La tiepida brezza del vespro entrava
dalla quadra finestrella della cella, dolce, portando con sé lievi profumi
della incipiente primavera del 1861.
Girolamo, lì rinchiuso, dimenticato da
quasi tre mesi con l'imputazione di spionaggio aveva mutato il suo risentimento,
in rabbia, per questa assurda storia, in una indifferenza verso il futuro come
se avesse compreso d'essere una foglia impotente, fatta cadere dal vento
proprio là, ma in procinto di ripartire per chissà quale altro volo che,
purtroppo, non poteva dirigere.
Effettivamente solo 10 mesi prima non
avrebbe potuto ipotizzare di trovarsi lì nella fortezza di Civitella. Solo,
chiuso in cella, aveva avuto il tempo di pensare alla sua vita passata. Aveva
quasi trent'anni, ma aveva avuto modo di venire in contatto con uno svariato
numero di persone di ogni estrazione sociale, aveva attraversato nuovi
territori e stati che non esistevano più, dissolti e ricostruiti in altre
forme, in uno dei periodi storici più turbolenti derivati dalla Rivoluzione
francese.
Giovanni, suo padre, ed il nonno e il
bisnonno e per chi sa quanto tempo indietro, erano nati nell'isola di Burano,
fiore dell'arcipelago Veneziano. Suo padre, sua madre ed i fratelli erano stati
fuggiaschi a Ravenna (era ancora sicuro, pensava suo padre, lo Stato della
Chiesa) per non morire, con tutta la famiglia, da anonimo suddito del giacobino
di turno, prestanome di un demone rivoluzionario che danzava sulla testa di un
popolo che ricordava con rimpianto di aver avuto ordine e benessere. Lì, a Ravenna,
dopo qualche anno nacque lui, ultimo rampollo di quattro figli di un padre
quarantacinquenne e contemporaneamente vedovo perché la madre perché la madre
morì per le complicazioni del parto. I racconti del genitore, bevuti come un
naufrago assetato, si erano stampati nel suo animo e, come un emigrante si
sente legato alle proprie origini più di qualsiasi altra persona vissuta in un
paese, così lui, seppur nato fuori dall'ormai inesistente Repubblica di
Venezia, si sentiva figlio della sua terra e quasi di essa ambasciatore.
A quel tempo la Rivoluzione aveva già
sparso copioso il suo seme che purtroppo attecchì anche nelle Legazioni
Pontificie della Romagna. La sua famiglia malvista in quanto fuggiasca da un
territorio "redento dai lumi della rivoluzione", lumi che
evidentemente non gradiva e che aveva preferito il buio di una tranquillità
nell'ordine, ritenne giustamente, prima di essere in lista di proscrizione,
riprendere il mare seppure con il padre gravemente malato, per giungere nel
regno del Re Borbone.
Il mare era la via più sicura in quei
tempi di rivolgimento sociale, anche se tuttavia più lunga e più soggetta agli
eventi atmosferici.
