Venerdì 15
settembre 2017, alle ore 21:00, a Borgo San Lorenzo — Saletta "Pio La
Torre" Via Giotto, davanti alla Misericordia — per iniziativa del Circolo
"La Terrazza" di Ronta, della Casa Editrice Cantagalli e del mensile
"Radici Cristiane", con il patrocinio del Comune di Borgo San
Lorenzo, verrà presentato il volume curato da Cristina Siccardi: "L'Arte
di Dio. Sacri pensieri, profane idee" (ed. Cantagalli). Dopo il saluto
dell'Assessore alla Cultura e alla PI del Comune di Borgo San Lorenzo Cristina
Becchi e del Consigliere Comunale Patrizio Baggiani,
interverranno la curatrice del libro Cristina Siccardi, storica e
scrittrice; Alessandro Bicchi, Diacono nel Duomo di Firenze,
Vicedirettore dell'Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali Ecclesiastici,
Incaricato Inventario e Tutela Beni Ecclesiastici dell'Arcidiocesi di Firenze;
Carlo Manetti, Docente Università private. Coordinerà gli interventi Pucci
Cipriani, giornalista. Sarà presente il Maestro Giovanni Gasparro
con l'opera "Salvator mundi", originale della copertina del
libro.
Il libro L'Arte di Dio. Sacri pensieri, profane idee (Cantagalli) — pagg. 456, con un inserto iconografico a colori (pagine fuori testo), Euro 29,00 — secondo la prof.ssa Cristina Siccardi, storica e scrittrice — autrice, tra,
l'altro, per le Edizioni Paoline, di una biografia su San Giovanni Paolo II — pone alcune domande, in questo saggio, che risulta essere un vero e
proprio Simposio tra intellettuali e artisti: "L'arte contemporanea è
ancora in grado di dare gloria a Dio? E' capace di avvicinare i fedeli in
maniera adeguata al Cristianesimo? Conta o non conta la bellezza nell'arte
sacra e nei riti liturgici? Che cosa comunicano di sacro le chiese moderne?
Esiste ancora una pedagogia catechetica nei nuovi edifici di culto?". In questo Simposio
rispondono a tale e alle altre domande della dottoressa Siccardi ventidue
personalità, fra le più importanti personalità della Cultura italiana e del
panorama internazionale: i Professori Corrado Gnerre e Giovanni Turco
(Filosofia), Don Jean -
Michel Gleize (Teologia), Prof. Roberto de Mattei (Storia), il
salesiano Prof. Don Roberto Spataro
(Lingua latina), i Professori Antonio Paolucci, Antonio Natali, Vittorio Sgarbi,
Christine Sourgins (Storia e Critica d'Arte), Prof. Martin
Mosebach (Letteratura), gli Architetti
Pier Carlo Bontempi, Andrea
De Meo Arbore (Architettura), Maestro Giovanni Gasparro (Pittura), Madame Daphné du Barry
(Scultura), Mons. Vincenzo
De Gregorio, Dottor Mattia
Rossi (Musica), Maestro Pier
Luigi Pizzi (Teatro), Professor
Pietro De Marco, Sociologia delle Religioni.
Nell’appendice
del volume sono presenti: il Grande Cardinale borghigiano Domenico
Bartolucci, Maestro Perpetuo della Cappella Sistina, il migliore
compositore di Musica Sacra del XX Secolo; il Maestro Riccardo Muti; l'Oratoriano
Padre Michael Lang, che già
avevano denunziato le scelleratezze architettoniche, aniconiche, liturgiche e
musicali in altri contesti e che sono qui abilmente riproposte.
Per gentile
concessione dell’Editore Cantagalli, pubblichiamo alcuni estratti dei
contributi presenti nel volume curato da Cristina Siccardi:
La fine dell’architettura religiosa e della pittura
religiosa: non è che esse abbiano tradito un principio, è che non c’è più un’esigenza
che lo richieda
con Vittorio Sgarbi
Lei ha criticato aspramente «il delirio di onnipotenza di quasi tutti gli architetti contemporanei
che dagli anni Settanta in poi seminano bruttezza. Sono credente e ho sempre
considerato la religione cristiana il fondamento della nostra civiltà, perciò
non posso restare in silenzio davanti all’eliminazione dal punto di vista
morfologico di elementi costitutivi per quindici secoli degli edifici sacri
quali la cupola e la volta. Elementi-simbolo del paradiso» (G. Galeazzi,
Che brutta l’architettura sacra contemporanea, in «Vatican Insider - La
Stampa», 6 novembre 2012). Può chiarire la sua posizione critica nei confronti
dell’edilizia sacra progettata dagli anni Settanta ad oggi?
