezione di fede cattolica nell’ordine
della creazione e quindi nella gerarchia «mensura,
numero et pondere»
(Sap. 11,20) di tutte le cose; una lezione di culto nel paschale sacramentum
della liturgia perché nel culto, e solo nel culto liturgico, il cattolicesimo
possiede e conserva integra la sua complessa unità. Nella teologia il
cattolicesimo possiede la sua dottrina, ma nel culto liturgico il cattolicesimo
possiede tutto se stesso.
Questo
di Pucci Cipriani è appunto un saggio liturgico. Non dico la lettura, che pure
è esaltante, ma la sua attenta comprensione e meditazione è già un’orazione di
lode e di ringraziamento al Signore.
Voglio
dire che con questo libro, Pucci Cipriani ci consegna un chiaro invito ad
adorare Nostro Signore in tutte le cose.
La
liturgia corre parallela al tempo, non a caso si parla di “tempi liturgici”, e
come dicono Giovanni Pallanti nella bella presentazione e Ascanio Ruschi nella
sua eloquente prefazione, il tempo, legato ai mesi e alle stagioni dell’anno, è
il grande protagonista di queste pagine. Purché si concepisca questo tempo come
tempo religioso, la vera chiave di volta per comprendere - e dare il senso
proprio che loro compete - alle memorie scelte dall’Autore per queste pagine.
Pucci
Cipriani ci introduce dolcemente nel mistero cristiano della vita quotidiana,
nel mistero cristiano che è soprattutto mistero liturgico che ammanta e ordina
tutte le cose, perché solo attraverso la liturgia - che la Tradizione ha
affidato alla Chiesa - possiamo veramente trovare la via della salvezza
indicataci dal Signore: Instaurare omnia in Christo.
In
queste pagine la mente umana abbraccia la vastità del piano di Dio e su questo
piano si dispiegano i ricordi e i valori assoluti di fedeltà e di amore alla
Chiesa che Pucci ci ha trasmesso in tutte le sue opere, soprattutto con la
testimonianza della sua vita. Qui i ricordi sono come i grani di un rosario che
l’Autore recita con la fede tranquilla di chi osserva le cose sotto il segno
della divina carità.
Borgo
San Lorenzo, l’amato borgo natìo. Quel giovane studente camerte, oggi
sacerdote, regala ai fedeli convenuti alla Villa “Gli Ochi”, quell’assaggio di
Paradiso – così lo chiama l’Autore, ed è vero – che è la Messa solenne in rito
romano antico. La delizia dei luoghi si incontra con l’Autore della Creazione
in un mirabile connubio di Grazia e di Natura.
Da
qui il titolo del saggio: una Messa per pochi, quasi catacombale, lontana dagli
edifici di culto ufficiali dai quali è purtroppo bandita da sessant’anni, da
quella disgraziata riforma liturgica che volle la protestantizzazione del rito a
fondamento della Chiesa. È nella Messa di sempre che la Chiesa trova e ha
sempre trovato la sua essenza identitaria.
Da
qui, l’occasione per parlare delle “Insorgenze” in terra di Mugello scoppiate
fra il 1796 e il 1799 contro le truppe francesi è ghiotta, e il professor
Cipriani non se la lascia scappare: quadri e scenari di una religiosità
campestre che si tradusse in difesa della propria confessione cattolica, a
monito per tutte le generazioni, soprattutto per quel piccolo resto delle
generazioni future, a cominciare da quelle attuali, che lo sapranno cogliere. Un
lavoro oltretutto meritorio, quello di Pucci Cipriani, ché altrimenti tante
memorie locali sarebbero cancellate dai libri di storia.
“Cacciati
i francesi – ma presto ritorneranno! – si fece festa nel Mugello e nella Val di
Sieve. La popolazione si riversò nelle chiese dove vene cantato il Te Deum
di ringraziamento e aretini e popolani della terra di Giotto e dell’Angelico
ringraziarono anche la Madonna del Conforto …”. Come si vede, non solo la
natura con le sue bellezze della Creazione, ma anche la storia si riconnette
alla liturgia, ed è logico: la venuta di Gesù Cristo segna la fine dei tempi e
tutte le cose, anche la storia, hanno origine e fine in Lui e a Lui vanno
ricondotte, perché Cristo è la vita del mondo e tutto il mondo e tutta la
storia vivono il mistero di Cristo come un mistero pasquale, cioè come un
“passaggio” dalla legge alla libertà, dalla morte alla vita, dalla terra al
cielo.
Semplicemente
commovente il resoconto della visita della Madonna di Fatima a Luco di Mugello,
le parole dell’Autore riescono a rendere perfettamente l’atmosfera di festa ma
anche di commozione che colpiva tutti quelli che ammiravano quella santa
immagine incoronata. Tutta la campagna, e poi le strade di Luco e la chiesa
festante risuonava di “Ave Maria!” e di inni alla Vergine Madre. La folla
faceva ressa per entrare dentro la chiesa e davanti ai confessionali sostavano
file di fedeli in attesa del proprio turno. Quale miracolo più grande poteva
fare Maria se non quello di spingere i suoi figli prediletti a chiedere perdono
e a riconquistare la perduta Grazia, segno della potenza rigenerante e
salvifica che la Chiesa elargisce ai suoi fedeli tramite i segni liturgici
della penitenza, della lode, del ringraziamento e dell’impetrazione.
Libro
prezioso, questo di Pucci Cipriani, per darne conto in qualche modo in una
recensione dovremmo soffermarci su ogni singolo capitolo, su ogni singola
pagina, sui rimandi letterari, di storia nazionale e locale, sulle curiosità,
che le annotazioni dell’Autore offrono abbondanza. Dalle campane del campanile
longobardo di Borgo san Lorenzo, all’importanza liturgica delle campane,
annunciatrici di gioie e dolori, di nascite e di morti: “Quanto più bello e
umano dunque non nascondere la morte, ma anzi annunziarla col suono delle
campane come fa quel mio caro amico, il parroco di San Donato in Poggio (…) che,
con il triste rintocco suono delle campane ripetuto più e più volte, durante il
giorno, quando scompare uno dei suoi parrocchiani, sembra far catechismo e
ricordare a tutti che, dopo la morte, che chiede silenzio e rispetto, le
campane suoneranno l’Alleluia nel giorno della Risurrezione del Signore”.
E
come non soffermarci poi sull’importanza delle rogazioni che un tempo si
svolgevano con processioni in mezzo ai campi il 25 aprile e nei tre giorni
precedenti l’Ascensione. Una preghiera semplice, spontanea, prevista e regolata
dalla Chiesa, un innesto di fede nella natura campestre, un connubio felice fra
liturgia cattolica e sensus fidei del popolo, anch’esse un modo naturalmente
sublime di Instaurare omnia in Christo.
Come
non ricordare poi, fra gli spunti offerti da questo libro straordinario di
Pucci Cipriani, l’illustre mugellano Tito Casini, non solo l’autore del celebre
saggio La Tunica stracciata, ma anche il fondatore – insieme ai “cattolici
belva” Domenico Giuliotti e Giovanni Papini – dell’altrettanto celeberrima
rivista Il Frontespizio.
Esattamente
come il professor Cipriani, anche il professor Tito Casini descrisse il mondo e
la vita rurale come baluardo della cultura cattolica nei confronti del laicismo
che avanzava. Esattamente come Pucci Cipriani, anche Tito Casini usò quella
lingua musicale e scintillante che forse i neonati mugellani acquisivano
succhiando il latte materno. Entrambi questi illustri figli del Mugello, con le
loro opere, hanno messo in luce qual è il male spirituale odierno, cioè quella
che Romano Amerio chiamava la “de-adorazione”: “Il problema dell’uomo è il
problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e
sostanza”.
Esattamente
quello che Pucci Cipriani ha fatto in ogni pagina di questo splendido libro e
nella sua stessa vita, adorando Dio nella Messa cattolica di sempre egli ha
portato dentro l’adorazione anche tutto il resto del mondo. Con la riverenza,
il rispetto, il tremore e la tenerezza religiosa dell’autentico cattolico.
Giovanni
Tortelli
martedì 6 dicembre 2022
Recensione a “I padrini dell’Italia rossa” di Roberto de Mattei
L’opera
storiografica di Roberto de Mattei si arricchisce oggi del nuovo e prezioso
saggio che il Professore dedica al decennio dagli anni Settanta agli anni
Ottanta del secolo scorso (Roberto de Mattei, I padrini dell’Italia rossa,
Solfanelli, Chieti 2022, collana Interventi).
