Domenica 5 giugno 2022 è stato presentato a Cecina, di fronte a un foltissimo pubblico, presso il Circolo culturale "Il Fitto", il libro di Pucci Cipriani: "Napoli città del Trono e dell'Altare: omaggio al Regno delle Due Sicilie"(Solfanelli). Alla presenza dell'Autore ha tenuto la sua relazione Vittorio Acerbi. Riportiamo di seguito il testo completo del suo intervento.
Probabilmente
l’idea di questo libro nasce da parecchio tempo, ma certo posso affermare che
in qualche misura abbiamo seguito la stesura (nonostante qualche preoccupazione
durante il percorso).
Ricordo
nitidamente quel 16 marzo, quando fu celebrata la Santa Messa in onore di
Francesco II. Fatto questo che non passò inosservato al principe Carlo di
Borbone; in quell’occasione volle personalmente ringraziare il professor
Cipriani. La ricordo ancora l'emozione di quel giorno. Emozione che si è
ripetuta pochi giorni fa quando il principe Carlo si è nuovamente congratulato
per la pubblicazione di questo libro. Prima ricordavo quella Santa Messa del 16
marzo, celebrata in un momento dove, per le restrizioni dovute alla pandemia,
non avremmo dovuto vederci. Nessuna aggregazione, nessuna evasione fuori dal
proprio comune di residenza. Eppure noi ci siamo visti ugualmente e, come
sempre, abbiamo ricevuto i sacramenti. Noi siamo irriducibili cristiani. Pur di
ricevere i sacramenti siamo disposti a passare dalle persecuzioni e dalle
catacombe. Dispiace constatare che queste ultime, purtroppo, sono spesso
favorite dalla nostra Chiesa. Ma non veniteci a parlare di comunione
spirituale, perché probabilmente avete sbagliato persone con cui parlarne.
Se
volessi cercare di riassumere il senso di questo libro, sceglierei proprio una
frase dell’autore che dice testualmente: “Oltre a conoscere la storia della
città e del glorioso Regno Duosiciliano, bisogna cercare di comprendere Napoli,
di viverla più che di guardarla e di giudicarla, tenendo conto che oramai tutto
il mondo si va omologando in un livellamento giacobino, dal basso.”
Benché
io conosca sommariamente Napoli, benché ci abbia soggiornato in due sole
occasioni, è tutto così estremamente bello quello che Pucci racconta. Dei suoi
ricordi in una città che, per quanto si sia omologata alla società odierna
infernale, esistono sempre quelle fondamenta che nemmeno la modernità è
riuscita a distruggere.
E
siccome io al caso non ci credo, non è un caso che quella che oggi si chiama
Piazza Garibaldi sia stata rinominata da alcuni esponenti di Fratelli d'Italia
(con tanto di striscione) “Piazza dell’Islam”. Non è nemmeno un caso che nella
mia vicina Livorno “Piazza dei Mille” sia una delle piazze con più
extracomunitari e con un alto tasso di criminalità.
Prontamente
ecco che Pucci ci riporta al bene, ricordandoci il miracolo del sangue di San
Gennaro che periodicamente si liquefà, in quella devozione popolare al martire
cristiano protettore della città che oggi, come allora, continua a
scandalizzare le eccelse menti moderniste.
Che
scandalizzò persino Garibaldi quando, una volta entrato a Napoli, si recò a
rendere omaggio a quelle ampolle portandosi al seguito Fra’ Pantaleo, frate
rivoluzionario con la camicia rossa, con tanto di spada e due pistole ai
fianchi che dall’ambone della chiesa annunciò Garibaldi come l’inviato da Dio
dopo Gesù Cristo.
E
lo stesso Garibaldi che dopo aver definito il Papa Beato “un metro cubo di
letame”, che dopo aver chiamato il suo ciuco Pio IX, definirà quel sangue “un’umiliante
composizione chimica, di cui dobbiamo frangere per sempre quell’ampolla
contenente il veleno.”
Ma
gli eroi di Napoli non si fermano solo a coloro che si opposero al
Risorgimento. Posto che questa “resurrezione” contenuta nell’etimologia del
termine Risorgimento, trova difficilmente conferma nell’efferatezza e
nell’invasione piemontese. Resurrezione per noi ha un significato ben preciso,
di cui possiamo toccarne con mano la testimonianza negli 800 martiri della
chiesa di Santa Caterina a Formiello. Gli 800 martiri di Otranto che nel 1480
furono uccisi dai turchi per non aver rinnegato la propria fede.