Alcuni elementi
tipologici fondamentali che determinano la libertà sul male, al di fuori di
ogni codice e da ogni indicazione spaziale, sono praticamente rappresentati dal
fatto che dall’architettura religiosa, realizzata negli anni Sessanta,
Settanta, Ottanta, Novanta fino a Fuksas mancano la volta e la cupola: la
cupola è il Cielo, la volta è la dimensione che sta sopra alla testa degli uomini.
Mancano sia le forme architettoniche, sia gli affreschi, sia le decorazioni che
accompagnavano quelle forme curvilinee e quindi è evidente la volontà di
interrompere le tipologie verticali, come nel Gotico; le cupole e le volte nel
Rinascimento: la simbologia che tali elementi hanno rispetto ai valori
religiosi e ai valori celesti è stata eliminata nella decadenza e nella fine dell’architettura
religiosa, la quale non ha più una morfologia riconoscibile. Si è deciso di
rinunciare al Cielo, di rinunciare alla presenza di quello che sta sopra di
noi; quindi si procede attraverso stilemi meccanici, che servono magari per
contenere persone, come potrebbe essere un teatro… ma teatro è già molto. Essi
sono niente!
Sono l’idea di
un architetto che chiama chiesa un contenitore totalmente privo di elementi
morfologici che lo connettano alla presenza di Dio […].
Che cosa pensa degli “adeguamenti liturgici” che
sacrificano gli impianti decoratovi preesistenti nei presbiteri delle nostre
chiese antiche, com’è accaduto nella cattedrale di Reggio Emilia, con
l’adeguamento curato da padre Andrea Dall’Asta SJ con opere di “arte povera”?
Gli “adeguamenti
liturgici” li considero scellerati perché hanno prodotto gli effetti inauditi
della cattedrale di Reggio Emilia. Amboni, balaustre, altari vengono
rivoluzionati in nome di questi adeguamenti. Si sono arrogati il diritto di
buttare giù degli altari perché voltavano le spalle ai fedeli… ma il direttore
d’orchestra continua a voltare le spalle al pubblico, affinché la musica arrivi
nel migliore dei modi alle persone. La Messa rivolta ai fedeli, tentativo di
dialogo goffo, sbagliato, zoppo, finisce con il paradosso di «scambiatevi il
segno di pace» con le mogli, i parenti, gli amici… è una forma confidenziale
grottesca rispetto a quella ieratica, quella indicata da papa Ratzinger in un
libro sulle riforme degli altari; in esso sostiene che il sacerdote che volta
le spalle è il primo fedele rivolto a Dio, che sta ad est. Il sacerdote non
volta le spalle, ma conduce i fedeli, guida come il condottiero, come il
direttore d’orchestra. L’idea che volti le spalle a Dio per parlare con gli uomini
è una bestemmia, è un’eresia legata ad una follia di finto dialogo che non ci
sarebbe fra Dio e l’uomo e fra l’uomo e Dio, ma che ci sarebbe fra l’uomo e
l’uomo, voltando le spalle a Dio. Il sacerdote assume, in tal modo, un ruolo
determinante, invece che essere determinato alla presenza di Dio.
(pp. 127-133)
Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura,
i colori sono la Parola di Dio, il pennello è la
Chiesa
con Giovanni Gasparro
Quali sono,
secondo Lei, le ragioni per cui il Cristianesimo ha perso aderenza nei
confronti dell’arte sacra?