Si
tratta di una raccolta di sei articoli, scritti dal dicembre 1975 all’aprile
1979 da un Roberto de Mattei poco più che trentenne, che colpiscono per la
profondità e la compattezza dell’analisi politica, per la lucidità e la
fondatezza delle tesi esposte, per la maturità e la conoscenza dello scacchiere
politico interno e internazionale, ma anche per il coraggio del loro Autore,
capace di alzare una voce già autorevole, critica e controcorrente di fronte a
un’opinione politica uniforme e piatta, poco o punto abituata agli scenari
presentati in quegli articoli.
Eventi
politici di rara gravità per la Repubblica dovevano però accadere proprio in
quel decennio, iniziato con opachi collegamenti fra le istituzioni, tensioni
fra i Poteri, misteri e segreti di Stato veri o artefatti, gran parte dei quali
ancor oggi insoluti o coperti. Dovevano accadere eventi straordinari e dolorosi
per tutto il Paese, che avrebbero imposto scelte istituzionali altrettanto
dolorose.
Fu
un decennio di stragi, aperto nel 1969 dalla più emblematica di tutte, quella
di Piazza Fontana a Milano, e poi Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 e la
strage alla stazione di Bologna nell’agosto 1980. Nel mezzo di quegli anni, l’approvazione
della legge sul divorzio nel 1974 e quella sull’aborto nel 1978, le prime e
forti tensioni fra la politica e la magistratura, i tentativi destabilizzanti
di una parte deviata dei Servizi segreti insieme al ruolo onnipresente della
Massoneria e in specie della Loggia P2 di Licio Gelli, e poi il caso Lockheed,
le dimissioni del Presidente Leone, fino all’assassinio di Aldo Moro e alla lunga
scia di sangue delle Brigate Rosse, che costituiscono il sigillo politico e
morale di un Paese per la prima volta seriamente provato nei suoi valori civili.
È
naturale che in quegli anni il mondo guardasse fisso agli affari interni
italiani, ogni atto della politica interna aveva riflessi internazionali, niente
di meno se si parlava di far entrare il Partito comunista nell’area di governo,
considerata la fedeltà all’atlantismo garantita da sempre dalla Democrazia
cristiana e dai suoi alleati di centro e la sudditanza politica e morale del
comunismo italiano verso quello sovietico.
Il
contesto politico stava però già cambiando, e gli articoli di de Mattei ce lo
spiegano molto bene, sia in Italia che nel mondo si stavano muovendo dietro le
quinte quei “padrini” dell’Italia rossa da cui il titolo emblematico del
presente saggio.
Un
nuovo vento stava spirando sia sulla politica interna italiana che su quella
internazionale, le grandi forze economiche e finanziarie alla guida dei destini
politici del mondo stavano riposizionandosi dopo un intervallo durato dalla
fine della seconda guerra.
Chi
erano questi “padrini” che a un certo punto vollero un revirement così
profondo della politica non solo italiana verso i comunisti nostrani, ma della
politica internazionale verso le forze più progressiste del mondo intero? L’Autore
ci spiega che queste forze non erano altro che le punte di diamante dell’altissima
finanza internazionale, capaci di larghe influenze anche sui destini politici
di Stati e Governi, forze di élite che prepararono e aprirono in Italia alla
possibilità di cooptazione del Partito comunista di allora come forza di
governo nazionale, in linea con un generale appoggio ai regimi progressisti del
mondo, più sensibili a un cambiamento tecnologico e tecnocratico.
In
altre parole si pianificò - da parte dei potentati economici e finanziari più
esclusivi del mondo - una politica progressista “controllata” su scala mondiale,
finalizzata alla realizzazione di una sorta di «repubblica universale» fondata
sui nuovi valori di una democrazia limitata dalla supremazia tecnologica e
tecnocratica di una ristretta classe dirigente al potere.
Con
sorprendente lucidità, in quegli articoli Roberto de Mattei spiegava che in
tutto ciò non vi era alcuna contraddizione. Che alta finanza e comunismo
potessero dialogare con reciproche soddisfazioni non doveva scandalizzare, era
già successo con la Rivoluzione d’ottobre finanziata in gran parte dal
capitalismo germanico. Supercapitalismo e comunismo hanno infatti il medesimo
obiettivo di eliminare la proprietà privata: i comunisti come tappa necessaria
per arrivare alla dittatura del proletariato; l’alta finanza per creare un
nuovo tipo di società tecnologica manovrabile e controllabile da una ristrettissima
élite di potere, i tecnocrati. Naturalmente ciò non poteva avvenire dalla sera
alla mattina ma tramite un percorso di avvicinamento fra sistemi economici avversi,
percorso che fu individuato negli istituti bancari di prima importanza, giudicati
idonei apripista per intese di integrazione sempre più larghe e proficue in
ogni campo fra sistemi capitalisti e sistemi comunisti.
Così
le Banche, sempre più multinazionali e sempre meno ideologiche, potevano
cominciare a incontrarsi per affari sempre più in larga scala coi partners
oltrecortina, e con ciò fare ponte per la politica.
Accanto
alle banche, operavano già consessi come l’anglo-americano Council of
Foreign Relations, il trans-nazionale Bilderberg Club o in Italia l’Istituto
Affari Internazionali fondato da Altiero Spinelli, come delle vere e
proprie sponde di una politica riservata se non occulta, ad altissimi livelli, lontana
dai riflettori dei media e quindi assolutamente libera da controlli. A distanza
di più di quarant’anni da quegli articoli di Roberto de Mattei, e il professor
de Mattei quarant’anni prima di tutti noi, si accorgeva e scriveva che “pugni
di uomini simili per interessi e prospettive, manovrano gli avvenimenti da
posizioni invulnerabili dietro le quinte”.
I
primi abboccamenti fra l’altissima finanza anglo-americana e i comunisti
italiani (grazie anche all’anello di congiunzione della Famiglia Agnelli), potevano
dirsi contemporanei a un generale ripensamento dell’alta finanza nei confronti
del progressismo mondiale. L’Autore ne dà prova, nel suo articolo del gennaio
1977, a proposito dell’elezione del democratico Jimmy Carter alla Presidenza
degli Stati Uniti, favorita dal formidabile appoggio della Trilaterale di David
Rockefeller (Chase Manhattan Bank) e di quel politico di lunga esperienza che
fu Zbigniew Brzezinski, poi Consigliere per la Sicurezza nazionale dello stesso
Carter, e del suo potente entourage saldamente arroccato con la finanza
democratica di Wall Street.
Forse
la scelta caduta su Carter fu anche avventata o semplicistica, ma è un fatto
che quel nome fu scelto in nome del progressismo: si volle un uomo semplice come
Jimmy Carter, simbolo dell’«uomo nuovo» non attaccato al potere, emblema del
pioniere stelle e strisce, onesto e coraggioso, incarnazione dell’autentico
spirito americano dopo lo scandalo Watergate.
L’Italia
era però anche quel campo fertile di un sottobosco politico ed economico che
negli stessi anni fra il Settanta e l’Ottanta produsse fenomeni come Michele
Sindona e i suoi opposti Enrico Cuccia, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli.
Tutti più o meno affiliati o per lo meno contigui alla Massoneria
internazionale e tutti abituati ad un lavoro di cui si potevano anche
intravvedere i risultati ma non certo la progettazione né la preparazione.
In
quegli anni, spiega l’Autore, il repubblicano Ugo La Malfa incarnava l’icona
dell’antifascismo e della laicità dello Stato liberale kelseniano, e
sicuramente anche quella del referente di rapporti di politica ed economia
internazionale ad altissimo livello, lontano com’era da ogni compromesso col
Vaticano e con le sue finanze e quindi tanto più gradito al mondo finanziario
americano fondamentalmente protestante e calvinista. Nell’ultimo articolo del
Saggio, datato 28 aprile 1979, Roberto de Mattei ricostruiva minuziosamente la
figura di questo politico che era maturato però all’interno della Banca
Commerciale Italiana, una sorta di “Università segreta” come la chiamò allora
l’Autore, luogo nel quale La Malfa incontrò il pensiero keynesiano, il sistema
alla base del New Deal, e dove incontrò anche l’alta finanza internazionale e
l’imperitura Fabian Society stabilendo amicizie e intese strategiche. Fu nel
1962, scriveva de Mattei, che La Malfa ebbe il suo grande momento con la
nascita del centro-sinistra, vero punto di partenza del lungo cammino di
avvicinamento fra finanza e comunismo italiano, acquisito come forza
democratica di governo.
“Alle
soglie dell’ultimo passaggio del compromesso storico – scriveva allora de
Mattei – si chiude bruscamente l’avventura terrena di Ugo La Malfa” ma con lui
se ne andava anche l’illusione di quei tanti come lui, intellettuali, laici,
antifascisti, agnostici, anticlericali, in buona parte massoni, che avevano
creduto fino in fondo al loro progetto e poi – secondo le ultime parole dello
stesso Ugo La Malfa - “alla fine una grande amarezza”.
