mercoledì 21 giugno 2017

UN MITO, UN ERRORE: I PRETI EMANCIPATORI (di Pietro Di Marco, "Il Corriere fiorentino")

Parere contrario: l’assolutezza dogmatica, le battaglie sociali, un vuoto di fede

Un maestro e amico (come si dice delle persone notevoli che abbiamo conosciuto), Michele Ranchetti, che ha dedicato a Milani pagine importanti, scriveva di una «vita [quella di don Lorenzo], tutta di vocazione senza tolleranze» (Ranchetti, Scritti diversi, II, 1999, p.149). E sottolineava come una fede con caratteristiche di «assolutezza dogmatica e di radicale semplificazione», fosse la «condizione necessaria e sufficiente per reggere tutto il resto», tutta l’architettura della personalità e dell’azione del priore. Intuizione originaria di Milani sarebbe stata quella che «solo l’obbedienza a Dio e ai suoi superiori gli avrebbe dato il potere e la libertà». Avvertire il taglio troppo drastico di queste tesi non vuol dire sottovalutarle. In effetti per chi non abbia subíto l’incanto e la spinta emulativa che sempre provengono da un carismatico, l’idea ranchettiana di una personalità che si è precocemente armata, entro e fuori, per un combattimento che renda possibile e giustifichi tutta un’esistenza, calza perfettamente a don Lorenzo. La forma sui generis militante del sacerdote cattolico, forma unica in campo cristiano, che si era ridefinita a partire dai conflitti, ma anche dalle alleanze, tra clero e regimi «rivoluzionari» durante la cosiddetta guerra civile europea (1919-1945), era stata trasmessa e aggiornata nel dopoguerra. L’ortodossia essenziale e la destinazione di sé all’azione pastorale, certo, ma con modelli nuovi, plasmati su quelli del militante politico e sindacale, furono per don Milani una formula potente. Gli permise di congiungere la severa dolcezza verso i suoi «figli» (i ragazzi di Barbiana) e l’intransigenza da leader, insofferente ed «educativa», nei confronti degli altri, anche per gli amici. Forse solo la madre e don Raffaele Bensi erano trattati diversamente, da figlio.
Non sfugge che l’azione esterna lo condusse su terreni di «battaglia» civile comuni alle sinistre, con minore affinità col Pci, va precisato. La ferrea struttura milaniana, per alcuni solo apparente, ma tenuta in piedi e assiduamente coltivata nella comunicazione, va infatti oltre la scuola. La figura del membro di ceti superiori, uomo o donna, che alfabetizza i figli dei contadini ha una lunga storia nelle aristocrazie e borghesie europee. In qualche misura, minima, Milani appartiene a quella storia. Ma originale è l’offerta alla Chiesa di un modello di prete di rigida osservanza formale, che nella società del dopoguerra concorra con le figure prevalenti, laiche e spesso atee, del militante politico «rivoluzionario», ed anzi sostituisca. È un competere sul terreno alto della militanza comunista, in particolare: la dedizione, il sacrificio e la razionalità.
Certamente per Milani il vero operatore del riscatto di classe era il prete; è nota una sua affermazione-paradosso relativo alla scuola: si sarebbe dovuto rinunciare alla scuola confessionale per una scuola laica in cui fosse il prete ad insegnare. Il prete, l’unico maestro in se stesso, per struttura, per indole, per sacramento forse; unico capace di una dedizione esclusiva. Questi, però, sono anche il modello e la retorica del maestro rivoluzionario.
E grava sul modello una utopia autoritaria (basterebbe dire: utopia, da «rivoluzione culturale cinese» — fu colto da Edoarda Masi), che la storia mondiale ha invalidato e dissolto. Lo so: si possono invocare mille oggetti concreti e immediati dell’azione di Milani che sembrano confutare ogni tratto utopizzante. Ma la fustigazione del suo entourage adulto e intellettuale e l’attaccamento ai ragazzi erano i modi peculiari con cui il prete dava scacco al professionismo e al dottrinarismo del comune attivista politico.
Le perplessità e le censure ecclesiastiche che colpirono (debolmente) Esperienze pastorali vedevano limpidamente. Mi permetto di ripeterlo spesso. Lo stesso Bensi, che in classe (Liceo Galileo) ci aveva presentato la novità e i valori, anche letterari, dell’opera, osservava privatamente che il primato strategico dell’insegnamento della lingua (la lingua dei giornali, la lingua dei «signori») su tutto il resto, inclusa la formazione cristiana, era nel suo Lorenzo «illuminismo». In effetti anticipare e forse amare di più la formazione umana «emancipatoria» (di questo si trattava) rispetto alla formazione dell’anima, tanto peggio se ritenuta quest’ultima alienante da sola, era un equivoco drammatico in cui Milani cadeva, dopo tanti altri e almeno da un secolo e mezzo di storia della Chiesa.
Cosa fu, allora, l’assolutezza dogmatica del priore di Barbiana? Milani ha lasciato dietro di sé un vuoto di fede cristiana. Forse, ancora negli anni Ottanta, questo dato sembrava poca cosa: siamo tutti cristiani impliciti, anzi tanto più autenticamente cristiani quanto più combattenti per la causa dell’uomo. Ma le utopie e le retoriche sono in pezzi; resta, invece, oggi la tragedia della comune fede indebolita o inabissata. Non era certo necessario per fare scuola ai poveri costruire un mito del clero cattolico come avanguardia, di una possibile armata (la Chiesa) di emancipatori. Che ne fu in questo ardimento di Cristo e della sua salvezza, della realtà e azione della vita soprannaturale, della preghiera, dei sacramenti? Le recenti celebrazioni mi lasciano sinceramente contrariato: sono veramente utili alla coscienza della Chiesa, quando non vi è in esse cenno a quanti risvolti abbia la vicenda Milani, a quanto contraddittorie e povere, spesso, siano le sue eredità, a quanto sia stata preveggente (tutt’altro che in errore) quella Chiesa che ne prese le distanze?

Pietro Di Marco
da "Il Corriere fiorentino" del 21 - VI - 2017

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