Nella contemporaneità, il concetto di bellezza è stato depauperato del
suo afflato trascendente e del suo valore ontologico, riducendolo ad un vacuo
sentimentalismo meramente estetizzante che spesso asseconda le tendenze
suggerite da contesti à la mode. In
ispecie, in molte città europee, le arti sacre e l’architettura sacra
contemporanea, appaiono come traslazioni figurate dei dettami modernisti
(funzionalisti e razionalisti) del Bauhaus, se non di false religioni orientali
o protestanti, ed ancora mutuate dalle teorie spiritualistiche del XIX e del XX
secolo. Come non identificare certe forzature formali se non in una sensibilità
figlia delle teorizzazioni antroposofiche di Rudolf Steiner e teosofiche di
Helena Blavatsky? Se questo è acclarato per Piet Mondrian che non si è occupato
d’arte liturgica, probabilmente può essere esteso anche ad Henri Matisse
(almeno negli aspetti formali) per la sua Chapelle du Saint-Marie du
Rosaire a Vence in cui disegnò persino i paramenti sacerdotali. Lo stesso valga
per lo scultore Giacomo Manzù (il quale resta comunque un ottimo artista, in altri
contesti creativi) con la sua Cappella della Pace, concepita
per l’uso privato di Monsignor Giuseppe De Luca ed alla morte del committente,
nel 1962, destinata alla comunità religiosa di Sotto il Monte, alla memoria di
Giovanni XXIII. Il patriarca di Venezia Roncalli, divenuto pontefice, era amico
di Monsignor De Luca, mediatore della Curia romana con esponenti politici e
persino con l’Unione Sovietica. […]
Il processo evolutivo delle arti sacre del Cattolicesimo ha avuto sempre
un vigore rinnovatore, ma all’interno degli argini delle esigenze catechetiche,
liturgiche e devozionali che hanno garantito l’aderenza dei manufatti artistici
ai canoni ecclesiali. Questa particolarità evolutiva dei linguaggi artistici ha
prodotto opere fortemente diversificate esteticamente, ma tutte armoniche e funzionali
al soggetto Chiesa. Si pensi ai mosaici di Ravenna, Pesaro e Venezia, agli
stucchi del Serpotta a Palermo, agli affreschi aretini di Piero della Francesca
piuttosto che ai teleri monumentali di Tiziano e Tintoretto, alle vetrate di
Chartres o ai pavimenti intarsiati del duomo di Siena; opere sovente
sedimentate nel medesimo edificio sacro, in tempi diversi, ma in perfetta
armonia. Lo stesso valga per i differenti stili architettonici.
Nella Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla
liturgia, promulgata dal Concilio Vaticano II, leggiamo che: «La Chiesa non ha mai avuto come
proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni
dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni
epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi
con ogni cura. Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia
nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta riverenza e il
dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo
essa potrà aggiungere la propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini
eccelsi innalzano nei secoli passati alla fede». Questa estrema libertà
che la Chiesa ha sempre offerto agli artisti e con essi ai committenti
ecclesiastici, nel post-concilio, bisogna riconoscerlo, partendo dalla Sacrosanctum Concilium, soprattutto
nella frase «Ecclesia
nullum artis stilum veluti proprium habuit», è stata
interpretata come un nulla osta alla rottura ed al sovvertimento dei connotati
identitari dell’arte e dell’architettura sacra cattolica. Le questioni
volutamente non definite che mantengono una certa ambiguità verbale, lasciano
intendere cose diametralmente opposte, demandando alla libera interpretazione
anche ciò che non può essere lasciato all’arbitrio; questo è il caso della Sacrosanctum Concilium in cui è
insito il germe della rottura con la Tradizione, reo di aver determinato la
nascita di tanta arte sacra triviale. Sbaglierebbero, comunque, quanti
attribuissero al solo Concilio Vaticano II tutte le responsabilità. Già prima
del Concilio si intrapresero opere di demolizione simili agli “adeguamenti
liturgici” attuali […]. Il modernismo condannato con vigore da San Pio X
logorava la Chiesa sommessamente almeno dal XVIII secolo. Il Concilio Vaticano
II ed il post-Concilio hanno esplicitato ciò che era sotteso. Nel pre-Concilio
Vaticano II, il susseguirsi dei secoli non ha depauperato il fulcro del
linguaggio artistico cristiano, non ne ha inficiato l’ethos, lo ha solo
declinato alle esigenze espressive del momento. Per questo ci può essere
progresso vero nelle arti (soprattutto sacre) solo se c’è un giusto equilibrio
fra innovazione e tradizione. Oggi, invece, si sono abbandonate proprio le prerogative
fondamentali (talvolta inconsapevolmente), creando opere d’arte “sacra” che
appaiono come manifestazioni gnostiche del solipsismo soggettivista, scegliendo
l’opzione aniconica, rigettata dalla Chiesa sin dalle origini, a scapito della
figurazione, qualità stilistica che il Cattolicesimo ha ritenuto
imprescindibile in tutta la sua storia bimillenaria […].