Roberto
de Mattei concludeva allora che i due veri partiti del mondo sono in realtà
solo due: “Quello dell’amabile Salvatore sta alla destra, su di un sentiero
angusto, sempre più ristretto dalla corruzione del mondo (…). A sinistra c’è il
partito del mondo e del demonio, ed è più numeroso, più magnifico e, almeno nell’apparenza,
più splendido”, parole che suonano ancor oggi come un epitaffio, tuttavia pieno
di speranza, per Ugo La Malfa.
Mi
sono chiesto la ragione che ha spinto il professor de Mattei a ripubblicare
queste sue gemme di pensiero datate lungo gli anni Settanta, e posso azzardare
una risposta solo guardando non solo alla vastissima e lungimirante cultura del
Professore che vedrà – immagino - il ripetersi di certi “motivi” alla base
degli eventi storici e politici, ma anche alla sua straordinaria sensibilità religiosa
che nella dottrina cattolica è carità. Carità verso i suoi simili perché
attraverso queste gemme di pensiero il professor Roberto de Mattei affida ai
destinatari la possibilità di cogliere il tremendum di questi ultimi
tempi in quei motivi che si ripetono ieri e oggi, segno della natura stessa
dell’uomo.
mercoledì 21 settembre 2022
A Civitella del Tronto il richiamo della Tradizione
Devono averlo riproposto negli anni Sessanta lo sceneggiato che apparve in TV, a puntate, tra il novembre e il dicembre del 1954, in bianco nero, "L'Alfiere", tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Alianello; ricordo di averlo visto in TV negli anni Sessanta e, naturalmente, parteggiavo per Francesco (Pino), il giovane napoletano, Alfiere del Re, che combatte per la Patria mentre i suoi coetanei si rifiutano di prendere le armi e di combattere per il proprio Re... figuriamoci, sebbene tricolorato e risorgimentalista – son passati una sessantina di anni – ero già allora un vero conservatore (comprai a Napoli, sulla Collina del Vomero, il libro di Barry Goldwater “Il vero conservatore" pubblicato nelle Edizioni del Borghese, che mi affascinò), e ricordo bene quelle serate in cui "mi bevevo" le puntate de "L'Alfiere" (preso dalla libreria paterna avevo letto, ancora ragazzo, il romanzo dell'Alianello nelle edizione Einaudi del 1944, senza dargli particolare importanza) la storia del giovane eroe napoletano.
Sprofondato nella "poltrona della nonna", quasi a sentirmi
protetto dall'allora nascente Sessantotto, ammiravo le gesta dell'eroe
"napolitano" e mi rodevo per la viltà dei suoi coetanei (anche se
allora parteggiavo per i tricolorati), mentre fuori imperversava l'incipiente
Sessantotto... i "capelloni", i "figli dei fiori", le
"Comuni" e il libero amore, la marijuana e l'LSD, il messaggio d'odio
di don Milani per cui la scuola seria andava abolita insieme al latino, alle
bocciature (todos caballeros), il disprezzo per la "divisa" e per
l'esercito e, in primis, per i cappellani militari, l'invito alla diserzione e
all'obiezione di coscienza perché "l'obbedienza non è più una virtù ma la
peggiore delle tentazioni" (don Milani).
Don Luigi Stefani, il Cappellano della “Tridentina" – nei cui
confronti don Milani metterà su, di fronte ai ragazzi e allo stesso don Stefani,
un infame processo farsa – così scriveva nel 1972 in una biografia su don Carlo
Gnocchi:
«Morente amico mio, avvi espresso il desiderio di ritornare a Firenze (...)
Tante cose sono cambiate da allora! A Firenze e in Italia (...) Una progressiva
degenerazione sta avvelenando l'anima stessa della Patria; e la corruzione e la
disonestà si sono insinuate in tutti i campi.
Ritorna! Ti incontrerai con preti che hanno perduto la testa e
contestano l'autorità (...) Vedrai derisi gli ex combattenti, i cappellani
militari; esaltati i cosiddetti "obiettori di coscienza", tu che
vestivi con orgoglio il tuo grigioverde e portavi con fierezza il tuo cappello
alpino (...)
Ritorna! Anche nel tuo collegio è entrata la contestazione. Molte
ragazze poliomielitiche, che dovrebbero piangere di gratitudine pensando a te,
non sanno niente di te, non ne vogliono sapere. La scuola esterna le ha avvelenate.
Hanno perduto la fede. Si sono lasciate strumentalizzare da chi diabolicamente
ha strumentalizzato anche la loro infermità.»
(Cfr Don Luigi Stefani, "Il Santo con la penna alpina - Ricordo di
don Carlo Gnocchi", Ed. Quaderni de "Lo Sprone")
Il Sessantotto era stato preceduto dal Concilio Vaticano II (1965) che
fu, secondo il rosso cardinal Suenens, "il Sessantotto della Chiesa"
per cui, nella società, al Sessantotto seguirono gli eccidi delle Brigate
Rosse, le liste di proscrizione, gli agguati e i crimini dei vari movimenti
armati della Sinistra (per la TV le BR erano "sedicenti", per un
Presidente della Repubblica erano "nere"), mentre al Concilio seguì
il "Postconcilio" e, mentre nella società fu tolto il latino con
conseguente "caduta libera" della scuola, nella Chiesa fu tolta la S.
Messa in rito romano antico per cui, invece Sacrificio della Croce, la Messa
divenne, alla maniera protestante, la "cena".
Noi – e quando dico "Noi!" intendo quei giovani di
"destra" o di estrema destra, per l'ordine costituito, contro il
Comunismo, per il tricolore e per il Risorgimento che pensavamo avesse
"finalmente" unito la Patria... insomma più vicini, senza esserne
coscienti, al "giacobinismo di destra" e alla "destra
storica" (che fu più sovversiva della sinistra) che alla Tradizione – ci
battevamo contro la contestazione nelle Università e ci schieravamo,
giustamente, sempre a fianco delle forze dell'ordine... per chi volesse avere
un quadro della situazione caotica di allora nelle Università e nella Chiesa
consiglio la lettura di un affascinante saggio di Duilio Marchesini (il famoso
"Cazzotto di Dio" che ebbi l'onore di conoscere, npc) e Giancarlo
Scafidi: "Nati per combattere - dalla Sapienza a Regina Coeli" (Tabula
fati, 2020).
Ero a Napoli – come già ho raccontato nel mio "Dal natìo Borgo
selvaggio" (Solfanelli, 2017) – e avevo aderito al PPM (Partito Popolare
Monarchico) di Achille Lauro – un personaggio che mi ha sempre affascinato –
quando un giorno, prendendo la funicolare dal Vomero, il mio amico Bruno
Fichman, mi accompagnò alla sede del MSI che era proprio al capolinea in
piazzetta Duca d'Aosta... una trentina di giovani e giovanissimi della nostra
età stavano discutendo con i fratelli Gennaro e Angelo Ruggiero e Gennaro
criticava un inserto sul Brigantaggio apparso sul settimanale "Lo
Specchio" (ero anch'io lettore di quel giornale con il quale, poi,
collaborai facendo fare l'ormai famosa intervista che smascherò il prete rosso
don Milani) in quanto si considerava quella pagina di storia completamente negativa...
mentre ci fu un "Brigantaggio" lealista, una vera e propria
Resistenza all'invasore piemontese tricolorato.
Da lì iniziò il mio "Revisionismo storico" ... "L'Alfiere",
che un tempo consideravo come una sorta di romanzo "di guerra", certo
ben scritto ma nulla più – allora mi domandavo, però, perché ce l'avesse tanto
con l'Unità d'Italia e i "gloriosi bersaglieri" (sic) – divenne per
me una sorta di Bibbia e in un dialogo tra il giovane alfiere Pino e il suo
superiore il Tenente Franco, c'è tutta la spiegazione e la bellezza della
Tradizione e l'orgoglio della fedeltà all'onore e alla Patria:
«E la libertà,» chiese Pino, «che n'hai fatto?»
«Ce l'ho qui,» rispose Franco e si batté sul petto, «giacché tra la mia
e quella dei liberali ho scelto liberamente, da uomo. Non mi piace la loro
libertà, ché quando te la vengono a imporre con le baionette, non è più essa.
Io sto da questa parte, perché così piace a me che sono don Enrico Franco, e mi
piace perché oggi è la parte più bella. Altri combattono e muoiono per una
conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento, magari, un
ideale, ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza. Qui non c'è vanità,
non c'è successo, non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora.
Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono l'onore, la
fedeltà, la bandiera e la Monarchia perché son padroni di sé e servitori di
Dio. Ieri forse poteva sembrar più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con
noi c'è la sventura e questa è la parte più bella (...) Preferisco combattere
al mutar casacca.»
Quando a sera infuriava la contestazione e nelle strade rigurgitava sinistramente
la canea urlante – (rivolta ai Carabinieri del Battaglione Mobile)
"Camerata, basco ero, il tuo posto è al cimitero", "Almirante
boia Fanfani la su' tro..a", "Pagherete caro, pagherete tutto"
–, quando nell'università le "guardie rosse" impedivano l'accesso a
chi rosso non era, quando i Katanghesi andavano in giro ad aprire le teste come
cocomeri di Rassina, quando "Lotta Continua" rivendicava l'assassinio
del Commissario Calabresi ("Un gesto in cui si identifica tutto il
proletariato"), mentre con le chiavi inglesi Hazet 36 ("hazet 36 -
fascista dove sei") i comunisti spaccavano il cranio a Sergio Ramelli (il
Consiglio Comunale di Milano applaudì alla notizia della morte del ragazzo dopo
quaranta giorni di penosa agonia e di indicibili sofferenze), quando venivamo
assaliti perché "sorpresi" ad affiggere manifesti per la famiglia,
contro il divorzio, quando anche molti tra i "falsi" amici mi (e ci)
dicevano: "Ma voi siete sempre dalla parte dei perdenti... siete degli
sfigati ma chi ve lo fa fare?" ci ricordavamo delle parole di Franco
morente nella difesa di Gaeta: noi combattevamo e tuttavia combattiamo per
un'idea di bellezza, senza chiedere compensi, per un senso dell'onore, insomma
per la Verità, che è una sola e che si riassume nel motto: "Per Iddio, la
Patria, il Re"... spesso facendo un esame di coscienza sulla mia vita e
prendendo paura per il Giudizio inappellabile a cui nessuno potrà sfuggire, ringrazio
il Signore che, nonostante i miei peccati, mi ha fatto dato la gioia e l'onore
di poter combattere la "buona battaglia" (il "bonum
certamen")...
E non sono tanto le letture, pur belle, di storici come Giacinto De
Sivo, il Buttà, Carlo Alianello, Harold Acton, De Cesare, o le affascinanti
pagine di meravigliose riviste come "l'Alfiere - Rivista tradizionalista
napoletana" – fondata dall'indimenticabile On. Silvio Vitale – a farci
amare la Tradizione quanto l'esempio di quei "camerati" e fratelli
che dettero la vita per "essere uomini ancora": i Cristeros
messicani, i vandeani, gl'insorgenti antigiacobini italiani, i combattenti
dell'Armata Bianca della Carnia, i "Briganti" del Sud e i
"soldati napolitani" che combatterono sul Volturno, a Messina, a
Gaeta, a Civitella del Tronto e a coloro che, per non tradire, per non
"cambiar casacca" perirono nei lager dei Savoia e, poi, i milioni di
morti nei Gulag, nei Laogai e in tutte le prigioni del Comunismo assassino.
Già, il valore dei soldati napolitani a Civitella del Tronto, l'ultimo baluardo del Regno Duosiciliano... conoscevo i fatti storici della difesa di Messina e di Gaeta, ma ignoravo la Resistenza eroica della "Fedelissima" Civitella del Tronto quando lessi, fine anni Sessanta, un bellissimo e assai documentato libro di Giorgio Cucentrentoli, "La Difesa della 'Fedelissima' Civitella del Tronto 1860-1861" edito da "La Perseveranza" di Bologna (nel 1978 ristampai il libro come "Pucci Cipriani Editore"), un libro fondamentale che mi meravigliò, infatti, conoscevo Giorgio Cucentrentoli come storico "risorgimentalista", militante nel Partito Monarchico Nazionale, che aveva pubblicato in precedenza un ridondante volume "Squilli di un secolo"… esaltante tricolori, penne bersaglieresche, cariche sabaude a cavallo, trombe, trombette e tromboni etc...
Nel frattempo avevo conosciuto il prof. Paolo Caucci, Docente di
letteratura ispanica all'Università di Perugia, che, sin dalla fine degli anni
Sessanta, organizzava una gita a Civitella del Tronto una volta all'anno in
prossimità del giorno di San Giuseppe: partenza il sabato ospiti, per la cena,
in una villa nell'Ascolano dello stesso Caucci e, poi, al mattino, su, alla
Rocca... dopo aver assistito alla S. Messa in rito romano antico, la Messa di
sempre e di tutti, la stessa Messa che, ogni giorno, l'eroico cappellano
militare, il francescano padre Leonardo Zilli, celebrava portando l'Eucaristia
ai difensori, insieme al suo incoraggiamento e ai suoi ammonimenti: "Ecco
la nostra società – tuona il frate di Campotosto – ha perduto la grazia di Dio
e si è resa schiava miserabile del demonio e degna di eterni castighi... noi
tutti abbiamo offeso Dio che ci creò, ci redense, ci costituì suoi figlioli
adottivi con il Santo battesimo (...) invochiamo il suo perdono" e mentre
la pugna infuria p. Zilli depone sulla lingua dei soldati, in ginocchio, la
Sacra Particola: "Corpus Domini nostri Jesu Christi..." Il buon frate
conforta i feriti e si china, pietosamente, benedicente, sui morti...
Ogni anno, da cinquant'anni, mi reco a Civitella del Tronto, da
trentacinque organizzo i Convegni e, sempre salgo alla Rocca nella chiesa di
Sant'Jacopo, con lo stesso entusiasmo di quand'ero giovane... mi sembra che da
quel sacello nella chiesa dove officiava padre Zilli – poi barbaramente
fucilato alla schiena, insieme agli ultimi difensori, dai
"liberatori" tricolorati – si rianimino i corpi di quei soldati
eroici con le divise lacere e vengano verso di noi per ringraziarci delle
nostre preghiere e, soprattutto, per ringraziare della celebrazione della S. Messa,
che non è la cena, ma il Sacrificio della Croce che si rinnova, seppur in
maniera incruenta... e accanto a quei morti e al loro cappellano, anche don
Giorgio Maffei, il nostro cappellano per più di vent'anni, che sino all'ultimo,
nonostante l'età, ha celebrato la Messa di sempre e ha guidato la "via
Crucis" del venerdì... già, perché son certo che quella di aver potuto
sempre celebrare la Messa cattolica sia stata una grazia del Signore, ricevuta
per intercessione di padre Zilli da Campotosto... il nostro incontro con la
Fraternità San Pio X di Mons. Marcel Lefebvre ha fatto sì che i nostri incontri
abbiano dato opimi frutti... dalle nostre file sono fiorite anche due
vocazioni, due sacerdoti fedeli alla tradizione, due "ragazzi" (io li
ricordo così anche se ora hanno i capelli bianchi) oggi "sacerdoti in
eterno" cresciuti nei seminari della FSSPX, alla cui formazione non sono
stati estranei i Convegni di Civitella del Tronto: don Giovanni Carusi Spinelli
e don Stefano Carusi...
"Venire a Civitella – scrive il giovane Vittorio Acerbi, che lo
scorso anno, per la prima volta, salì alla Rocca e il venerdì sera partecipò
all'annuale "Via Crucis" per le vie del paese guidata dal nostro don
Gabriele D'Avino – vuol dire abbracciare una croce (...) come l'hanno abbracciata
quei soldati che a Civitella consapevoli del loro esito fisico, e certi del
loro esito metafisico, così ogni anno cerchiamo di farlo noi nel nostro piccolo
(...) nel rendere omaggio a quei dimenticati eroi. Dimenticati ma solo per la
storia (con la s minuscola appunto)."
Gli fa eco un altro giovane, il ventenne Edgardo Benfatto, studente
universitario di storia e filosofia di Cecina: "Poche le volte sono state
nella mia vita di percepire a pieno un ideale, un valore per cui combattere; sì
perché viviamo in un'epoca di profonda dissoluzione antropologica nella quale
ormai l'uomo sprofondato nel relativismo non è più in grado di conservare
un'identità. L'antidoto a questi mali non può che essere la Tradizione colei
che è in grado di fermare il tempo (che) riesce a unire quei cuori che battono
per lo stesso ed unico Dio. Civitella del Tronto ne è l'esempio."