Sulle coste del Tronto una violenta
tempesta danneggiò gravemente il battello dalmata che, insieme a varie merci, trasportava
la sua famiglia e altre 12 persone verso il porto di Bari. Se il danno al
battello è riparabile seppur con una perdita di circa una settimana, il fisico
già minato del padre non resse oltre le fatiche del viaggio e si spense tra le
braccia dei figli, guardando a Nord, verso Venezia, ringraziando Dio di averli
vicino ed esortandoli ad avere sempre fiducia e speranza nel loro Creatore. I
figli scossi, ma sereni avendo visto come era morto il loro padre, quasi
fortificati da una forza d'animo e dall'amore per le sue radici, quasi
fortificati dalla sua forza d'animo e dall'amore per le sue radici, decisero di
dividersi momentaneamente e mentre i due maggiori avrebbero ripreso la via del
dividersi momentaneamente e mentre i due maggiori avrebbero ripreso la via del
mare su di un battello che di lì a qualche ora sarebbe partito per Chioggia per
riportare la salma del genitore a Burano, i due più giovani avrebbero atteso lì
il suo ritorno. Fu lì che suo fratello, dopo qualche giorno, si ammalò,
probabilmente di vaiolo, e venne curato presso le suore della Misericordia che
in un'ala del loro convento avevano un piccolo ospedale. le suore gli
indicarono che, presso un frate del convento di Campli, era possibile avere un
farmaco miracoloso per tale malattia. Girolamo, mosso da spirito d'avventura e
dall'entusiasmo tipico dei giovani volle aggregarsi ad una carovana di mercanti
che si sarebbe diretta verso l'interno e passava per Campli, dove, nel convento
del Duomo, fra' Lodovico, noto erborista e taumaturgo, era dispensatore del
farmaco miracoloso per quella malattia. Il momento storico era il peggiore mai
visto da sempre. Coloro che cercavano e difendevano delle certezze consolidate
da generazioni di buon governo erano perseguiti come "ribelli" alla
nuova "luce" sparsa dai giacobini che illudevano gli animi con nuove
e vuote parole. Parole affascinanti come solo può fare il più grande seduttore
del genere umano, parole che riempivano la bocca, ma non il cuore. San
Benedetto era in mano alla casta giacobina locale, serva dei piemontesi che
rapacemente ghermivano ogni impeto di reazione dall'alto del loro falso zelo di
fratellanza redentrice per quel povero popolo vessato da una Monarchia
"non illuminata e tirannica". La tortuosa strada postale che risaliva
con lieve pendio verso l'interno della valle del fiume Tronto diventava erta da
S. Egidio alla Vibrata e, tra le guardinghe pattuglie piemontesi e gruppi di
contadini in fuga, all'orizzonte apparve, come una sentinella stesa, sopra un
picco roccioso, una formidabile fortezza. I piemontesi timorosi di affrontare
dei gruppi organizzati senza prima spiare la loro esatta consistenza lasciarono
libera la strada alla carovana, mantenendo comunque un controllo visivo del
gruppo.
Girolamo non aveva mai visto una cosa simile,
così affascinante, e staccatosi dalla carovana che era accampata a circa 5 Km.
sulle rive del fiume Salinello si avventurò sin quasi sotto le mura della
fortezza stessa. Era inconsapevolmente passato tra le fila dei piemontesi che
non sapeva stessero tenendo d'assedio la città.
Venne visto e catturato dalle milizie
borboniche sotto le mura di quella incredibile fortezza che voleva ammirare da
vicino, forse troppo vicino, in quel periodo di guerra, al punto che le milizie
borboniche in ricognizione ai piedi del colle lo scambiarono per una spia dei
piemontesi e per ordine dell'ufficiale di giornata venne affidato al carcere. A
nulla valsero le sue rimostranze, il suo accento era del Nord e lì nessuno lo
conosceva e poteva garantire per lui. Ecco come era finito lì, chi poteva
immaginare un simile epilogo? Ora i suoi giorni scorrevano lenti, tra il poco
rancio e gli appelli delle guardie e, ogni tre giorni, le visite del cappellano
padre Leonardo Zilli.
Aveva modo di vivere in prima persona e
di vedere come si muoveva il "mondo" della città e della fortezza e
della sensazione di apatia e di scoramento che si stava impadronendo di lui,
come, per altro, di tutta la città. In quel mese aveva imparato ad apprezzare
quelle piccole sensazioni, mai valutate prima, che derivavano da una vita in
quella situazione e a comprendere quella gente che seppur fosse ai suoi occhi
straniera sentiva spiritualmente affine.Anche loro, come lui, erano fedeli a
una bandiera e a un onore che non poteva essere barattato con nessuno nuova
effimera illusione. Si stava rendendo conto che lui era stato fatto arrivare lì
perché Dio voleva renderlo partecipe di un momento storico da lui voluto per
dargli la possibilità e l'onore di renderGli gloria.