814
per la precisione che vennero tagliati in 2 parti e ricuciti metà uomo, metà
donna e impalati lungo le mura della città.
E
sempre contro i Turchi, quasi un secolo dopo, nel 1571, sarà consegnato, nella
basilica di Santa Chiara, a don Giovanni d’Austria, il vessillo pontificio di
papa Pio V che sventolerà vittorioso nella battaglia di Lepanto.
Santa
Chiara che è anche l'edificio in cui si trovano le tombe del re Francesco II e
della regina Maria Sofia, e dove si trova la tomba di un personaggio che molti
di voi ricorderanno, perché più vicino ai giorni nostri. Il Servo di Dio
Vicebrigadiere Salvo d’Acquisto che, pochi giorni prima di quel sacrificio
aveva scritto alla madre “Bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio a prezzo di
qualsiasi dolore e di qualsiasi sacrificio.”
Quando
ho letto queste parole non ho potuto fare a meno di pensare ad un altro
napoletano, il santo Giuseppe Moscati quando dice: “Se la verità ti costa la
persecuzione, tu accettala; se tormento, tu sopportalo. E se per la verità
dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, tu sii forte nel sacrificio.”
Una
cristianità napoletana che passa dal miracolo del sangue di San Gennaro, ma che
passa anche dal sangue di un’altra santa di Napoli, Santa Patrizia di
Costantinopoli, le cui spoglie si trovano a San Gregorio Armeno. La tradizione
vuole che un cavaliere abbia passato la notte in preghiera per chiedere una
grazia a Santa Patrizia e, al fine di poter venerare una sua reliquia, tolse un
dente dal corpo di Patrizia di Costantinopoli da cui iniziò a sgorgare un fiume
di sangue che fu raccolto in due piccole ampolle. E periodicamente, sempre a
Napoli, anche quel sangue si liquefà, nello stupore del bigottismo odierno che
tutto vorrebbe spiegare.
Una
Napoli quindi che è fortemente legata ai suoi santi protettori. Il 22 maggio mi
trovavo a Cascia in occasione della ricorrenza di Santa Rita e fui stupito
dalla quantità di napoletani che vidi quel giorno; salvo poi scoprire che Santa
Rita è copatrona di Napoli.
Questa
fede non si concretizza soltanto nei suoi santi, ma anche nei suoi
intellettuali, nei suoi scrittori, nei suoi politici. Un caso è quello di
Ferdinando Russo, poeta dialettale che per venti anni aveva scritto su “Il
Mattino” e che d’improvviso fu licenziato per il suo essere reazionario,
borbonico, sanfedista. Medaglie al valore diremo noi. Aveva pagato il prezzo di
stare dalla parte dei vinti e adesso veniva collocato nel ghetto degli
intellettuali napoletani.
Molte
sono le personalità legate alla Tradizione di Napoli di Pucci ricorda le gesta
e, come giustamente egli stesso precisa: “la Tradizione non può che essere
cattolica.”
Mi
ha particolarmente colpito la testimonianza di “Fede e Libertà”, realtà che non
conoscevo; un movimento cattolico nato negli anni ’80 da un gruppo di giovani
che non solo faceva politica a parole, ma faceva attivismo politico in nome
della Tradizione Cattolica: Rosario ogni sera in sede, ogni primo venerdì del
mese Adorazione Eucaristica, battaglie in difesa della famiglia, contro
l’aborto e la droga.
Perché
la fede è proprio questo: o è un avvento che investe ogni ambito della nostra
vita, politica compresa, o è solo un’attività da svolgere in chiesa un’oretta
tutte le domeniche.
Siccome
questo libro non è solo un viaggio nei ricordi napoletani dell’autore, ma anche
un omaggio alla capitale del Regno delle Due Sicilie; e siccome è peccato
mortale parlar male del Risorgimento e di Garibaldi, biondo eroe con l’orecchio
mozzato, non si sa se dovuto al morso di una donna che violentò o se fu una
punizione inflittagli in America Latina, poiché questa era la sorte dei ladri
di cavalli (sì perché Garibaldi nel 1835 si era rifugiato in Brasile dove
all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere).