Ricordo i giorni belli del novembre 2019 a Bergamo con quel Convegno
"Da Barbiana a Bibbiano", che scatenò "l'ira funesta" di
tutto il mondo criptocomunista (e agli alti lai dei trinariciuti si associarono
addirittura due arcivescovi... che Iddio li perdoni!). Convegno organizzato da
Filippo Bianchi, allora Consigliere Comunale di Bergamo e al quale
parteciparono, insieme allo stesso Bianchi e al sottoscritto, Jacopo Marzetti
allora Commissario del "Forteto" e Francesco Borgonovo Vicedirettore
de "La Verità" (l'unico quotidiano che si possa leggere) e, poi,
ancora a Monaco di Baviera, con la delegazione fiorentina (Filippo Bianchi,
Daniel Vata e Andrea Tortelli e il sottoscritto), dove il prof. Roberto de
Mattei aveva organizzato una "Acies ordinata" contro l'eresia
montante dell'episcopato germanico davanti alla cattedrale del Cardinal Marx:
per oltre un'ora immobili sotto il vento sferzante e il nevischio che ci
frustavano, in silenzio, a recitare il S. Rosario, e poi, al termine, il canto
del "Credo"... dopo invitammo gli amici (eravamo in tanti,
provenienti da "tutto il mondo") a Civitella del Tronto che si
sarebbe dovuta tenere a marzo... Quanta gioia ad aver fatto quel
"combattimento"... e al mattino la nostra Messa, la Messa di
sempre...
Ma poi, da allora, parafrasando padre Giovanni Bigazzi, posso ben
scrivere: “Non ho contato i giorni del dolore / so che Gesù li ha scritti nel
mio cuore.”
E al male si sono aggiunti il "coprifuoco" e le, talvolta,
assurde restrizioni, l'impossibilità di incontrare persone... insomma la
solitudine... per due lunghi anni... pensavo tristemente, che forse quella del
marzo 2019 sarebbe stata la mia ultima Civitella... ma riuscimmo a farne una
"raffazzonata" nel 2021 spostando la data da marzo a dicembre 2021,
con un gruppo di trenta "baldi giovani"... poi per la Pasqua di
quest'anno, il 2022, improvvisamente, un'altra forte "scossa" al
cuore e allora pensai definitivamente che quei cinquanta anni di
"attività", tutti quei Convegni, quell'entusiasmo sarebbero finiti.
Pensiero autoreferenziale quando si sostituisce l'io a Dio, quando l'orgoglio
ti fa pensare "cosa sarà senza di me?"
E invece ecco la gioia più grande: il nobile Ascanio Ruschi, quel ragazzino
(ha ora quarantatré anni) che ventisette anni fa veniva a Civitella del Tronto
mettendo da parte i soldi durante l'anno, quel ragazzino che da allora –
sopportando i miei brontolii e il mio caratteraccio – mi è stato vicino,
fraternamente, in tutto questo tempo, fedele in questo "quasi
trentennio", onorando il motto a me caro: "etiamsi omnes ego
non", continuerà a far vivere questa bella tradizione e, dopo di lui,
altri, "i vecchi e i giovani", per dirla con Pirandello, che,
fraternamente , insieme ad Ascanio, son sempre stati al mio fianco, prenderanno
il testimone: "Tradidi quod et accepi"... e se non avessi avuto paura
di scadere nella retorica e nel sentimentalismo melenso avrei inviato a tutti
loro, facendolo mio, il testamento di un guerriero vandeano del 1832:
«Cari figli, io vi lascio per tutto patrimonio, lo stesso zelo che me
ne ha privato... Dio voglia che ne siate ugualmente animati... Conservate tutte
le forze del vostro spirito e del vostro corpo alla difesa della vostra
Religione e del vostro Re. Siate virtuosi e costanti fate sempre tutto ciò che
potete per il bene del vostri Paese, ma ricordatevi sempre che dov'è il Re là è
la Patria. Non fate mai pace né tregua con i suoi nemici... ho ripreso le armi
per consacrare i giorni che mi restano da vivere a servizio del nostro Re
(Cristo Re!)...»
Come ogni anno ad aspettarci troveremo il Civitellese Daniele D'Emidio
che, l'ultima volta, mi regalò una scheggia di una "palla di fuoco"
nemica (piemontese) che trovò nei pressi della chiesa di S. Jacopo alla
Rocca... ce l'ho qui, sul tavolo del mio studio e la tengo come
"fermacarte" e troveremo il nostro on. Fabrizio Di Stefano con Mario
(Mario quest'anno porta la chitarra vogliamo cantare, insieme a te, la canzone
dei briganti!)... anche Fabrizio, nel momento del dolore, mi è stato vicino,
fraternamente... com'è vicino a tutti noi da oltre vent'anni.
In questo Convegno dedicato alla memoria del Principe di Braganza e del
prof. Piero Vassallo ci saremo tutti, i vivi e i morti... ora non ricordo molti
dei loro nomi "ma nel mio cuore nessuna croce manca", tra gli oratori
c'è il giovane veronese prof. Alberto De Marco che, tra i pensatori e letterati
della "Controrivoluzione", ha scelto di parlare su Pino Tosca, il
nostro indimenticabile Pino, saggista, poeta e scrittore, autore, tra l'altro,
delle parole de "La Vandeana" che tante volte fu con noi a Civitella,
sarà come poterlo ancora (ri)vedere e (ri)abbracciare.
Coraggio! Nessuno manchi a questo Convegno XXXV Incontro della
"Fedelissima"(venerdì 7, sabato 8 e domenica 9 ottobre 2022) dove,
dopo il canto del "Christus vincit" intonato da don Gabriele, grideremo
insieme, a "una voce", mentre sul pennone verrà issata a garrire al
vento la bianca Bandiera gigliata: Viva Cristo Re! Viva la Tradizione! Viva
Francesco e Sofia!
PUCCI CIPRIANI
martedì 20 settembre 2022
Civitella del Tronto, di Giorgio Cucentrentoli
Hanno alzato
una cortina
di menzogne e d'infamie
per nasconder
la sbrecciata muraglia
una cortina
di menzogne e d'infamie
per nasconder
la sbrecciata muraglia
che a difesa
si eresse
dell'Altare e del Trono.
Non chiedere
al mondo
i perché
della nuova, orrenda
barbarie.
Domandalo
sommessamente
ai sassi consunti
dell'antica Beretra.
Ti parleranno
d'orrori e di morte:
d'incendiati villaggi,
di gente braccata
tra le terre d'Abruzzo.
E ti diranno
il vero;
quel che la storia
"ignora" e non sai.
Libertà, ma dove?
Libertà, per quando?
Oh: cercane
fra i massi
di Civitella del Tronto
i suoi natali!
Cercali a Pizzoli,
a Carsòli,
a Borgo a Mozzano
tra le stragi orrende,
le cariche de' bersaglieri,
e 'l canto de' "Briganti"
partigiani del Re.
E vedrai che il disgusto
dell'oggi
ha ragioni lontane
che il vento,
o forse
una mezza parola
d'un vecchio
o d'un prete
che non conosce concili
ti potranno svelare.
Resta però un vaticinio
su que' muri cadenti
dove l'edera abbonda
a nasconder le crepe
di giacobina mitraglia:
"O l'azzurro vessillo
coi gigli...
o il frigio berretto
su la bandiera rossa!"
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro
venerdì 9 settembre 2022
XXV Convegno di Civitella del Tronto: UN GIOVANE INVITA I SUOI COETANEI (di Edgardo Benfatto)
Poche le volte sono state nella mia vita di percepire a pieno un ideale, un valore per cui combattere; sì perché viviamo in un'epoca di profonda dissoluzione antropologica nella quale l'uomo oramai sprofondato nel relativismo non è più in grado di conservare un'identità. L'antidoto perfetto per questi mali non può che essere la tradizione, colei che è in grado di fermare il tempo.
Riconosco che è molto difficile parlare di questi temi in un paese come l'Italia dopo le rivoluzioni ( perlopiù massoniche) novecentesche, ma come evocato poc'anzi ecco che la tradizione riesce a riunire quei cuori che battono per lo stesso ed unico Dio. Civitella del Tronto ne è l'esempio; quella rocca, il simbolo perfetto della resistenza controrivoluzionaria borbonica, dove ogni anno viene celebrata quell'eroica battaglia con un convegno di tre giorni. Una volta sola ho assistito all'evento, l'anno scorso, su invito del carissimo nonché grande amico Pucci Cipriani, vera e propria colonna della tradizione. Non potrò mai dimenticare la via crucis tra le strade del paesello, così come la messa e le varie relazioni dei presenti. Finalmente il 7 ottobre potrò tornare in questo luogo sapendo che sarà ancora in grado di regalarmi quello spirito magico come se fosse la prima volta.