L'assedio rendeva grandi tutte le più umili
necessità della giornata perché ogni giorno di più si affievoliva la speranza.
E' la speranza nel proprio io che rende non umano l'uomo, lo snatura, lo
distacca dal filo che lo guida sin dalla sua idea di embrione. Ecco, lì, l'uomo
si stava svuotando di speranza in se stesso e si stava riempiendo di serena
consapevolezza del senso della vita che è il ben morire cioè il morire per una
causa "giusta", per qualcosa che ancora avesse senso agli albori di
un tempo che imponeva con la forza ciò che la gente non chiedeva e rigettava.
Nei primi giorni di marzo di quel 1861,
il paese e la fortezza, segnata dall'assedio per altro ben sopportato, erano
passati dal comando del colonnello Ascione, che aveva perso le motivazioni per
perseverare nella resistenza, a quello, a quello dell'ex tenente, ed ora
comandante, Angelo Messinelli, amato dalla truppa e dal maggior numero di
popolo per il suo coraggio e la purezza del suo ideale amore per l'ordine
monarchico, condiviso dal popolo stesso. Il colonnello Ascione meditava in cuor
suo una resa per aver salva la vita e per continuare a fare il suo lavoro
magari anche con i piemontesi poi....e questa resa, che comprendeva la
capitolazione di Civitella, venne palesemente scoperta.
I soldati tentarono di ucciderlo e solo
i sottufficiali lo salvarono, destituendolo e tenendolo prigioniero nella sua
casa. Tutto ciò Girolamo sentì dalle guardie e apprezzò il senso dell'onore di
quegli uomini.
Di persone come il colonnello Ascione ne
aveva conosciute poche, grazie a Dio, ma in cuor suo sentiva come quella razza
di traditori, che detestava, era in aumento ed era apprezzata dagli invasori
piemontesi. Dio aveva permesso quei frangenti per mostrare nel mezzo delle
piazze ciò che si celava nel segreto dei cuori. Chi si accontenta di qualcosa
di materiale, di visibile, grado, potere, ricchezze, cerca con ogni mezzo di
mantenere il bene, anche a costo di tradimenti e indifferenza verso chi,
invece, ha qualcosa di più grande, di invisibile, ma in verità più nobile dei
loro beni, limitati, deperibili e per ciò più invidiabili ma, per loro,
irraggiungibili.
Era arrivato il tempo per rendere
pubblico ciò che si era veramente agli occhi di Dio.
Nella città di Civitella pochi erano
ricchi di beni materiali e moltissimi ricchi di beni invisibili, per questo
erano arrivati fino a quel modello di resistenza.
Fuori dalla cortina delle mura, nelle
contrade sparse i così detti "briganti",, onesti ed analfabeti
contadini, ricchi di coraggio e altruismo, merce rara per i piemontesi,
cercavano con i mezzi che avevano, bastoni, forche, qualche fucile, cercavano
di tenere lontani dalle loro borgate e dalle strade secondarie i piemontesi che
davano prova gratuita di ruberie e stupide violenze. Nulla è più stupido di
voler imporre con la violenza il declamare slogan e idee non venute dal cuore,
il voler far gridare alle masse "Viva Vittorio Emanuele", "Morte
al re Borbone", "Morte al Papa Re",ma era quello che i Savoia
erano e volevano essere, contrariamente a chi in quella terra aveva conosciuto
un solo re in terra e un solo Re in cielo.
Nelle sue regolari visite fra' Leonardo
aveva parlato con lui e aveva apprezzato il fatto che era subito aperto
all'uomo di Dio, che rispettava, ma non ancora vedeva in lui uno strumento
dello Spirito Santo. Andando con i suoi ricordi rammentava di aver sentito
nominare da suo padre Fra' Giobbe da San Francesco alla Vigna, convento
francescano di Venezia. Egli andava a predicare il Quaresimale a Burano e
Torcello. Il frate viveva con i pescatori, qualche volta li accompagnava a
pesca e al vespero nella chiesa del luogo, teneva il fervore e poi celebrava la
S, Messa.