Pensate
a quanto quel Risorgimento ha stravolto l’Italia, fra un nord che era in forte
miseria e un sud che, al contrario, era ricco e prospero. Inutile evidenziare
quanto il Regno delle Due Sicilie fosse, in Italia, il regno più
all’avanguardia nel progresso tecnologico.
Tutti
voi conoscete la prima ferrovia in Italia che collegava Portici a Napoli.
Tratto ferroviario che comprendeva anche il primato della prima galleria. Non
solo: l’installazione del primo telegrafo tecnico; il primo osservatorio
astronomico a Capodimonte; il primo osservatorio meteorologico e sismologico
sul Vesuvio. Dopo Londra e Parigi, a Napoli fu installata la prima
illuminazione elettrica su strada. La flotta borbonica, prima nel Mediterraneo
e quarta nel mondo; la prima nave a vapore (italiana), la Ferdinando I,
che faceva la tratta Napoli-Palermo in sole diciotto ore. In Sicilia il primo
transatlantico, un piroscafo ad elica che attraversò l’Oceano per arrivare a
New York.
Tutto
questo depredato e cancellato da molti libri di storia.
Utilizzo
le parole di un caro amico, il professor Regazzoni che definisce Garibaldi “un
povero imbecille di fronte ad un Cavour, genio sì, ma genio del male.” E
siccome questa potrebbe risultare un’opinione isolata, è indispensabile
ricordare un rapporto scritto proprio dagli insegnanti di Garibaldi che dice
testualmente: “un ragazzo di scarsissima intelligenza, forse un minorato
mentale… quello che volgarmente si chiamerebbe un cretino. Ignorante come una
talpa, nella nostra biblioteca non ha mai chiesto un libro da leggere.”
C’è
pure una lettera indirizzata a Cavour, dove Vittorio Emanuele descrive così il
presunto eroe dei due mondi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la
sgradevolissima faccenda Garibaldi. Questo personaggio non è affatto docile né
così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento
militare è molto modesto, come prova l’affare Capua, e il male immenso che è
stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è
da attribuirsi interamente a lui che si è circondato di canaglie, ne ha seguito
i cattivi consigli e ha piombato questo paese in una situazione spaventosa.”
E
siccome questo individuo per noi non rientra nella categoria di patriota, alla
nostra storia serve un “antagonista”, un eroe che stia dall’altra parte della
barricata (per inciso: quella dove ci poniamo anche noi). E allora non basta
Gaeta, non basta Civitella, non basta Francesco II, non basta la regina Maria
Sofia che combatté eroicamente sugli spalti della fortezza di Gaeta insieme
agli altri soldati; ecco giunge in nostro soccorso l’eroe romantico di questa
pagina di storia: José Borjes che al grido di “Per Dio, la Patria e il Re”
sposò la causa del Regno delle Due Sicilie.
Nel
luogo in cui morì Borjes, e vi dirò fra poco come muore, fu fatta mettere una
targa che recitava queste parole “soldati italiani che prodamente
debellavano l’ardita banda mercenaria che, capeggiata da José Borjes, mirava a
restaurare il nefasto regime borbonico.”
Non
spendo ulteriori parole per controbattere il finale perché sarebbe pleonastico;
Borjes non arrivò in Italia con mille uomini, né con le finanze della corona
d’Inghilterra. Borjes aveva con sé 22 uomini e 20 fucili. E questa targa lo
chiamava mercenario. Uso l’imperfetto perché fortunatamente gli abitanti di
Tagliacozzo sono riusciti a far togliere quella targa, mettendone una in favore
di quegli eroi dove, ancora oggi, sventola la bandiera borbonica. Tra i tanti
appellativi che leggerete di Borjes, troverete anche “brigante”. Inutile
dire quanto nell’immaginario collettivo e nel sistema scolastico italiano si
sia costruita “ad hoc” l’immagine del brigante come un malvagio
tagliagole. Noi sappiamo benissimo che questi briganti combattevano contro un
invasore e combattevano per una causa. Nel suo ultimo scontro a fuoco, a Borjes
fu fatta la promessa di aver salva la vita, la sua e quella dei suoi soldati,
se si fosse arreso. Una volta arresisi i ribelli, furono fatti spogliare delle
divise per indossare degli stracci sporchi. Eccola qui creata ad arte
l’immagine del brigante, non quello del soldato che conserva la divisa e
l’onore di fronte all’imminente morte. Borjes morirà dopo essergli stata negata
la confessione, invocando il nome di Dio e del re.