Edgardo Benfatto
lunedì 5 settembre 2022
Civitella del Tronto: fortezza della Tradizione (di Ascanio Ruschi)
Il borgo fortificato di Civitella
del Tronto sorge a circa 600 metri slm, e la sua antica fortezza domina la
valle del Salinello e del Vibrata. Montagne impervie, ancora boscose e poco
abitate, proteggono la valle verso nord e ovest. Solo verso il mare i monti
degradano in colline, gli abitati sono più frequenti, e i segni della civiltà
rurale testimoniano una identità fortemente legata al territorio. Siamo quasi
al confine con le Marche, ma in terra di Abruzzi. Terra contadina, di confine,
da sempre contesa (in rapporto di complementarità e simbiosi) con la natura.
L’azzurro lontano del mare,
visibile nelle giornate più terse, è spesso oscurato dalle bianche nubi che
scendono dai monti. Venti freddi, talvolta carichi di neve, sferzano le vallate
civitellesi. Le strade che portano, tornante dopo tornante, al paese, spesso
interrotte da frane, sono attraversate da animali selvatici. Specialmente la
notte, quando le poche luci artificiali di vecchie cascine isolate non riescono
ad oscurare la brillantezza delle stelle e della luna.
A difesa del territorio svetta,
da oltre mille anni, l’antica fortezza di Civitella del Tronto, detta la
“Fedelissima”, ultimo baluardo del regno del Sud all’invasione piemontese, arresasi
dopo oltre 200 giorni di assedio e addirittura dopo 3 giorni la dichiarazione
del Regno d’Italia (17 marzo 1861). Sotto la fortezza, nei secoli è cresciuto
il piccolo borgo: strade strette e lastricate di ciottoli, piccoli ma eleganti
palazzi, sparuti lampioni che, quasi timorosi, illuminano di giallo il
passaggio.
E’ fondamentalmente una la strada
di accesso a Civitella del Tronto: attraverso Porta Napoli (ad oriente),
l’unica delle tre porte urbane ancora integra (della Porta di Vena ad occidente
è rimasto il passaggio a volta, mentre è sparita la meridionale Porta delle
Vigne). E accanto alla porta Napoli, la Chiesa di San Lorenzo, che si apre su
Piazza Franciscus Filippi Pepe, da cui uno splendido belvedere regala una vista
mozzafiato sui monti e sulla valle sottostante. Meravigliosa immagine della
fortezza che sovrasta il paese e la Chiesa, esemplificazione urbanistica di una
societas tradizionale che poneva il
potere temporale come strumento di difesa della Chiesa.
Dalla piazza la strada si restringe
nuovamente, e attraversa per lungo tutto il borgo. Imboccata la via, dopo pochi
metri, sulla sinistra, la bianca
bandiera con lo stemma del Regno delle Due Sicilie indica ove si terrà (e si
tiene di consueto) il nostro incontro. È proprio lì, presso l’hotel Fortezza,
che infatti ci ritroveremo nuovamente il 7, 8 e 9 ottobre per il nostro
consueto convegno della Tradizione, quest’anno dedicato ai protagonisti della
Controrivoluzione. È lì che, grazie all’assistenza della Fraternità San Pio X e
dei sacerdoti presenti, celebreremo la S. Messa in rito antico, la Messa di
sempre e di tutti, come
la celebrava l’umile e coraggioso frate francescano padre Zilli da Campotosto, durante
l’assedio di Civitella, assistendo gli stremati difensori e portando loro il conforto
spirituale. Da lì partiremo il venerdì sera per la Via Crucis. Fiaccole alla
mano, nel silenzio del paese, interrotto solo dalle preghiere del Sacerdote e
dalle risposte dei fedeli (“Quia per
sanctam crucem tuam redemisti mundum”)
circumnavigheremo, rispettosi, il piccolo borgo di Civitella, transitando
davanti alla statua di Matteo Wade, l’eroico irlandese che resistette alle
truppe francesi guidate da Gioacchino Murat, e alla piccola Chiesa di San
Francesco.
Lì, nella giornata del sabato, si
svolgeranno le relazioni degli amici che, per semplice amore della Tradizione, da
ogni parte della penisola accorreranno per testimoniare, ancora una volta, che
la Tradizione è viva, che non è mera riproposizione del passato, ma linfa
vitale del futuro. Mangeremo tutti insieme, rideremo e all’unisono intoneremo i
canti dei briganti. Brinderemo alle battaglie passate e future, e mestamente
ricorderemo chi ha lasciato la vita terrena (quest’anno Piero Vassallo). Non
dimenticheremo neanche quei pochi, pavidi e opportunisti, che hanno tradito
Civitella e la Tradizione. Anche per loro, meschini come quegli ufficiali che
aprirono le porte della Fortezza agli invasori, eleveremo le nostre preghiere.
Da lì, la domenica mattina,
stendardi al vento, ci avvieremo recitando il Santo Rosario, ascendendo alla
rocca, ove innalzeremo, ancora una volta, la bandiera del glorioso Regno delle
Due Sicilie, simbolo di un’epoca, e di valori, che ancora vivono e rivivono nel
cuore e nelle preghiere di chi ha fatto proprio il motto “etsiam omnes, ego non”. Sosteremo nella chiesa di San Giacomo, nel
punto esatto ove ancora giacciono i resti dei difensori, molti dei quali
fucilati, ad assedio concluso, per alto tradimento verso un regno che non era
il loro. Visiteremo la fortezza, oggi in parte restaurata dopo che venne quasi
rasa al suolo dagli invasori piemontesi, su ordine del generale Manfredo Fanti,
quale damnatio memoriae di quella
epica resistenza.
Agli eroici difensori di
Civitella, ma anche a tutti i combattenti della Controrivoluzione, dai vandeani
francesi ai cristeros messicani, dai briganti del sud ai carlisti spagnoli,
dagli zuavi pontifici agli insorgenti antigiacobini, dedicheremo i “nostri” tre
giorni di Civitella, sicuri che la fiamma della Tradizione, se Iddio vorrà,
splenderà in eterno.
E ancora una volta potremo
gridare “Viva Francesco e Sofia! Viva la Tradizione! Viva Cristo Re!”.
Ascanio Ruschi
mercoledì 20 luglio 2022
XXXV INCONTRO DELLA TRADIZIONE CATTOLICA DELLA "FEDELISSIMA" CIVITELLA DEL TRONTO (TE)
Pensatori e Letterati della Controrivoluzione
XXXV INCONTRO DELLA TRADIZIONE CATTOLICA
DELLA "FEDELISSIMA" CIVITELLA DEL TRONTO (TE)
Venerdì 7, sabato 8 e domenica 9 ottobre 2022
nel ricordo di S.A.I.R dom Luiz d'Orleans e Braganca
e del professor Piero Vassallo
Venerdì 7 ottobre
Ore 18:30 S. Messa in rito romano antico
Ore 19:40 Riunione conviviale
Ore 21:30 VIA CRUCIS CON FIACCOLE per le vie del paese
Sabato 8 ottobre
Ore 8:30 S. Messa in rito romano antico
Ore 10:00 Inizio dei lavori canto del Salve Regina
Ore 13:00 Interruzione dei lavori
Ore 16:00 Ripresa dei lavori
Ore 19:30 Terminano i lavori canto del Credo
Domenica 9 ottobre
Ore 10:00 S. Messa solenne in rito romano antico - Al termine bacio della Reliquia di san Pio X
Ore 11:30 Processione verso la Rocca con recita devota del Santo Rosario
Ore 12:20 Alzabandiera con canto del "Christus Vincit". Commemorazione dei caduti della "Fedelissima". Saluto alla voce
Ore 12:40 Nella chiesa di Sant'Jacopo alla Rocca recita del "De Profundis" di fronte al sacello contenente le ossa ritrovate dei soldati caduti nella difesa di Civitella del Tronto
Ore 13:00 Visita alla Rocca
Ore 13:40 Riunione conviviale - Arrivederci al 2023
L'Assistenza spirituale per i tre giorni è affidata al MR don Gabriele D'Avino della FSSPX.
La vendita dei libri è consentita all'editore Solfanelli, alle Edizioni Fiducia e alla Fraternità San Pio X.
Gli oratori possono mettere in vendita le loro pubblicazioni.
Oratori che saranno presenti: M.R. don Gabriele D'Avino - Ascanio Ruschi - On. Fabrizio Di Stefano - Pucci Cipriani - Massimo de Leonardis - Roberto de Mattei - Cristina Siccardi - Carlo Manetti - Marco Solfanelli - Carlo Regazzoni - Lorenzo Gasperini - M.R. don Stefano Carusi - Vittorio Acerbi - Alessandro Elia - Federico Catani
sabato 16 luglio 2022
martedì 7 giugno 2022
Presentazione del libro di Pucci Cipriani: "Napoli. Città del Trono e dell'Altare"
Domenica 5 giugno 2022 è stato presentato a Cecina, di fronte a un foltissimo pubblico, presso il Circolo culturale "Il Fitto", il libro di Pucci Cipriani: "Napoli città del Trono e dell'Altare: omaggio al Regno delle Due Sicilie"(Solfanelli). Alla presenza dell'Autore ha tenuto la sua relazione Vittorio Acerbi. Riportiamo di seguito il testo completo del suo intervento.