L'aveva descritto bene, suo padre, da
uomo robusto era diventato una figura esile a seguito delle penitenze ma dava
tutti una forza d'animo veramente sovrumana, Dio stesso, parlava con la sua
voce alle loro anime e queste lo riconoscevano come il loro Pastore.
Rincuorava, pregava, ammoniva e con mano misericordiosa perdonava le loro
debolezze mostrandosi tuttavia più soggetto di loro a quelle stesse debolezze.
Parecchi di quegli uomini non temevano la battaglia e non temevano di perdere
la vita contro i turchi ma anelavano a guadagnarsi la visione di Dio.
Gli venne alla memoria che, dopo una
battaglia navale con i Turchi, dopo la sua S. Messa nella chiesetta del porto
di Perasto, il Capitano Generale da Mar, Comandante della flotta Veneziana, si
era rivolto ai suoi marinai dicendo : "Chi di voi è pauroso o ha altre
cose nel cuore vada, non è qui il suo posto, a chi resta non prometto salva la
vita, ma salvo sarà il suo onore e grande la misericordia di Dio onnipotente
sulle sue colpe" e nessuno dei centocinquanta uomini scelse di non
imbarcarsi. Ricordando le parole e i racconti di suo padre la notte passò e
venne l'alba del mattino. Quella mattina era la vigilia della festa di San
Giuseppe, appena svegliatasi dal torpore Girolamo chiamò a se' l'Ufficiale di
giornata che quel giorno comandava anche il corpo di guardia e chiese un
colloquio con il comandante della Fortezza Messinelli.
Dopo un'ora era nella stanza del Comandante,
le guardie attendevano fuori, il quadro del Re campeggiava sotto la bandiera
appesa alla parete, il Comandante lo accolse con affabilità.
Il Comandante aveva avuto modo di
parlare più volte di lui nei due mesi precedenti con fra' Leonardo e illuminato
dalle parole del religioso si era convinto che non fosse una spia, ma non
sapeva cosa fare di lui e non se la sentiva di mandarlo via. Il Messinelli,
profondamente religioso. aveva chiesto all'uomo di Dio di pregare, affinché si
manifestasse la volontà di Dio su quel prigioniero.
Perché Iddio glielo aveva mandato? La
richiesta di colloquio del prigioniero era la prova che il comandante aspettava
e Girolamo in cuor suo si sentì di chiedere di essere parte della guarnigione
della Fortezza per combattere con le sue milizie contro la Rivoluzione e per la
gloria di Dio. Era Girolamo stesso a chiedergli ciò. La guarnigione era
purtroppo a corto di uomini e una persona in più era sempre gradita, il
Comandante fece presente che la situazione era quasi disperata e che se fosse
rimasto avrebbe avuto poche possibilità di uscirne vivo ma in cuor suo ormai
sapeva che Girolamo non si sarebbe tirato indietro. Non si sbagliava. Girolamo
riconobbe in quel mondo la continuità con il mondo dei suoi padri, il mondo che
aveva lasciato là nel Golfo di Venezia, in quella splendida e gloriosa
Repubblica di cui si sentiva l'ultimo ambasciatore in terra borbonica. Anche i
suoi padri avevano dato testimonianza del loro onore e della loro fede contro i
Turchi.
Rivide in fra' Leonardo lo spirito e
l'esempio di fra' Giobbe, il Comandante Messinelli era come il Capitano General
da Mar, Bortoli Priuli, i soldati borbonici come le milizie venete di terra, i
popolani e i contadini che passavano nelle strade sottostanti non avevano un
senso dell'onore ed una fede diversa dai pescatori e degli abitanti della
Repubblica Veneta. Quando il Comandante lo affidò alle dipendenze del sergente
Cascione, Girolamo si sentì quasi sollevato da un fardello interiore chein quel
tempo di cella aveva accumulato.
