Parere contrario:
l’assolutezza dogmatica, le battaglie sociali, un vuoto di fede
Un maestro e amico (come si dice delle
persone notevoli che abbiamo conosciuto), Michele Ranchetti, che ha
dedicato a Milani pagine importanti, scriveva di una «vita [quella
di don Lorenzo], tutta di vocazione senza tolleranze» (Ranchetti,
Scritti diversi, II, 1999, p.149). E sottolineava come una
fede con caratteristiche di «assolutezza dogmatica e di radicale
semplificazione», fosse la «condizione necessaria e sufficiente per
reggere tutto il resto», tutta l’architettura della personalità e
dell’azione del priore. Intuizione originaria di Milani sarebbe
stata quella che «solo l’obbedienza a Dio e ai suoi superiori gli
avrebbe dato il potere e la libertà». Avvertire il taglio troppo
drastico di queste tesi non vuol dire sottovalutarle. In effetti per
chi non abbia subíto l’incanto e la spinta emulativa che sempre
provengono da un carismatico, l’idea ranchettiana di una
personalità che si è precocemente armata, entro e fuori, per un
combattimento che renda possibile e giustifichi tutta un’esistenza,
calza perfettamente a don Lorenzo. La forma sui generis
militante del sacerdote cattolico, forma unica in campo cristiano,
che si era ridefinita a partire dai conflitti, ma anche dalle
alleanze, tra clero e regimi «rivoluzionari» durante la cosiddetta
guerra civile europea (1919-1945), era stata trasmessa e aggiornata
nel dopoguerra. L’ortodossia essenziale e la destinazione di sé
all’azione pastorale, certo, ma con modelli nuovi, plasmati su
quelli del militante politico e sindacale, furono per don Milani una
formula potente. Gli permise di congiungere la severa dolcezza verso
i suoi «figli» (i ragazzi di Barbiana) e l’intransigenza da
leader, insofferente ed «educativa», nei confronti degli altri,
anche per gli amici. Forse solo la madre e don Raffaele Bensi erano
trattati diversamente, da figlio.
Non sfugge che l’azione esterna lo
condusse su terreni di «battaglia» civile comuni alle sinistre, con
minore affinità col Pci, va precisato. La ferrea struttura
milaniana, per alcuni solo apparente, ma tenuta in piedi e
assiduamente coltivata nella comunicazione, va infatti oltre la
scuola. La figura del membro di ceti superiori, uomo o donna, che
alfabetizza i figli dei contadini ha una lunga storia nelle
aristocrazie e borghesie europee. In qualche misura, minima, Milani
appartiene a quella storia. Ma originale è l’offerta alla Chiesa
di un modello di prete di rigida osservanza formale, che nella
società del dopoguerra concorra con le figure prevalenti, laiche e
spesso atee, del militante politico «rivoluzionario», ed anzi
sostituisca. È un competere sul terreno alto della militanza
comunista, in particolare: la dedizione, il sacrificio e la
razionalità.
Certamente per Milani il vero operatore
del riscatto di classe era il prete; è nota una sua
affermazione-paradosso relativo alla scuola: si sarebbe dovuto
rinunciare alla scuola confessionale per una scuola laica in cui
fosse il prete ad insegnare. Il prete, l’unico maestro in se
stesso, per struttura, per indole, per sacramento forse; unico capace
di una dedizione esclusiva. Questi, però, sono anche il modello e la
retorica del maestro rivoluzionario.
E grava sul modello una utopia
autoritaria (basterebbe dire: utopia, da «rivoluzione culturale
cinese» — fu colto da Edoarda Masi), che la storia mondiale ha
invalidato e dissolto. Lo so: si possono invocare mille oggetti
concreti e immediati dell’azione di Milani che sembrano confutare
ogni tratto utopizzante. Ma la fustigazione del suo entourage adulto
e intellettuale e l’attaccamento ai ragazzi erano i modi peculiari
con cui il prete dava scacco al professionismo e al dottrinarismo del
comune attivista politico.
Le perplessità e le censure
ecclesiastiche che colpirono (debolmente) Esperienze pastorali
vedevano limpidamente. Mi permetto di ripeterlo spesso. Lo stesso
Bensi, che in classe (Liceo Galileo) ci aveva presentato la novità e
i valori, anche letterari, dell’opera, osservava privatamente che
il primato strategico dell’insegnamento della lingua (la lingua dei
giornali, la lingua dei «signori») su tutto il resto, inclusa la
formazione cristiana, era nel suo Lorenzo «illuminismo». In effetti
anticipare e forse amare di più la formazione umana «emancipatoria»
(di questo si trattava) rispetto alla formazione dell’anima, tanto
peggio se ritenuta quest’ultima alienante da sola, era un equivoco
drammatico in cui Milani cadeva, dopo tanti altri e almeno da un
secolo e mezzo di storia della Chiesa.
Cosa fu, allora, l’assolutezza
dogmatica del priore di Barbiana? Milani ha lasciato dietro di sé un
vuoto di fede cristiana. Forse, ancora negli anni Ottanta, questo
dato sembrava poca cosa: siamo tutti cristiani impliciti, anzi tanto
più autenticamente cristiani quanto più combattenti per la causa
dell’uomo. Ma le utopie e le retoriche sono in pezzi; resta,
invece, oggi la tragedia della comune fede indebolita o inabissata.
Non era certo necessario per fare scuola ai poveri costruire un mito
del clero cattolico come avanguardia, di una possibile armata (la
Chiesa) di emancipatori. Che ne fu in questo ardimento di Cristo e
della sua salvezza, della realtà e azione della vita soprannaturale,
della preghiera, dei sacramenti? Le recenti celebrazioni mi lasciano
sinceramente contrariato: sono veramente utili alla coscienza della
Chiesa, quando non vi è in esse cenno a quanti risvolti abbia la
vicenda Milani, a quanto contraddittorie e povere, spesso, siano le
sue eredità, a quanto sia stata preveggente (tutt’altro che in
errore) quella Chiesa che ne prese le distanze?
Pietro Di Marco
da "Il Corriere fiorentino" del 21 - VI - 2017
Pietro Di Marco
da "Il Corriere fiorentino" del 21 - VI - 2017
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