Probabilmente
l’idea di questo libro nasce da parecchio tempo, ma certo posso affermare che
in qualche misura abbiamo seguito la stesura (nonostante qualche preoccupazione
durante il percorso).
Ricordo
nitidamente quel 16 marzo, quando fu celebrata la Santa Messa in onore di
Francesco II. Fatto questo che non passò inosservato al principe Carlo di
Borbone; in quell’occasione volle personalmente ringraziare il professor
Cipriani. La ricordo ancora l'emozione di quel giorno. Emozione che si è
ripetuta pochi giorni fa quando il principe Carlo si è nuovamente congratulato
per la pubblicazione di questo libro. Prima ricordavo quella Santa Messa del 16
marzo, celebrata in un momento dove, per le restrizioni dovute alla pandemia,
non avremmo dovuto vederci. Nessuna aggregazione, nessuna evasione fuori dal
proprio comune di residenza. Eppure noi ci siamo visti ugualmente e, come
sempre, abbiamo ricevuto i sacramenti. Noi siamo irriducibili cristiani. Pur di
ricevere i sacramenti siamo disposti a passare dalle persecuzioni e dalle
catacombe. Dispiace constatare che queste ultime, purtroppo, sono spesso
favorite dalla nostra Chiesa. Ma non veniteci a parlare di comunione
spirituale, perché probabilmente avete sbagliato persone con cui parlarne.
Se
volessi cercare di riassumere il senso di questo libro, sceglierei proprio una
frase dell’autore che dice testualmente: “Oltre a conoscere la storia della
città e del glorioso Regno Duosiciliano, bisogna cercare di comprendere Napoli,
di viverla più che di guardarla e di giudicarla, tenendo conto che oramai tutto
il mondo si va omologando in un livellamento giacobino, dal basso.”
Benché
io conosca sommariamente Napoli, benché ci abbia soggiornato in due sole
occasioni, è tutto così estremamente bello quello che Pucci racconta. Dei suoi
ricordi in una città che, per quanto si sia omologata alla società odierna
infernale, esistono sempre quelle fondamenta che nemmeno la modernità è
riuscita a distruggere.
E
siccome io al caso non ci credo, non è un caso che quella che oggi si chiama
Piazza Garibaldi sia stata rinominata da alcuni esponenti di Fratelli d'Italia
(con tanto di striscione) “Piazza dell’Islam”. Non è nemmeno un caso che nella
mia vicina Livorno “Piazza dei Mille” sia una delle piazze con più
extracomunitari e con un alto tasso di criminalità.
Prontamente
ecco che Pucci ci riporta al bene, ricordandoci il miracolo del sangue di San
Gennaro che periodicamente si liquefà, in quella devozione popolare al martire
cristiano protettore della città che oggi, come allora, continua a
scandalizzare le eccelse menti moderniste.
Che
scandalizzò persino Garibaldi quando, una volta entrato a Napoli, si recò a
rendere omaggio a quelle ampolle portandosi al seguito Fra’ Pantaleo, frate
rivoluzionario con la camicia rossa, con tanto di spada e due pistole ai
fianchi che dall’ambone della chiesa annunciò Garibaldi come l’inviato da Dio
dopo Gesù Cristo.
E
lo stesso Garibaldi che dopo aver definito il Papa Beato “un metro cubo di
letame”, che dopo aver chiamato il suo ciuco Pio IX, definirà quel sangue “un’umiliante
composizione chimica, di cui dobbiamo frangere per sempre quell’ampolla
contenente il veleno.”
Ma
gli eroi di Napoli non si fermano solo a coloro che si opposero al
Risorgimento. Posto che questa “resurrezione” contenuta nell’etimologia del
termine Risorgimento, trova difficilmente conferma nell’efferatezza e
nell’invasione piemontese. Resurrezione per noi ha un significato ben preciso,
di cui possiamo toccarne con mano la testimonianza negli 800 martiri della
chiesa di Santa Caterina a Formiello. Gli 800 martiri di Otranto che nel 1480
furono uccisi dai turchi per non aver rinnegato la propria fede.
814
per la precisione che vennero tagliati in 2 parti e ricuciti metà uomo, metà
donna e impalati lungo le mura della città.
E
sempre contro i Turchi, quasi un secolo dopo, nel 1571, sarà consegnato, nella
basilica di Santa Chiara, a don Giovanni d’Austria, il vessillo pontificio di
papa Pio V che sventolerà vittorioso nella battaglia di Lepanto.
Santa
Chiara che è anche l'edificio in cui si trovano le tombe del re Francesco II e
della regina Maria Sofia, e dove si trova la tomba di un personaggio che molti
di voi ricorderanno, perché più vicino ai giorni nostri. Il Servo di Dio
Vicebrigadiere Salvo d’Acquisto che, pochi giorni prima di quel sacrificio
aveva scritto alla madre “Bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio a prezzo di
qualsiasi dolore e di qualsiasi sacrificio.”
Quando
ho letto queste parole non ho potuto fare a meno di pensare ad un altro
napoletano, il santo Giuseppe Moscati quando dice: “Se la verità ti costa la
persecuzione, tu accettala; se tormento, tu sopportalo. E se per la verità
dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, tu sii forte nel sacrificio.”
Una
cristianità napoletana che passa dal miracolo del sangue di San Gennaro, ma che
passa anche dal sangue di un’altra santa di Napoli, Santa Patrizia di
Costantinopoli, le cui spoglie si trovano a San Gregorio Armeno. La tradizione
vuole che un cavaliere abbia passato la notte in preghiera per chiedere una
grazia a Santa Patrizia e, al fine di poter venerare una sua reliquia, tolse un
dente dal corpo di Patrizia di Costantinopoli da cui iniziò a sgorgare un fiume
di sangue che fu raccolto in due piccole ampolle. E periodicamente, sempre a
Napoli, anche quel sangue si liquefà, nello stupore del bigottismo odierno che
tutto vorrebbe spiegare.
Una
Napoli quindi che è fortemente legata ai suoi santi protettori. Il 22 maggio mi
trovavo a Cascia in occasione della ricorrenza di Santa Rita e fui stupito
dalla quantità di napoletani che vidi quel giorno; salvo poi scoprire che Santa
Rita è copatrona di Napoli.
Questa
fede non si concretizza soltanto nei suoi santi, ma anche nei suoi
intellettuali, nei suoi scrittori, nei suoi politici. Un caso è quello di
Ferdinando Russo, poeta dialettale che per venti anni aveva scritto su “Il
Mattino” e che d’improvviso fu licenziato per il suo essere reazionario,
borbonico, sanfedista. Medaglie al valore diremo noi. Aveva pagato il prezzo di
stare dalla parte dei vinti e adesso veniva collocato nel ghetto degli
intellettuali napoletani.
Molte
sono le personalità legate alla Tradizione di Napoli di Pucci ricorda le gesta
e, come giustamente egli stesso precisa: “la Tradizione non può che essere
cattolica.”
Mi
ha particolarmente colpito la testimonianza di “Fede e Libertà”, realtà che non
conoscevo; un movimento cattolico nato negli anni ’80 da un gruppo di giovani
che non solo faceva politica a parole, ma faceva attivismo politico in nome
della Tradizione Cattolica: Rosario ogni sera in sede, ogni primo venerdì del
mese Adorazione Eucaristica, battaglie in difesa della famiglia, contro
l’aborto e la droga.
Perché
la fede è proprio questo: o è un avvento che investe ogni ambito della nostra
vita, politica compresa, o è solo un’attività da svolgere in chiesa un’oretta
tutte le domeniche.
Siccome
questo libro non è solo un viaggio nei ricordi napoletani dell’autore, ma anche
un omaggio alla capitale del Regno delle Due Sicilie; e siccome è peccato
mortale parlar male del Risorgimento e di Garibaldi, biondo eroe con l’orecchio
mozzato, non si sa se dovuto al morso di una donna che violentò o se fu una
punizione inflittagli in America Latina, poiché questa era la sorte dei ladri
di cavalli (sì perché Garibaldi nel 1835 si era rifugiato in Brasile dove
all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere).