Egli si sentiva quasi riconosciuto come
rappresentante, l'ultimo rappresentante di un mondo che già a Nord era
scomparso e che di lì a poco sarebbe scomparso con Civitella stessa,
indipendentemente dall'esito di quell'assedio e di quell'ultima battaglia. La
sua prima mattina nell'azzurrina divisa borbonica passò sugli spalti della
fortezza che dovevano essere mantenuti integri e atti a resistere al
connoneggiamento piemontese, scatenato come rabbiosa rappresaglia per la
mancata resa della città nonostante degli infiltrati piemontesi spargessero a
piene mani le notizie di scioglimento della stato maggiore borbonico.
Il giorno di San Giuseppe le focose
parole che fra' Leonardo pronunziò nell'omelia della S. Messa e poi nella
visita alla fortezza rincuorarono gli animi e tennero alto il morale a soldati
e popolo. Anche Girolamo si rincuorò e si affidò completamente a Dio, volle
diventare indifferente alla sua sorte, che vivesse o che morisse voleva essere
testimone in terra della Fede che univa l'Orbe cattolico, che univa i diversi
popoli che erano sparsi nella penisola italica nei mari solcati dalle galee
venete e lì avrebbe avuto modo di essere messo alla prova.
Purtroppo quella giornata non fu solo
importante per lui, ma per un altro e fatale accordo e, a differenza del suo,
un patto scellerato come lo sono tutti i tradimenti, si stava compiendo.
I pochi infiltrati della setta giacobina
avevano sparso a piene mani le assicurazioni che i piemontesi avrebbero usato
magnanimità con la popolazione e i soldati se si fossero arresi e tali
argomenti ronzavano nella testa di persone fisicamente provate da tanto tempo e
questo sporco lavoro dava i suoi frutti. Quei pochi infiltrati e un manipolo di
disonorati aveva nottetempo minato i portoni di Porta Napoli e si era portato
alla dimora dell'ex Comandante, il Colonnello Ascione, per liberarlo e
costituire una frangia interna filopiemontese che con la scusante di liberare
la popolazione da quell'ormai inutile resistenza consegnasse la città ai Savoia
e alla libertà rivoluzionaria.
Al segnale convenuto diedero seguito
alle loro nefande intenzioni e, divelti i portoni, permisero ad un'avanguardia
di piemontesi, precedentemente contattati, di prendere possesso della porta e
di penetrare nelle case attigue costituendo così una testa di ponte che divenne
l'appoggio per il prosieguo della battaglia.
L'alba del 20 marzo 1861 sarebbe stata
l'ultima per Civitella borbonica e l'inizio della Civitella
"liberata".
Il Comandante Messinelli fece dislocare
delle truppe nelle strade attorno a Porta Napoli e parecchi padri di famiglia
si unirono a loro per difendere i propri parenti sparando dalle finestre delle
loro case. I piemontesi richiamati in forze attraverso gli spazi conquistati
attorno a Porta Napoli penetrarono casa per casa, con l'aiuto di infami
traditori riuscirono ad impossessarsi di armi nascoste nelle case i cui abitanti
vennero uccisi a sangue freddo. Girolamo venne destinato con la truppa al
comando del sergente Cascione a difesa della porta carraia della fortezza
mentre nelle case a ridosso della strada che conduceva alla porta stessa due
donne che avevano visto morire i loro mariti qualche minuto prima presero le
armi per sostituirsi a loro e difendere i figli.
Si sentirono urla e spari, si sparse
nell'aria un acre odore di fumo, il pianto dei bambini.
I piemontesi puntarono dei cannoni verso
la porta carraia e fecero fuoco, dopo alcune scariche di fucileria caricarono.