(pp. 216-219)
La riflessione di…
Domenico Bartolucci
Maestro
Bartolucci, ben sei papi hanno assistito ai suoi concerti. In quale di loro ha
trovato maggior sapienza musicale?
In Benedetto XVI. Suona il pianoforte, è un profondo conoscitore di
Mozart, ama la liturgia della Chiesa e di conseguenza tiene in somma
considerazione la musica. Anche Pio XII l’amava molto e spesso suonava il
violino. La Cappella Sistina deve poi moltissimo a Giovanni XXIII. Da lui nel
1959 ebbi l’approvazione per il progetto di ricostituzione della Sistina che
purtroppo, anche a causa della malattia del precedente direttore Lorenzo
Perosi, era in condizioni precarie: non aveva più un organico stabile, un
archivio musicale, né una sede. Allora si ottenne la sede, si congedarono i
falsettisti e si definì l’organico dei cantori con i relativi stipendi;
finalmente si poté anche istituire la scuola dei ragazzi. Poi venne Paolo VI,
ma lui era stonato e non so quanto apprezzasse la musica.
Perosi, il
cosiddetto rifondatore dell’oratorio italiano?
Perosi era un autentico musicista, un uomo impastato di musica. Ebbe la
fortuna di dirigere la Sistina ai tempi del Motu Proprio sulla musica sacra che
voleva giustamente purificarla dal teatralismo di cui si era imbevuta. Poteva
dare un nuovo impulso alla musica di Chiesa, ma purtroppo non aveva una
conoscenza adeguata della polifonia palestriniana e delle tradizioni sistine.
Del canto gregoriano poi affidò la direzione al vice maestro! Le sue
composizioni liturgiche spesso sono state d’esempio per lo stile superficiale
del cecilianesimo, lontano da quella perfetta fusione tra testo e musica.
Perosi
faceva il verso a Puccini…
Ma il lucchese era un uomo intelligente. E poi i suoi “fugati” erano
ben superiori a quelli del tortonese.
In qualche
maniera Perosi è stato l’antesignano dell’attuale volgarizzazione della musica
sacra?
Non proprio. Oggi nelle chiese sono di moda le canzonette e lo
strimpellio delle chitarre, ma la colpa è soprattutto delle idee sbagliate di
pseudo intellettuali che hanno creato questa degenerazione della liturgia e
quindi della musica, travolgendo e disprezzando l’eredità del passato e
credendo di ottenere chissà quale bene per la gente. Se l’arte della musica non
torna alla grande arte, non ad un accomodamento o a un sottoprodotto, non ha alcun
senso interrogarsi sulla sua funzione per la Chiesa. Io sono contro le
chitarre, ma anche contro la faciloneria della musica ceciliana: più o meno è
la stessa zuppa! Il nostro motto deve essere: torniamo al canto gregoriano e
alla polifonia palestriniana e proseguiamo su questa strada!
Quali sono
le iniziative che Benedetto XVI dovrebbe prendere per realizzare questo
disegno, in un mondo fatto di discoteche e ipod?
Il grande repertorio di musica sacra che ci è stato consegnato dal
passato è costituito dalle messe, dagli offertori, dai responsori: prima non
esisteva liturgia senza musica. Oggi colla nuova liturgia questo repertorio non
ha più spazio, è una stonatura, inutile illudersi. È come se Michelangelo per
il giudizio universale avesse avuto a disposizione un francobollo! Mi dica lei
come è possibile oggi eseguire un Gloria o addirittura un Credo. Per prima cosa
dovremmo tornare, almeno per le messe solenni e per le feste, a una liturgia
che dia spazio alla musica e che si esprima nella lingua universale della
Chiesa, il latino. In Sistina, dopo la riforma liturgica, ho potuto mantenere
vivo il repertorio tradizionale della Cappella solo nei concerti. Pensi che la
Missa Papæ Marcelli di Palestrina non si canta più in San Pietro dai tempi di Papa
Giovanni! Ci fu concesso benignamente di eseguirla per l’anno palestriniano e
la volevano senza il Credo, ma quella volta fui irremovibile e si eseguì tutta.
(Appendice, pp. 416-418, Intervista esclusiva di Riccardo Lenzi de
«L’Espresso» al maestro Domenico Bartolucci, in S. Magister (a cura di),
[http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/72901], 21 luglio 2006)
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