Prima
ho citato Fra’ Pantaleo, il frate rivoluzionario che accompagnava Garibaldi e
lo annunciava come l’inviato da Dio, manco fosse Giovanna d’Arco.
Quindi
non posso fare a meno di ricordare un altro ecclesiastico (lui sì) padre
Leonardo Zilli, cappellano militare, francescano che con grande devozione ogni
giorno celebrava alle ultime truppe di Civitella la Santa Messa. Quando cadde
Civitella del Tronto, Fra Leonardo Zilli fu fucilato alla schiena e gli fu
negata l’Eucarestia.
Ecco
che non posso fare a meno di pensare al Risorgimento come ad un mistero
dell’Iniquità; la grande Parodia che fa il deserto e lo chiama pace; che
stabilisce l’arbitrio dei poteri forti e lo chiama libertà; che fonda il potere
del profitto e lo chiama giustizia; che avvelena e distrugge il mondo e lo
chiama progresso; che semina angoscia e disperazione e le chiama felicità.
L’ultima
volta che siamo stati a Civitella è stato a novembre. Approfittando di una
pausa dal nostro annuale convegno, vado a fare una passeggiata. Ormai sono
pochi gli abitanti, un po’ perché è la triste realtà di tutti i borghi
d’Italia, un po’ perché è zona sismica. Ad ogni buon conto, faccio la
conoscenza di due anziane signore di Civitella. Visti i pochi abitanti, avranno
già capito che sono uno straniero in quella terra. Ci scambio qualche parola
sul motivo del mio soggiorno scatenando il loro entusiasmo e il loro giubilo.
Prima di congedarci, dopo una battuta scherzosa sul tricolore, una delle
signore mi disse: “Qua di tricolori non ne vedrai, eccetto il comune che
deve salvare le apparenze; qua la bandiera ce l’hanno imposta, ma per noi c’è
solo una bandiera.”
Questo
sentimento che vi ho raccontato non è solo di Civitella, è di molti altri
paesi, di molte altre persone che rinnegano quell’unità, che fu forzata e
forzosa.
A
questo punto mi viene doveroso fare una considerazione personale. Se mi
chiedete se sono contrario all’Unione (non Unità, che tra l'altro ricorda
testate giornalistiche a me poco gradite) d’Italia nel senso di “italianità”,
vi risponderò di no, non sono contrario. Ma è doveroso raccontare quello che fu
commesso, a Civitella, come in tutto il sud Italia. E visto che ormai da quella
unità sono passati più di 160 anni, mi sembra lecito esigere l’onestà
intellettuale di raccontare i fatti.
Essere
nostalgici non serve a niente. Essere nostalgici significa vivere col rimpianto
di tempi che sono passati e che necessariamente non torneranno. Ho trentadue
anni, quindi sono ben lontano da quei tempi che furono. A noi compete essere
realistici nei tempi in cui siamo costretti a vivere; fasti o nefasti che
siano. Ciò non toglie che possiamo guardare al nostro passato: conoscere,
comprendere, finanche abbracciare quei valori per cui combatterono i nostri
nonni e i nostri bisnonni. Questo sì, lo reputo virtuoso.
Concludo
con le parole di Francois-René De Chateaubriand che illuminano la giusta via
per capire il senso e lo spirito di questo libro che Pucci ha voluto scrivere:
“Il
mondo era stato sedotto dicendo che il cristianesimo era nato in seno alla
barbarie, assurdo nei dogmi, ridicolo nelle cerimonie, nemico delle arti e
delle lettere, della ragione e della bellezza; un culto che non aveva fatto che
versare sangue, incatenare gli uomini, ritardare la felicità e i lumi del
genere umano. Bisognava dunque cercare di provare il contrario, cioè che, di
tutte le religioni mai esistite, quella cristiana è la più poetica, la più
umana, la più favorevole alla libertà, alle arti e alle lettere; che il mondo
moderno le deve tutto, dall’agricoltura fino alle scienze, dai ricoveri per i
bisognosi fino ai templi progettati da Michelangelo e decorati da Raffaello.
Era necessario dimostrare che nulla è più divino della sua morale, nulla è più
amabile, più grandioso dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto. Si
doveva dire che essa favorisce il genio, affina il gusto, sviluppa le passioni
virtuose, dona vigore al pensiero, offre forme nobili allo scrittore, e stampi
perfetti all’artista.”
Vittorio Acerbi