Intorno a Girolamo ci furono dei vuoti,
dei soldati caddero colpiti a morte ed egli sentì chiaramente il lamento del
sergente Cascione affievolirsi sempre più fino a scomparire avvolto dalla morte,
ma non aveva tempo di vedere dove era caduto perché, richiamato dalla voce del
Messinelli dovette risalire gli spalti immediatamente sopra la porta ormai
divelta. Il gruppo di militi di cui faceva parte fu accerchiato ed altri
piemontesi passarono oltre sin sulla sommità della fortezza dove si trovava il
comando. Senza più munizioni, il sergente, Girolamo e gli altri otto militi
superstiti si arresero.Dopo poco vennero portati sugli spalti della rocca dove
trovarono degli altri sopravvissuti che si erano arresi assieme al comandante
Messinelli.
Tra loro risaltava la figura di Fra'
Leonardo. Si improvvisò un tribunale presieduto dal Comandante piemontese, che
con malcelata rabbia e falso dispiacere li accusò di aver cagionato perdite
all'esercito piemontese "liberatore" con una resistenza pertinace ed
inutile unitamente all'aggravante di aver rifiutato ed addirittura aver
combattuto con le armi i valori di libertà, fratellanza e progresso che loro
stessi portavano e di difendere l'ignoranza e la superstizione religiosa.
Tali reati che fomentavano anche la
resistenza di un popolo da troppo tempo tenuto nelle tenebre e nelle catene
della Monarchia meritavano la morte; e così venne di lì a pochi minuti
sentenziato dall'improvvisato tribunale con pena immediatamente eseguibile.
Girolamo e gli altri espressero la volontà di confessarsi prima ma il
comandante piemontese negò questa dilazione a quella esemplare esecuzione e
divise i condannati in due gruppi, uno in alto e uno in basso.
Fra' Leonardo dando le spalle al plotone
di esecuzione chiese al Comandante Messinelli ed ai soldati di recitare tutti
insieme il Confiteor con il Crocifisso tenuto a due mani e a loro rivolto
recitò, benedicendo, la formula dell'assoluzione: "Indulgentiam,
absolutionem et remissionem peccatorum nostrorum tribuat nobis omnipotens et
misericors Dominum". Pochi di quei 32 uomini riuscirono a terminare la
risposta "Amen!".
Una scarica di fucileria li falciò.
Girolamo non morì subito ma nel minuto che ancora Dio gli lasciò, con il comandante
Messinelli alla sinistra e Fra' Leonardo a pochi metri, sentì una grande,
serena pace con una gioia interiore che gli faceva pregustare l'essere di lì a
poco alla vista beatifica di Dio, d'essere suo coerede, assieme al mondo da cui
veniva e che nessun "Progresso" poteva portargli via, che avrebbe
goduto per sempre, un mondo fatto di Fedeltà ed onore, assieme ai suoi avi, a
fra' Leonardo, a fra' Giobbe, al Comandante Angelo Messinelli, a Bartolo
Priuli, assieme ai suoi compagni d'armi borbonici, a tutti i soldati veneti
morti nella storia, assieme agli abitanti di Civitella e ai pescatori veneti
della sua laguna.
Con lui tutto il suo passato e il
presente veniva assunto nella Gloria di Dio. Con il suo esempio personale e
quello delle persone che Iddio gli aveva messo intorno in quel preciso momento
della Storia aveva unito in un unico sacrificio l'ordine del mondo cattolico,
l'aveva offerto a Dio stesso e alla Storia:
La tiepida brezza vespertina del 20
marzo 1861 scorreva quasi accarezzando quei corpi insepolti e riportava
gioiosamente con sé trentadue anime, al cospetto dell'Eterno, nel cielo dei
padri.
Girolamo
Tagliapietra
Racconto inedito di Girolamo Tagliapietra vincitore di una Borsa di Studio al Concorso Letterario "Terra d'Abruzzo 2004" con la Giuria composta dall'On. Fabrizio Di Stefano (Presidente), Massimo de Leonardis (Ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore), Roberto de Mattei (Docente Universitario - Presidente della Fondazione "Lepanto"), Pucci Cipriani (giornalista e scrittore), Enrico Nistri (storico, giornalista).