Pensate
a quanto quel Risorgimento ha stravolto l’Italia, fra un nord che era in forte
miseria e un sud che, al contrario, era ricco e prospero. Inutile evidenziare
quanto il Regno delle Due Sicilie fosse, in Italia, il regno più
all’avanguardia nel progresso tecnologico.
Tutti
voi conoscete la prima ferrovia in Italia che collegava Portici a Napoli.
Tratto ferroviario che comprendeva anche il primato della prima galleria. Non
solo: l’installazione del primo telegrafo tecnico; il primo osservatorio
astronomico a Capodimonte; il primo osservatorio meteorologico e sismologico
sul Vesuvio. Dopo Londra e Parigi, a Napoli fu installata la prima
illuminazione elettrica su strada. La flotta borbonica, prima nel Mediterraneo
e quarta nel mondo; la prima nave a vapore (italiana), la Ferdinando I,
che faceva la tratta Napoli-Palermo in sole diciotto ore. In Sicilia il primo
transatlantico, un piroscafo ad elica che attraversò l’Oceano per arrivare a
New York.
Tutto
questo depredato e cancellato da molti libri di storia.
Utilizzo
le parole di un caro amico, il professor Regazzoni che definisce Garibaldi “un
povero imbecille di fronte ad un Cavour, genio sì, ma genio del male.” E
siccome questa potrebbe risultare un’opinione isolata, è indispensabile
ricordare un rapporto scritto proprio dagli insegnanti di Garibaldi che dice
testualmente: “un ragazzo di scarsissima intelligenza, forse un minorato
mentale… quello che volgarmente si chiamerebbe un cretino. Ignorante come una
talpa, nella nostra biblioteca non ha mai chiesto un libro da leggere.”
C’è
pure una lettera indirizzata a Cavour, dove Vittorio Emanuele descrive così il
presunto eroe dei due mondi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la
sgradevolissima faccenda Garibaldi. Questo personaggio non è affatto docile né
così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento
militare è molto modesto, come prova l’affare Capua, e il male immenso che è
stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è
da attribuirsi interamente a lui che si è circondato di canaglie, ne ha seguito
i cattivi consigli e ha piombato questo paese in una situazione spaventosa.”
E
siccome questo individuo per noi non rientra nella categoria di patriota, alla
nostra storia serve un “antagonista”, un eroe che stia dall’altra parte della
barricata (per inciso: quella dove ci poniamo anche noi). E allora non basta
Gaeta, non basta Civitella, non basta Francesco II, non basta la regina Maria
Sofia che combatté eroicamente sugli spalti della fortezza di Gaeta insieme
agli altri soldati; ecco giunge in nostro soccorso l’eroe romantico di questa
pagina di storia: José Borjes che al grido di “Per Dio, la Patria e il Re”
sposò la causa del Regno delle Due Sicilie.
Nel
luogo in cui morì Borjes, e vi dirò fra poco come muore, fu fatta mettere una
targa che recitava queste parole “soldati italiani che prodamente
debellavano l’ardita banda mercenaria che, capeggiata da José Borjes, mirava a
restaurare il nefasto regime borbonico.”
Non
spendo ulteriori parole per controbattere il finale perché sarebbe pleonastico;
Borjes non arrivò in Italia con mille uomini, né con le finanze della corona
d’Inghilterra. Borjes aveva con sé 22 uomini e 20 fucili. E questa targa lo
chiamava mercenario. Uso l’imperfetto perché fortunatamente gli abitanti di
Tagliacozzo sono riusciti a far togliere quella targa, mettendone una in favore
di quegli eroi dove, ancora oggi, sventola la bandiera borbonica. Tra i tanti
appellativi che leggerete di Borjes, troverete anche “brigante”. Inutile
dire quanto nell’immaginario collettivo e nel sistema scolastico italiano si
sia costruita “ad hoc” l’immagine del brigante come un malvagio
tagliagole. Noi sappiamo benissimo che questi briganti combattevano contro un
invasore e combattevano per una causa. Nel suo ultimo scontro a fuoco, a Borjes
fu fatta la promessa di aver salva la vita, la sua e quella dei suoi soldati,
se si fosse arreso. Una volta arresisi i ribelli, furono fatti spogliare delle
divise per indossare degli stracci sporchi. Eccola qui creata ad arte
l’immagine del brigante, non quello del soldato che conserva la divisa e
l’onore di fronte all’imminente morte. Borjes morirà dopo essergli stata negata
la confessione, invocando il nome di Dio e del re.
Prima
ho citato Fra’ Pantaleo, il frate rivoluzionario che accompagnava Garibaldi e
lo annunciava come l’inviato da Dio, manco fosse Giovanna d’Arco.
Quindi
non posso fare a meno di ricordare un altro ecclesiastico (lui sì) padre
Leonardo Zilli, cappellano militare, francescano che con grande devozione ogni
giorno celebrava alle ultime truppe di Civitella la Santa Messa. Quando cadde
Civitella del Tronto, Fra Leonardo Zilli fu fucilato alla schiena e gli fu
negata l’Eucarestia.
Ecco
che non posso fare a meno di pensare al Risorgimento come ad un mistero
dell’Iniquità; la grande Parodia che fa il deserto e lo chiama pace; che
stabilisce l’arbitrio dei poteri forti e lo chiama libertà; che fonda il potere
del profitto e lo chiama giustizia; che avvelena e distrugge il mondo e lo
chiama progresso; che semina angoscia e disperazione e le chiama felicità.
L’ultima
volta che siamo stati a Civitella è stato a novembre. Approfittando di una
pausa dal nostro annuale convegno, vado a fare una passeggiata. Ormai sono
pochi gli abitanti, un po’ perché è la triste realtà di tutti i borghi
d’Italia, un po’ perché è zona sismica. Ad ogni buon conto, faccio la
conoscenza di due anziane signore di Civitella. Visti i pochi abitanti, avranno
già capito che sono uno straniero in quella terra. Ci scambio qualche parola
sul motivo del mio soggiorno scatenando il loro entusiasmo e il loro giubilo.
Prima di congedarci, dopo una battuta scherzosa sul tricolore, una delle
signore mi disse: “Qua di tricolori non ne vedrai, eccetto il comune che
deve salvare le apparenze; qua la bandiera ce l’hanno imposta, ma per noi c’è
solo una bandiera.”
Questo
sentimento che vi ho raccontato non è solo di Civitella, è di molti altri
paesi, di molte altre persone che rinnegano quell’unità, che fu forzata e
forzosa.
A
questo punto mi viene doveroso fare una considerazione personale. Se mi
chiedete se sono contrario all’Unione (non Unità, che tra l'altro ricorda
testate giornalistiche a me poco gradite) d’Italia nel senso di “italianità”,
vi risponderò di no, non sono contrario. Ma è doveroso raccontare quello che fu
commesso, a Civitella, come in tutto il sud Italia. E visto che ormai da quella
unità sono passati più di 160 anni, mi sembra lecito esigere l’onestà
intellettuale di raccontare i fatti.
Essere
nostalgici non serve a niente. Essere nostalgici significa vivere col rimpianto
di tempi che sono passati e che necessariamente non torneranno. Ho trentadue
anni, quindi sono ben lontano da quei tempi che furono. A noi compete essere
realistici nei tempi in cui siamo costretti a vivere; fasti o nefasti che
siano. Ciò non toglie che possiamo guardare al nostro passato: conoscere,
comprendere, finanche abbracciare quei valori per cui combatterono i nostri
nonni e i nostri bisnonni. Questo sì, lo reputo virtuoso.
Concludo
con le parole di Francois-René De Chateaubriand che illuminano la giusta via
per capire il senso e lo spirito di questo libro che Pucci ha voluto scrivere:
“Il
mondo era stato sedotto dicendo che il cristianesimo era nato in seno alla
barbarie, assurdo nei dogmi, ridicolo nelle cerimonie, nemico delle arti e
delle lettere, della ragione e della bellezza; un culto che non aveva fatto che
versare sangue, incatenare gli uomini, ritardare la felicità e i lumi del
genere umano. Bisognava dunque cercare di provare il contrario, cioè che, di
tutte le religioni mai esistite, quella cristiana è la più poetica, la più
umana, la più favorevole alla libertà, alle arti e alle lettere; che il mondo
moderno le deve tutto, dall’agricoltura fino alle scienze, dai ricoveri per i
bisognosi fino ai templi progettati da Michelangelo e decorati da Raffaello.
Era necessario dimostrare che nulla è più divino della sua morale, nulla è più
amabile, più grandioso dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto. Si
doveva dire che essa favorisce il genio, affina il gusto, sviluppa le passioni
virtuose, dona vigore al pensiero, offre forme nobili allo scrittore, e stampi
perfetti all’artista.”
Vittorio Acerbi